Raimondo Fabbri (1978) è Dottorando di Ricerca in Scienze Giuridiche e Politiche presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Coordinatore Desk Infrastrutture del Centro Studi Geopolitica.info. Autore per il mensile OpinioJuris e per la rivista Il Pensiero Storico.Ultime pubblicazioni: Pnrr e dibattito pubblico. Prospettive di applicazione per uno strumento di democrazia deliberativa,in Rivista Giuridica del Mezzogiorno n.1/2022 a. XXXVI pp. 99-113, (ISSN 1120-9542); Il mare come la terra: le Zone Economiche Esclusive come nuove frontiere nel Mediterraneo, M. Durante (a cura di) in Al di là dei confini. Ripensare il paradigma della frontiera in una prospettiva interculturale, pp.224-247, in Quaderni di OCSM 1/2022, (ISBN 978-88-3121-629-6); L’esperimento di Dalmine. Lo sciopero produttivo alla Franchi Gregorini del 1919in Progressus n.2/2020 pp.27-43, (ISSN 2532-7186)
Recensione a
G. Lanzara, Guerra economica. Quando l’economia diventa un’arma
goWare, Milano 2020, pp. 222, €16,99.
In principio fu il concetto elaborato in maniera molto precisa da Bernard Esambert nel suo libro La guerra economica mondiale del 1991, che costituì una prima base di riflessione per il rapporto Intelligence économique et stratégie des entreprises del Commissariat général du Plan, con il quale nel 1994 lo Stato francese espresse la volontà di sviluppare una strategia di intelligence economica e attrezzare al meglio il sistema-paese nei confronti della concorrenza estera.
Successivamente gli strateghi cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui delinearono i contorni dei conflitti contemporanei, evidenziando come questi assumevano caratteri tipici della “guerra senza limiti” ed indicando nell’utilizzo da parte degli attori coinvolti, di qualsiasi strumento a propria disposizione (pressioni economiche e politiche, sanzioni ed intelligence) per difendere sia la propria egemonia e posizione di preminenza, sia per fare in modo che tale primato non venisse superato. Nello stesso periodo Edward Luttwak assimilò le imprese agli eserciti e i disoccupati alle vittime delle guerre, teorizzando in questo modo il turbo-capitalismo. Secondo Gino Lanzara, autore di un saggio che ha il pregio di affrontarla nei suoi aspetti essenziali e nei modelli concettuali, la guerra economica può essere definita come un continuum di politiche indirizzate all’indebolimento ed alla disorganizzazione della base economica avversaria. Un approccio che mira essenzialmente alla conquista dei mercati e delle risorse in grado di assicurare il mantenimento e la crescita del livello economico. Proprio la ricerca ed il possesso di fonti energetiche porta a considerare con attenzione, per esempio, le riserve idriche, convertibili in energia elettrica, quelle petrolifere e le terre rare (p. 39). Il nuovo paradigma offerto dagli studi geoeconomici tende così ad associare le dinamiche dell’interazione umana all’economia e di converso alla guerra economica, ineliminabile al pari di altre forme di conflittualità.
Come sostenuto recentemente anche da Mirko Mussetti (La rosa geopolitica, Paesi edizioni, Roma 2021, p. 43) è proprio la geoeconomia a rendere efficienti le azioni geostrategiche e geoculturali, affinando i benefici o mitigando le perdite. Rispetto a questa materia è lo stesso Lanzara ad ammettere che non se ne potrebbe parlare senza soffermarsi su alcune caratteristiche come l’informazione, dato che per una positiva riuscita nella competizione geoeconomica deve necessariamente essere previste delle innovazioni nei processi oltreché nell’organizzazione e nella cyber tecnologia, da cui dipendono la conoscenza di possibilità e delle intenzioni del concorrente (p. 50). In una simile prospettiva giova rammentare quanto sia determinante il sapere nella guerra economica, l’arma migliore a disposizione di quei paesi che ne sanno comprendere l’utilità per il raggiungimento degli obiettivi nazionali. La stessa chiave di lettura peraltro era stata proposta anche in un recente pamphlet in cui Salvatore Santangelo (Geopandemia. Decifrare e rappresentare il caos, Castelvecchi, Roma 2020, p. 51) configurava una geopolitica del talento in grado di segnare il terreno di scontro avvenire per l’egemonia. Non è un caso che l’innovazione e la ricerca ad essa correlata rappresenti ancora il principale motore delle trasformazioni da correlare allo sviluppo produttivo.
Lanzara, a tal proposito, coglie opportunamente che rinunciare alla ricerca significherebbe rinunciare al fattore principe su cui ogni Stato dovrebbe avere interesse a investire, creando l’ambiente normativo favorevole in che si in grado di tutelare sinergicamente l’iniziativa privata, gestendo al contempo il patrimonio di conoscenze in modo da poterle poi impiegare competitivamente e in modo aggressivo (p. 61). In questa direzione si può rilevare l’attivismo di alcuni paesi come Israele e Corea del Sud, i quali si stanno ritagliano un ruolo significativo, avendo compreso pienamente le potenzialità della ricerca come strumento di potenza della ricerca applicata a vari ambiti della sicurezza, della tecnologia e delle biotecnologie. Sulla competizione tecnologica, del resto, si sta giocando da alcuni anni la sfida fra Usa e Cina; una situazione che meglio di altri modelli rappresenta la dimensione raggiunta dalla guerra economica.
Come ha correttamente osservato anche Alessandro Aresu, le infrastrutture, le reti della connettività assumono una profondità strategica finora ignota, in termini qualitativi e quantitativi. Perciò il loro controllo assume rilevanza fondamentale nel “gioco” fra potenze. In questa cornice gli strumenti bellici si palesano attraverso il diritto, tanto da far coniare al generale Charles Dunlap il termine lawfare per descriverli (Le potenze del capitalismo politico, nave di Teseo, Milano 2020, pp. 347-350). E se la guerra economica appare la prosecuzione della guerra classicamente intesa con i mezzi giuridici, tecnologici e finanziari, questa richiede inevitabilmente una meticolosa preparazione unita alla formazione di validi quadri dirigenziali, capaci di indirizzare competitività e attrattività per gli investimenti. L’attività finanziaria ostile, le acquisizioni di asset economici ed industriali come altro potrebbero essere inquadrati?
Le sanzioni, che l’autore passa in rassegna al pari delle altre forme assunte dalla guerra economica, come i dazi e le sovvenzioni pubbliche utili ad agevolare le esportazioni, vengono correttamente equiparate ad armi vere e proprie nelle mani di quegli stati che vogliano raggiungere determinati obiettivi egemonici. L’impiego delle sanzioni e delle restrizioni economiche era già contenuto nella Strategia di Sicurezza nazionale americana del 2005 di Obama, anche se ancora non erano presentate come uno strumento di un intervento compatibile con l’economia globale. I cambiamenti successivamente intervenuti, in particolare dal 2008 in avanti, hanno progressivamente prodotto l’ampliamento e la trasformazione della potenza economica avvicinandola sempre più alla dimensione della sicurezza e non solamente quale strumento per il raggiungimento di obiettivi politici.
Gli Stati Uniti sotto questo profilo hanno iniziato a fatto ricorso sempre più spesso forme di pressione economica forti del ruolo ricoperto dal dollaro nel sistema degli scambi finanziari internazionali e dal fatto che l’America detiene molte delle principali tecnologie chiave necessarie per garantire gli sviluppi industriali del futuro. Tale strategia, elevata ad uno dei principali strumenti di politica estera da parte del presidente Trump, ha ampliato la portata delle sanzioni economiche, affiancandole alla politica dei dazi nella prospettiva legata alla sicurezza nazionale, avviando così numerosi conflitti commerciali, anche con l’Europa. Sempre durante l’amministrazione Trump deve essere ricordato quanto sia stato accentuato l’uso delle cosiddette sanzioni secondarie che colpiscono non le aziende Usa o dei Paesi destinatari delle sanzioni ma quelle di Paesi terzi, se esse non si conformano alle restrizioni previste dalla normativa americana.
Proprio in quel frangente venne esteso anche ad altri campi la coercizione economica in chiave politica, basti pensare all’export control, basato sulle autorizzazioni per le esportazioni e sul maggiore monitoraggio degli investimenti esteri. Questi ultimi sono difatti divenuti il grimaldello attraverso cui tentare di scardinare intere economie guadagnando posizioni di forza. Proprio per queste ragioni i servizi di sicurezza interni italiani hanno recentemente segnalato che «a fronte della fase economica espansiva, i fattori di rischio derivanti da proiezioni straniere ostili sull’economia nazionale, pur adattandosi al mutato contesto, si sono confermati in sostanziale continuità con i trend emersi negli anni passati. Tra questi, la tendenza a sfruttare le profonde trasformazioni del tessuto produttivo internazionale per condurre azioni mirate a distorcere la concorrenza e ad alterare il funzionamento dei mercati, nonché ad acquisire posizioni di forza nelle strutture societarie di primarie realtà nazionali, anche al fine di influenzarne le decisioni strategiche in direzioni non compatibili e coerenti con gli interessi nazionali» (Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, p. 31, https://bit.ly/3wCd6c6).
Per il futuro si può concordare con l’Autore quando afferma che l’economia non potrà essere disgiunta dall’esercizio di una politica di potenza, e che la politica di potenza non potrà essere sorretta che da uno strumento militare evoluto. In una simile analisi di scenario rimarrà deluso chi si attende di assistere ancora a scontri frontali, poiché come peraltro sta confermando il conflitto russo-ucraino, la guerra guerreggiata è divenuta oramai dispendiosa sotto tutti i punti di vista. Decisivo invece sarà il contributo fornito dall’intelligence economica su cui Lanzara si sofferma lungamente. La guerra economica dunque, adattandosi di più al tiro alla fune, per usare una felice espressione del geografo indiano Parag Khanna, caratterizzerà le trame geopolitiche contemporanee, in cui la coercizione economica precede l’ostilità militare, perché attraverso il ricorso a questo strumento si potranno rifuggire pericolose escalation di gran lunga più costose di quanto fosse in passato, visto che la prima vittima sarebbe proprio il business che opera entro in confini altrui.