Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
C. Ginzburg, La lettera uccide
Adelphi, Milano 2021, pp. 252, € 30,00.

Proprio perché composto da una varietà di temi, per la cui eterogeneità è a volte facile smarrirsi, come se si fosse nel mezzo di un labirinto, questa nuova raccolta di saggi di Carlo Ginzburg rappresenta un prezioso inventario di riflessioni sul lavoro dello storico e, in particolare, sul valore per la storiografia della dimensione letterale delle fonti. Che si tratti del testo biblico, del Trattato teologico-politico di Spinoza, di un opuscolo ormai sepolto dai secoli o di un semplice, oscuro frammento, ciò che conta è aver ben presente quanto siano imprevedibili le vie della ricerca.

Inoltre, rifacendosi alle lezioni di Bloch e di Auerbach, Ginzburg non fa che ribadire come il singolo caso concreto, anomalo ed eccentrico rispetto alla generalità dei casi, possa diventare sempre un’occasione privilegiata per giungere a sintesi inaspettate.

Coloro che hanno familiarità con la ricerca d’archivio sanno che è possibile sfogliare un gran numero di filze e ispezionare rapidamente il contenuto di una gran quantità di scatole, per poi fermarsi di colpo, folgorati da un documento su cui magari passeranno degli anni. Analogamente, una gallina (spero che nessuno si senta offeso da un paragone del genere) zampetta qua e là, guardandosi intorno, prima di afferrare un verme nascosto sottoterra. […] I casi anomali sono particolarmente promettenti, dato che le anomalie, come notò Kierkegaard, sono più ricche, sul piano cognitivo, delle norme, perché le anomalie includono necessariamente le norme – mentre non è vero l’inverso (p. 83).

Leggere la storia “contropelo” è un altro modo per definire la microstoria. Far emergere nelle tracce lasciate dagli attori nelle fonti, le rivelazioni involontarie che possono a loro volta dimostrare la realtà dei rapporti di forza e di oppressione, ecco ciò che la microstoria sa fare benissimo. Lo fa occupandosi di temi generali, concentrandosi sempre su una prospettiva circoscritta e minuta, ma anche occupandosi delle ambiguità del linguaggio umano, della ineliminabile mutevolezza della lingua, mutevolezza che si riversa invariabilmente anche nel lavoro storico. In altri termini, anche un caso eccezionale dal punto di vista documentario, può rimandare a fenomeni assai più diffusi nella realtà storica.

Si tratta, con la microstoria, di scendere in profondità nei meandri del caso individuale, microscopicamente come si è soliti dire, per poi risalire alla superficie delle soluzioni teoriche. In questo senso, la microstoria è tutt’altro che un semplice lavoro di scavo per far riemergere dal passato i dimenticati, gli anonimi, gli «uomini infami», per usare la celebre formula foucaultiana. Occorre invece abbattere le «barriere che dividono la microstoria dalla teoria – e la microstoria “sociale” dalla microstoria “culturale”. Una vita scelta a caso può rendere “concretamente visibile” il tentativo di unificare il mondo, e le sue implicazioni» (p. 24).

Fra i saggi che compongono La lettera uccide, ci ha colpito in particolar modo quello all’utilizzo dei cataloghi informatici (Conversare con Orion), di cui oggi tutte le biblioteche dispongono. Essi non rappresentano soltanto una facilitazione per individuare la disponibilità di ciò che già si conosce e si cerca, ma possono essere dei veri “motori di ricerca”, ovvero possono farci conoscere ciò che non si conosce per nulla. Anche se non può esistere ovviamente la casualità assoluta, è consigliabile ricorrere all’imprevisto, utilizzando criteri provvisori e arbitrari, appunto per entrare in contatto con tracce sconosciute.

Tra i presupposti di questa strategia di ricerca c’è in primo luogo quello di aggirare, sia pure temporaneamente, i presupposti della ricerca stessa. Il catalogo on-line, opportunamente interrogato, fa la parte dell’avvocato del diavolo. Certo, il disorientamento può durare una frazione di secondo: di solito le domande, i presupposti riprendono subito in mano la situazione. Ma con la domanda imprevista posta dalla documentazione affiorata in maniera casuale bisogna continuare a fare i conti. Anche nella ricerca, come negli scacchi, le aperture sono importanti, talvolta decisive. In ogni caso pesano a lungo (p. 139).

Questa prospettiva storiografica, che può declinarsi in mille modi diversi, pare tutta orientata sui confini: il confine fra le culture, il confine fra sacro e profano, il confine fra razionalità e irrazionalità. E in questo senso sono molto interessanti le riflessioni di Ginzburg sulle ricerche di Ernesto De Martino sulla «crisi della presenza» e sul mondo magico (Verso «La fine del mondo»), perché appunto ci rimandano al momento critico rappresentato da ogni incontro/scontro fra culture e, ad esempio, agli sforzi propri dell’etnopsichiatria, ovvero della cura della salute mentale in soggetti che si riferiscono ad un mondo culturale e linguistico “altro” dal nostro.

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