Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.
Il mondo muta celermente per trend mondiali quali globalizzazione, rapidi rinnovamenti delle tecnologie, incessanti migrazioni, cosiddetto “meticciato” culturale, veloci comunicazioni transnazionali. Taluni ritengono questo scenario agitato da forze distruttrici della compattezza delle organizzazioni sociali; altri, invece, reputano che esso offra molteplici occasioni di sviluppo sociale oltre che personale.
La globalizzazione può fornire opportunità di dialogo fra culture ma essere anche foriera di settarismo e smantellamento del capitale culturale e del patrimonio delle differenze. Gli uomini riusciranno a tutelare concordia ed adattabilità oppure, al contrario, prevaricheranno le funeste inclinazioni al nazionalismo ed all’intolleranza?
Questa si profila come la sfida più considerevole del tempo a noi coevo. Per aggiudicarsi la vittoria servono nuove decise dinamiche d’ordine squisitamente culturale. Il faro ispiratore dev’essere costituito dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani”; nella fattispecie, dagli artt. 12 e 13, i quali, indubitabilmente, sanciscono il diritto d’ogni essere umano ad esercitare libertà di movimento, partire da qualsivoglia Paese, incluso il proprio, per ritornarvi successivamente. È, pertanto, lampante che il diritto internazionale non conceda ad alcuno Stato d’influenzare il rispetto dei diritti umani né d’inficiare lo status giuridico della persona né di condizionare alcun’altra circostanza contingente.
Ebbene, da ciò scaturisce immediatamente che gli individui, potendo liberamente muoversi, incontrano culture differenti da quella d’origine. Ne consegue l’urgente necessità di eliminare tutte le forme di discriminazione razziale, di cancellare tutte le forme di discriminazione contro le donne, di espungere tutte le forme di discriminazione in materia di lavoro ed occupazione. La costruzione dell’identità nazionale non può più fondarsi sul concetto di una comunità omogenea, rigidamente blindata entro i limiti di confini strettamente definiti.
Il mercato del lavoro, le politiche di welfare, i sistemi educativi, le organizzazioni pro-sociali intersecano l’integrazione considerata quale “processo sociale” e, allo stesso tempo, tangono l’integrazione dei migranti quale obiettivo cosciente di strategie pubbliche. Il lavoro può produrre crescita professionale e stimolare lo sviluppo di attività autonome; le misure di welfare possono sia proteggere che attenuare disuguaglianze; l’educazione può rappresentare un valido ascensore sociale; le associazioni pro-sociali possono arginare discriminazioni ed arrestare razzismi. “Assimilazione”, “inclusione”, “incorporazione”, “interazione”?
Ciascun lessema manifesta pregi e difetti. Essi persistono nell’indicare come responsabili le istituzioni delle società ospitanti ed i membri di queste stesse ma occorre enfatizzare che il mutuo scambio, la reciproca accettazione e la comunicazione aperta sono elementi basilari e fondanti dell’inclusione di gruppi o singoli d’origine differente in vista d’un abbattimento radicale di dominazioni, discriminazioni, scontri, contrapposizioni.
Un utile medium potrebbe essere rappresentato da un comune codice linguistico stimolante la comprensione, la familiarità, ovverosia la reale integrazione sociale. L’integrazione è un processo multifattoriale esteso nel tempo, un percorso con plurime sfumature e molteplici sfaccettature, un iter faticoso multidimensionale. Nelle dinamiche d’integrazione sono coinvolte aree di pubblico rilievo, si pensi a tal proposito proprio alla conoscenza e competenza linguistica, ed aree coinvolgenti la sfera privata, si guardi in tal senso alla libertà religiosa. L’integrazione non prevede un sotteso e certo evoluzionismo, una linearità progressiva bensì una ricca articolazione tra dimensione collettiva ed individuale, una texture tra la fruizione consapevole di quanto offra la società ricevente ed i legami etnici. Essa assume peculiarità locali e specificità contestuali. Naturalmente, il potere politico riveste immense responsabilità nell’incentivare o ostacolare l’integrazione.
La lotta al razzismo e la susseguente emancipazione dei migranti pretendono un alleato solido, cioè la solidarietà capillarmente diffusa sul territorio.
Che si ragioni in merito al significato stesso di “cittadinanza” da rimodulare sulla scorta del fenomeno migratorio.
Un movimento di solidarietà che sia parte integrante della medesima sfera pubblica e che sia esteso sui territori si profila come un alleato inderogabile per i migranti: la società civile si spende nel dare aiuto tangibile, giudiziario e medico. Questo compito partorisce una cognizione esaustiva delle società locali, la quale può essere adeguatamente convertita in dispositivo di sollecitazione politica. Infatti, gestire un territorio impone un patrimonio conoscitivo che le Istituzioni riescono improbabilmente a rinvenire escludendo d’interrogare coloro che su quello specifico territorio operano. La politica territoriale, urbana, è in grado di ribaltare la pericolosa tendenza all’attrito ed alla disuguaglianza: servendosi dei sistemi di welfare locali si può efficacemente bloccare lo “sfarinamento sociale”.
Prassi di inserimento, anche informali, all’interno della trama cooperativa, associativa e professionale, consentono di pressare strumenti istituzionali e stimolare pratiche politiche innovative volte, appunto, ad un’integrazione reale e vera.
Quali sono i timori degli italiani?
Sul muro di una bocciofila nel milanese si legge “Quando milioni di poveracci sono convinti che i propri problemi dipendano da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti”
Gli italiani si preoccupano innanzitutto di perdere il proprio posto di lavoro, di dover mantenere i servizi sociali, di risiedere in città pericolose ed essere infettati da mali indefiniti portati proprio dagli immigrati. Va da sé che la mancanza di informazione regni suprema e che parte della classe dirigente soffi sul fuoco della diffidenza, producendo lampante ostilità. Basterebbe meditare sul fatto che laddove in Italia il lavoro aumenta, aumenta complessivamente: sia per gli italiani che per gli immigrati; laddove cala, cala per tutti: sia per gli italiani che per gli immigrati. Quanto al debito pubblico, ebbene più individui che giungono qui da noi vogliono significare più lavoro, quindi maggior reddito nazionale, pertanto minor debito che ciascuno di noi contrae.
Si tratta di paure totalmente ingiustificate tese a trovare il “capro espiatorio”. Il migrante è un nemico immaginario costruito in maniera artificiosa ed in modo artificiale. L’odio nei confronti degli immigrati non è una disputa culturale bensì il prodotto di un’estesa instabilità della popolazione autoctona, di una incertezza economica ed esistenziale, tale per cui lo “straniero” attira le nostre inquietudini. Ecco, allora, l’uso di termini militareschi come «invasione» e «difesa dei confini».
La rabbia diviene funzionale a consolidare il potere politico e le strutture su cui si fondano le classi dominanti; il sospetto e la paura solidifica posizioni elitarie. La “criminalizzazione delle minoranze etniche” non contribuisce a sedare le tensioni. La criminalizzazione degli stranieri fa sì che il disagio non venga ascritto a ragioni strutturali insite alla società bensì ad un fattore esterno: il migrante. La discrasia nasce in seno ad una società che ha urgenza degli stranieri per custodire concorrenziale il sistema produttivo ma che, al contempo, li disegna come rivali infidi sul mercato del lavoro e adito alle risorse del welfare. Anziché avversione bisognerebbe avvertire compartecipazione di destino: noi siamo già o saremo in un breve lasso temporale esattamente come loro. Domina per tutti la precarietà, lavorativa, salariale, abitativa ed esistenziale, in un’intelaiatura sempre più misera di solidarietà istituzionale.