Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Per comprendere appieno la portata spirituale dell’opera hegeliana occorre soffermarsi sulla prefazione del capolavoro del filosofo di Stoccarda: La fenomenologia dello spirito. Qui, come ben messo in luce da Marco Vannini, appare chiaramente come l’itinerario dello spirito si costituisca come la storia di un individuo che, evangelicamente, morendo a sé stesso, alla sua particolarità, attraversando tutte le figure e stazioni del suo cammino, penetri, alla fine, in ciò che è oltre ogni figura e ogni stazione: l’Assoluto. Ma, per accedere al regno dello spirito, occorre prendere congedo dall’umana finitezza solo dopo averla assaporata fino in fondo. Dimorare presso il negativo, «permanere nell’assoluta devastazione, nel dolore infinito della morte», è il viatico per diventare tutt’uno col Tutto. La totalità dell’essere, però, e qui Hegel mostra la sua distanza da Spinoza, non è sostanza, ma soggetto; non immota, rigida realtà, bensì movimento, realtà in atto, Wirklichkeit.
La concezione spinoziana di Sostanza, della quale pensiero ed estensione non sono che parti/attributi, arresta il movimento dell’auto-coscienza, il farsi spirito da parte dello spirito. «Il vero è l’intero», ma l’intero non va inteso come essenza fissa, una verità che resta sempre uguale a sé stessa, bensì come processo, realtà attuantesi, riflessione di sé in sé-stesso.
Questa riflessione di sé in sé, questo ribollire dello spirito che non è sé stesso, ma diviene sé stesso, non è altro da ciò che i mistici chiamano distacco: il trascendimento di ogni determinazione finita che pretenda d’affermarsi senza il suo legame costitutivo con l’infinito di cui è parte ed espressione.
La verità racchiude in sé anche la sua negazione – afferma Hegel. Occorre indugiare su questa frase che porta alla luce il cuore del filosofare hegeliano: la dialettica.
Dire che l’Assoluto non è Sostanza, ma realtà operante, vivente (Wirklichkeit, realtà effettuale, deriva Werke, opera, e da Wirken, operare) significa collocarsi all’interno dell’orizzonte cristiano. Solo in tale tradizione spirituale l’Assoluto non è pensato come Pirncipio trascendente, bensì come Vita, Spirito che s’incarna e dimora nella finitezza, sopportando la potenza annichilente del dolore e della morte. L’Assoluto, senza il suo divenire, il suo immanere nella storia, non sarebbe. Ne è prova di ciò la vicenda del Cristo, il quale afferma di sé «Io sono la via, la verità e la vita». L’Assoluto non solo deve assumere forma umana, ma deve passare per la morte dell’anima, per la negazione, e, alla fine, affermarsi come negatio negationis, come il superamento della contraddizione. Occorre dunque superare la visione dell’intelletto astratto, il quale non coglie la verità come intero, come spirito (continuo passaggio dal positivo al negativo, dall’essere al nulla), ma come mera aggregazione di parti. Per pensare davvero il movimento in cui consiste la vita, bisogna pensare ogni determinazione finita non nella sua morta unità, nel suo rigido isolamento, ma in relazione con ogni altra determinazione e, parimenti, con la totalità dinamica del reale la cui trama, appunto, è l’intreccio indissolubile di ogni momento del vero, il suo «trionfo bacchico». A tal riguardo, Hegel afferma che vero e falso non sono essenze determinate, poste l’una di fronte all’altra nella loro dogmatica auto-identità. Il falso è momento strutturale del dispiegarsi del vero; allo stesso modo, «c’è tanto poco un cattivo», inteso come sostanza autosufficiente che, solo secondariamente, si pone in relazione al suo opposto, ossia la bene. L’ineguaglianza, la distinzione, è elemento essenziale al sapere, così come, in Spinoza, le idee inadeguate hanno la stessa necessità di quelle adeguate. Il sapere consiste non solo nel cogliere l’intrinseca relazionalità del reale, ma, ancora, nel rilevare il momento della mediazione, della moventesi eguaglianza con sé, della riflessione in sé stesso. Accedere al vero significa varcare la soglia della mediazione. Il mediatore per eccellenza è il Figlio, ovvero il Lògos. Il Lògos è la sintesi di umano e divino, finito e infinito, e, al tempo stesso, il superamento della loro opposizione. Il distacco dello spirito è un reciproco compenetrarsi in cui è tolta l’irrelatività dell’alterità. Aufhebung, termine fondamentale del lessico filosofico hegeliano, è un togliere che conserva, un negare in cui l’alterità è redenta dalla sua unilateralità e, per questo, mantenuta nel suo carattere relazionale. Espressioni come «unità di soggetto e oggetto», finito e infinito, vanno intese bene. Innanzitutto, tale unità, come già rilevato, non unisce termini anteriormente auto-sufficienti che, soltanto successivamente, entrano in relazione tra loro, ma indica un’unità strutturale.
L’infinito si inscrive, dunque, nella stessa trama del divenire. Nel divenire dello Spirito la negazione, lo si è visto, è condizione essenziale all’essere concreto dello Spirito, il quale è, al contempo, distinto e inseparabile dalle sue determinazioni. Come insegna Spinoza, e prima di lui gli Scolastici, ogni determinazione è anche negazione. Un albero, ad esempio, è tale in quanto si presenta come una connessione di determinazioni, ognuna delle quali non è né l’altra né la totalità costituita dall’albero. Ogni determinazione si afferma come determinazione solo nella negazione della determinazione opposta; ogni positivo è positivo in quanto nega il suo opposto, il negativo, e, dunque, si configura come positivo e negativo insieme. Il fiore è in quanto nega la gemma, la gemma in quanto nega il seme. L’albero è l’esemplificazione dell’essere concreto dello Spirito, il quale è un divenire di determinazioni che non permangono nella loro rigida solitudine.
In questa prospettiva è bene leggere la famosissima proposizione hegeliana che campeggia nelle primissime pagine dei Lineamenti di filosofia del diritto: «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale». L’identità di razionale e reale non si manifesta in ogni singolo frammento della realtà. L’accidentale non è reale perché non è razionale. Ossia, non è reale perché determinazione che si isola senza porsi in relazione alle altre. L’identità di reale e razionale, posta dal filosofo di Stoccarda, è identità di reale e relazionale. Reale, e dunque razionale, è solo ciò che esprime la sua intrinseca relazionalità.
La frase perentoria del filosofo, quindi, non può essere intesa come l’espressione di un uso totalizzante della ragione, come gli viene aspramente rimproverato dai suoi critici. Essa, contrariamente, manifesta il corretto intendimento di ragione e di realtà. La ragione è ragione, in senso forte, solo allorché rivela l’intrinseca dialetticità del reale, trascendendo, così, la parzialità dell’intelletto, il quale è incapace di aprire lo sguardo al movimento triadico dello Spirito, alla dinamicità del suo divenire-se-stesso.
Ragione, più profondamente, è la realtà che diventa cosciente di sé. La coscienza di Dio, dell’Assoluto, è la coscienza che Dio ha di sé. L’autocoscienza di Dio è l’autocoscienza dell’uomo. Il pensiero che indica l’infinito è l’infinito stesso che, nelle pieghe del tempo, della finitezza, diviene trasparente a sé stesso. Questo esito mistico del filosofare hegeliano trova la sua più adeguata incarnazione nella musica shoegaze, in particolare in quella degli Slowdive, una delle band, insieme ai My Bloody Valentine e ai Ride, più rappresentative del genere. Lo shoegaze sboccia in Inghilterra, alla fine degli anni Ottanta. Questo termine così bizzarro fu coniato per descrivere l’attitudine di chitarristi e bassisti. Il termine difatti è composto da shoe (scarpa) e da gaze (sguardo). I chitarristi e i bassisti erano soliti fissare lo sguardo sui pedali, quasi disinteressandosi del pubblico, avvinti da una costitutiva ritrosia. Già in questo atteggiamento, apparentemente privo di significato, rinveniamo un punto di contatto con la filosofia hegeliana.
Il filosofo di Stoccarda, infatti, in accordo con la mistica medievale, pone in grande risalto il valore gnoseologico, e non solo morale, dell’umiltà. In particolare, egli sostiene che nell’umiltà della vecchietta intenta a pregare, in quella devozione pura, semplice, c’è già il trascendimento della volontà naturale e l’apertura dello spirito all’assolutezza dello Spirito. Andacht, devozione, fa notare Vannini, è imparentato al verbo denken, pensare. Nella devozione, la stessa che muove lo shoegazer che cuce il suo sguardo ai pedali della chitarra, l’io rinuncia alla sua illusoria centralità per immergersi nell’impersonalità dell’universale. L’universale, l’Assoluto, nel contesto della musica shoegaze, è costituito da un muro quasi impenetrabile di chitarre. Questa cascata fragorosa di intrecci chitarristici, in cui l’effetto della distorsione del suono, ottenuta proprio attraverso l’uso virtuoso dei pedali (overdrive, fuzz, delay e riverbero), sommerge la voce del cantante, la quale diventa un’eco lontana, che, invasa dalla leggerezza di una grazia inconsueta, emerge dall’impetuosità della musica, come una scheggia di luce su un mare infuriato.
Gli Slowdive, sfruttando la voce eterea, quasi ultraterrena, di Rachel Goswell, che si affianca a quella dolce e sommessa di Neil Hastead, si presentano come la band shoegaze che più di tutte ripropone questa sintesi mirabile tra l’universale di un suono imponente e la rarefazione di una voce che, nel suo deliquio mistico, segna l’immersione dell’io, del singolo, nell’oceano di luce dell’Assoluto. In quest’oceano del suono, in cui i confini si slabbrano, l’energia tipica del rock si diluisce in un’atmosfera trasognata. È come se i My Bloody Valentine, i capostipiti del genere, si lasciassero contaminare dal fulgido candore dream-pop dei Cocteau Twins. Just For A Day, il primo e atteso album degli Slowdive, giunge nel settembre del 1991. Ad animare ogni nota di questo disco strepitoso è una sorta di estasi mistica, come se la musica fuoriuscisse dalla fessura di una dimensione Altra. Qui la penna infuocata di Halstead (uno dei cantautori più dotati degli anni Novanta, per la sua abilità nell’unire alla perfezione le influenze folk con le esigenze della pura sperimentazione) si sposa perfettamente alla melodia trascendente di questo shoegaze intriso di venature dream-pop che virano nella rarefazione estrema dell’ambient.
Questa imponente architettura sonora, che affonda nelle tinte fantasmagoriche del sogno, sembra un dipinto di Monet, un impressionismo musicale nel quale i contorni delle figure si stingono, per lasciare lo spazio al prorompere di una musica che lega, con un gancio segreto, il cielo alla terra. Ma l’atmosfera mistica di Just for a Day non può essere paragonata alla notte in cui tutte le vacche, tutte le determinazioni dell’essere, sono nere, dissolte nel mare di un’unità immemore della differenza. Primal, ultima traccia che chiude il disco, lo testimonia con potenza inusitata. Qui è come se si percepisse tutto il travaglio del negativo di cui parla Hegel. Il tragico di cui si intride la coda strumentale che sigilla la fine del brano ne incrina la dolce malinconia, testimoniando l’intrinseca dialetticità di questa musica che sembra librarsi sopra le umane ambasce per contemplarle con uno sguardo di tenero amore.
Come l’Assoluto, di cui parla Hegel, non viene a coincidere con l’indistinto, con l’unità che brucia via tutte le differenze. Questa musica, che sembra provenire da un altrove misterioso, è la compenetrazione miracolosa di trascendenza e immanenza, di finito e infinito. Il dolore della morte, la tragicità dell’esistenza, sono momenti essenziali al suo dispiegarsi. Le voci di Neil Halstead e di Rachel Goswell, pur riducendosi a sibili, a echi lontanissimi, non si perdono del tutto, aggrappandosi disperatamente al fiume impetuoso che scroscia dagli strumenti. Il superamento dell’io di cui Hegel parla è una morte che preluda a una nuova nascita, la nascita del Sé universale, del finito che trova la sua essenza nell’infinito, in ciò che, pur patendo il dolore, non muore. Quello che l’Assoluto brucia è l’individuo, il soggetto indiviso, attaccato a sé stesso, incapace di ascoltare la voce del divino che urla in lui. Il vero io non né io né Dio, né l’umano né il divino, presi nella loro separatezza, ma l’umano-divino, la terra che s’alza fino al cielo e il cielo che si china fino alla terra.
L’identità fra l’universale e il singolare non è un’identità sostanziale, ma dinamica, peregrinale. La verità è risultato, dice Hegel. Ciò emerge da All of Us, il brano che chiude il penultimo disco degli Slowdive, Pygmalion: il disco che, per arditezza sperimentale, decretò lo scioglimento della band e il tramonto, momentaneo per fortuna, dello shoegaze. Se Souvlaki, il lavoro della definitiva consacrazione (anche grazie alla collaborazione di Brian Eno, il quale lavorò a due brani, Here She Comes e la splendida Sing), conduce lo shoegaze mistico di Just for A Day nei territori di un dream-pop raffinato che solo in alcuni episodi (la già citata Sing e Machine Gun) sembra porsi in continuità con le fughe oniriche del predecessore, Pygmalion riannoda il filo di quel misticismo vaporoso che scompagina i confini dell’io. La trance mistica in cui l’ascoltatore viene scaraventato si apre con Rutti e Miranda, due brani che, per visionarietà, sembrano squarci di un paradiso perduto, di una Itaca dello spirito di cui sono rimaste soltanto le rovine. Sono i brani che maggiormente riescono a suggerire il travaglio dello spirito che, aggredito dal negativo, vaga nella «profondità della notte» in cui l’Io è solo Io. Ma la sua «dura immutabilità» via via inizia a sciogliersi. Già J’s Heaven, un brano spaziale, che unisce la ripetizione ossessiva di pochi accordi di chitarra all’uso sapiente degli strumenti elettronici, addita l’apertura dell’io alla sua radice spirituale. Neil, per tutta la durata del brano, ripete queste parole: life isn’t so small. La vita è più grande di come l’io ordinario la percepisce. Il nostro grembo non è la vita individuale, ma la vita universale, l’Assoluto in cui si dissolve l’alterità dell’essere. Il minimalismo acustico di Vision of La rincara la dose. Qui dello shoegaze non v’è traccia alcuna. Neil compone un folk rallentato fino all’inverosimile che si ripiega ossessivamente su sé stesso, quasi a lambire i territori dello slowcore – non siamo molti distanti dalla metafisica della lentezza degli Spokane. La voce serafica di Rachel Goswell si erge sopra questo addensato di nuvole slowcore, trafiggendole di luce col suo sibilo ultraterreno: reach the light inside, sussurra. C’è una Luce che «erompe come il Sì tra questi estremi» e brucia l’unilateralità del soggetto, rivelando l’identità a-duale fra lo spirito e lo Spirito. Ma, come canta Rachel, it’s hard to say: è difficile da dire, è difficile da realizzare, poiché il raggiungimento di quella Luce interiore implica la morte, lo sradicamento della propria egoità, il perdono del male, l’abbandono del suo pensiero che frattura la realtà in opposti inconciliabili.
Blue Skied An’ Clear, un pezzo che sembra uscito da Spirit of Eden dei Talk Talk, e che guida definitivamente il dream-pop nella rarefazione assoluta del post-rock, prepara la chiusura del disco affidata ad All Of Us. Qui la voce di Neil, accompagnata dalla dolcezza del piano e della chitarra, dirada definitivamente le brume. L’incursione del violino, carezzato dal sussurro celestiale di Rachel, spalanca definitivamente le porte all’alba dello Spirito: He is all of us. Lo Spirito è tutti noi; è tutto di e in noi. Nel tempo sospeso di All Of Us, nel suo canto dimesso, venato di malinconia, lo spirito riconosce che il suo movimento, il movimento dell’amante, è lo stesso movimento dello Spirito, dell’amato. L’amato, l’Infinito, non siamo noi, e, tuttavia, è noi. «Miracolo che non siamo in grado di capire».
Bibliografia consultata:
– M. Vannini, Mistica e filosofia, Edizioni PIEMME, Firenze 1996.
– M. Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Lettere, Firenze 2004.
– G. Pasqualotto, Il tao della filosofia. Corrispondenze tra Oriente e Ocidente, Luni Editrice, Milano 2016.
– G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1960.
– G. F. W. Hegel, Scritti teologici giovanili, Vol. 2, Guida, Napoli 1977.
– G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1987.