Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

La fine della tragedia nell’età moderna è un tema trattato da numerosi studiosi, che hanno analizzano come i cambiamenti culturali e sociali abbiano influenzato la percezione e la funzione della tragedia nel mondo contemporaneo. George Steiner, ad esempio, nel suo saggio La morte della tragedia, sottolinea come il mondo moderno, con il suo razionalismo e la sua secolarizzazione, abbia perso il contatto con le forze sovrannaturali e trascendenti, con un determinato senso della colpa e del destino, e come ciò renda estremamente difficile un ritorno della tragedia. Quest’ultima, scrive Steiner, «ci insegna che il dominio della ragione, dell’ordine e della giustizia è terribilmente circoscritto e che non c’è progresso scientifico o risorsa tecnica che possano aumentare il raggio d’azione».

Adorno e Horkheimer, in Dialettica dell’illuminismo, affermano inoltre che, sebbene l’impulso a dominare la natura, che si incarna nella razionalità strumentale, finisce per rievocare le stesse forze mitiche che cercava di sopprimere, «la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». La sciagura, per gli autori, è il trionfo totalizzante della ragione strumentale quale progetto di dominio del mondo ridotto a riserva di enti sfruttabili. In tale prospettiva, «sulla terra divenuta razionale è venuta meno la necessità del rispecchiamento estetico, la liquidazione dei demoni si compie modellando direttamente gli esseri umani» e dunque «col rispecchiamento del dominio da parte della natura è sparito il tragico come il comico».

Nonostante tali diagnosi, altre voci, negli ultimi anni, hanno però rilevato la necessità di ritornare a pensare servendosi delle categorie tragiche: si pensi, ad esempio, alle posizioni di Martha Nussbaum all’estero, o di Sergio Givone in Italia, solo per citarne alcuni. Per parte nostra, riteniamo che molte delle questioni scottanti del tempo presente non siano pensate alla giusta profondità proprio a causa dell’indebolirsi di ciò che vogliamo qui chiamare “sensibilità tragica”. Pensiamo, ad esempio, alla questione della guerra e della risposta data dal pacifismo deontologico, quella posizione che considera l’utilizzo della violenza un male assoluto mai giustificabile moralmente.

Ora, volendo limitare al minimo la nostra riflessione per ragioni di spazio, occorre dire che il tragico non risiede anzitutto nel fatto che l’uomo sia soggetto a un destino ineluttabile, ma nella sua illusione di poterlo dominare. In secondo luogo, ciò che contraddistingue  ̶ se così possiamo esprimerci  ̶ l’essenza del tragico è il conflitto irrisolvibile tra due beni o verità, la consapevolezza che ogni scelta comporta una perdita, a causa della radicale ambivalenza della vita. La colpa tragica, infatti, per un verso colpevolizza e per l’altro assolve colui che ne è portatore. Come spiega Sergio Givone in Metafisica della peste: «Colpevolizza: in quanto nascere significa contrarre un debito per la vita che, pur non richiesta, va pagata. Assolve: l’individuo non ha pattuito alcunché, tantomeno un impegno con altri o con altro, e quindi non si vede come addebitargli qualcosa». Non resta che una soluzione. E cioè che il destino sia assunto come proprio, dunque come cosa di cui si deve rispondere, pur restando destino.

L’essenza del tragico si mostrerebbe là dove il colpevole che è innocente o l’innocente che è colpevole si assume la responsabilità di ciò che gli appartiene in modo necessitante. Edipo, ad esempio, è un figlio che non sarebbe dovuto nascere, secondo l’ingiunzione dell’oracolo di Delfi a Laio, suo padre. Edipo è colpevole senza aver fatto nulla di male. Questa è la hamartia, la colpa tragica. In un certo senso, la vicenda svela una verità valida per ogni uomo: nella misura in cui dipendiamo da coloro che ci hanno preceduto, per il solo fatto di esistere, c’è qualcosa che ci sovrasta e in cui siamo impigliati anche se non lo vogliamo. Se anche oggi preferiamo non accettare l’immutabilità del destino, scommettendo sulla nostra capacità di ribaltarne i verdetti, tuttavia avvertiamo il forte condizionamento di ciò che ci ha preceduto e che continua a dirsi attraverso di noi, anche senza nostra esplicita adesione. Sentiamo che le nostre azioni non emanano solo direttamente da noi, ma si radicano in una dimensione che ci supera, vale a dire la storia da cui proveniamo, col suo carico di luci e ombre da ereditare anche se non lo desideriamo.

In fondo, oggi più di ieri, con la crisi del mito del progresso, ci rendiamo conto di come l’uomo possa essere sì artefice del proprio destino, secondo il dettato dell’umanesimo, ma allo stesso tempo di quanto sia ristretta la parte di effettiva libertà che può esercitare; ci rendiamo conto di come l’uomo possa sì conoscere ciò che egli stesso fa (verum quia factum; verum quia faciendum), ma che i suoi strumenti e le conseguenze della loro potenza, hanno raggiunto un grado di complessità tale da generare perlomeno tanta incertezza (quando non vera e propria angoscia) di quanta ne possano eliminare. Le nostre stesse azioni ci sfuggono di mano, gli effetti della nostra stessa libertà sono sottratti al nostro controllo. E tuttavia ne dobbiamo rispondere. Tutto ciò possiamo definirlo l’Inassimilabile, e ha a che fare con zone situate all’estrema periferia dell’esperienza umana, che difficilmente si lasciano afferrare da cartesiani concetti chiari e distinti: per questo la filosofia, se vuole capirci qualcosa, deve rivolgersi alla riserva di senso del mito. Luigi Pareyson aveva perfettamente ragione.

Accettare che l’ambivalenza della condizione umana sia fondamentalmente ineludibile è difficile ma è una mossa obbligata per stare dentro la realtà. Il pacifismo deontologico vorrebbe, prometeicamente, non solo eradicare completamente il male dal mondo là fuori, ma togliere l’ambiguità radicale della vita che la tragedia ci insegna a vedere. Spiace, ma non è possibile.

In una famosa risposta a Benjamin Constant, Kant arrivò a sostenere che, se un nostro amico inseguito da un assassino si rifugiasse in casa nostra, noi saremmo tenuti ad ammettere la presenza del rifugiato all’assassino, qualora questi bussasse alla nostra porta, perché non si dà diritto a mentire, indipendentemente dallo scopo per cui lo si fa. «La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso  ̶  scrive Kant nella Metafisica dei costumi  ̶  considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona) è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna». Pur ammettendo (ma non concedendo) che la risposta kantiana sia assolutamente solida dal punto di vista della logica fondata sul principio di non contraddizione, scommetto che qualcosa in questa posizione non ci lascia del tutto tranquilli. In effetti, se il risultato pratico della nostra sincerità dovesse essere l’uccisione del nostro amico, probabilmente la nostra coscienza sarebbe poco soddisfatta di aver rispettato la norma generale astratta che impone di non mentire, visto che un soggetto concreto sarebbe morto e noi avremmo potuto evitarlo.

Il teologo Dietrich Bonhoeffer, nella sua Etica, opera incompiuta elaborata durante la seconda guerra mondiale, tornando su questo tema, ha scritto:

Quando Kant, partendo dal principio della veridicità, arriva alla grottesca conclusione che dovrei francamente rispondere di sì all’assassino penetrato in casa mia, che mi chiede se il mio amico da lui inseguito si sia rifugiato presso di me, allora in questo caso l’arrogante autogiustificazione della coscienza, spintasi al punto di diventare una superbia blasfema, sbarra la via al modo responsabile di agire. Se la responsabilità è la risposta globale e adeguata alla realtà dell’uomo e alle esigenze di Dio e del prossimo, il carattere parziale della risposta di una coscienza legata a principi risulta qui posto nettamente in luce.

Bonhoeffer, col linguaggio franco che si è visto, sostiene che l’impostazione kantiana conduce addirittura all’irresponsabilità, cosa che per il teologo luterano è sostanzialmente sinonimo di immoralità. Il punto della questione credo si possa individuare nel carattere parziale della risposta di Kant, denunciato da Bonhoeffer. La preoccupazione del filosofo tedesco, infatti, sembra essere quella di assicurare alla coscienza una via per superare la contraddizione e non esserne dilaniata.

Per Kant, infatti, non può darsi, propriamente parlando, un conflitto tra doveri. Il filosofo afferma esplicitamente nella Metafisica dei costumi, che due regole opposte non possono essere necessarie allo stesso tempo. Certo, dal punto di vista soggettivo una persona può trovare in sé due motivi di obbligatorietà (rationes obligandi) in reciproco contrasto. Il fatto, però, è che in questo caso uno dei due non è un dovere, dice Kant, anche se così può sembrarci. Sempre nella Metafisica dei costumi, infatti, il filosofo sostiene che in tale scenario, non si può dire che in casu collisionis vincit obligatio fortior, bensì che prevale la ragione d’obbligazione più forte (fortior obligando ratio vincit). Il problema di questa visione, rifacendoci alla critica bonhoefferiana, è la sua astrazione: qui Kant è «l’uomo della coscienza», denuncerà Bonhoeffer, che crede di poter trovare in sé stesso il fondamento sicuro e indubitabile del proprio agire, al riparo dal rischio, uomo che preferisce avere una coscienza salvata in luogo di una buona coscienza: «L’uomo di coscienza lotta solitario contro lo strapotere delle situazioni di emergenza che esigono una decisione. Ma viene dilaniato dalla enormità dei conflitti, nei quali è chiamato a operare una scelta da null’altro consigliato e sorretto se non dalla propria coscienza personale. Gli innumerevoli travestimenti e le innumerevoli maschere, rispettabili e seducenti, nei quali il male gli si fa incontro, rendono la sua coscienza ansiosa e insicura, sin che alla fine si contenta di avere una coscienza salvata anziché una buona coscienza, sin che quindi mente alla propria coscienza per non cadere nella disperazione; che una cattiva coscienza possa essere più salutare e forte di una coscienza ingannata, l’uomo, che nella propria coscienza ha l’unico sostegno, non riuscirà infatti mai a comprenderlo». L’uomo della coscienza, quando deve rispondere alla domanda “cosa devo fare?”, mette da parte la considerazione circa le conseguenze della propria azione, per concentrarsi totalmente sulla bontà o meno dei principi dell’agire. Poiché, però, in quest’ambito l’evidenza non è assolutamente garantita, l’autoinganno si presenta come la strada più rapida per scampare ai flutti dell’incertezza.

Se sfruttiamo gli spunti offerti da Bonhoeffer, possiamo affermare che, almeno sul punto di cui qui si discute, l’impostazione di Kant non riesce a fare i conti fino in fondo con l’ambiguità e la contraddittorietà dell’esperienza morale dell’uomo, in altri termini col suo carattere tragico (per altri versi invece, si può affermare che il soggetto kantiano sia essenzialmente tragico, ma qui non possiamo approfondire). Qualcosa di ciò affiora quando Bonhoeffer afferma che «il rifiuto di divenire colpevole per amore del mio amico nei confronti del principio della veridicità, il rifiuto di mentire risolutamente per amore del mio amico […], il rifiuto quindi di portare la colpa per amore del prossimo mi pone in contraddizione con la mia responsabilità fondata nella realtà».

Il tema dell’assunzione della colpa, come ha spiegato il teologo valdese Fulvio Ferrario, uno dei maggiori interpreti italiani di Bonhoeffer, distingue teologicamente la riflessione bonhoefferiana dal classico argomento del “male minore”: se agire in base al male minore rende l’azione buona, per Bonhoeffer l’azione responsabile portata avanti nell’assunzione della colpa è comunque colpevole. Il giudizio ultimo va rimesso nelle mani di Dio. «Qui il messaggio protestante della giustificazione per grazia soltanto risuona nella sua valenza etica», rileva Ferrario.

Non è nel nostro interesse portare avanti un confronto puntuale tra due autori. Ciò che va messo in luce, è che Bonhoeffer scrive nel bel mezzo di un tempo tragico e lui stesso è dilaniato interiormente: pastore e teologo, è coinvolto in una congiura per uccidere Hitler. Come può giustificare alla propria coscienza e davanti a Dio tale decisione? L’Etica, oltre che saggio teologico, è la testimonianza del corpo a corpo di una coscienza con i propri scrupoli morali.

Quando il pacifismo deontologico, alla luce di quanto fin qui detto, sostiene, ad esempio, che la pace va cercata “a qualsiasi costo” e che il sostegno armato alla popolazione aggredita “è sempre una sconfitta”, non solo, a nostro avviso, esprime una posizione moralmente problematica, ma mostra anche la cecità propria di chi non riesce a pensare più tragicamente. Ciò vale anche per il pacifismo deontologico proclamato da voci di esplicita professione cristiana. Il già citato Givone ha messo in luce la differenza fondamentale tra il tragico greco e il tragico cristiano: mentre il primo è dominato dalla necessità e dall’ineluttabilità del destino, il secondo è permeato dalla speranza della redenzione. Nel tragico greco, la sofferenza è parte integrante dell’ordine cosmico; nel tragico cristiano, essa è una conseguenza del peccato umano, ma è anche un’opportunità per la salvezza attraverso il sacrificio e la grazia divina.

Che possa darsi un vero e proprio “tragico cristiano” è questione dibattuta che non vogliamo affrontare. È utile evidenziare almeno gli elementi che si avvicinano al tragico nel cristianesimo. Secondo Givone, non è corretto considerare la redenzione come qualcosa di essenzialmente antitragico. La redenzione, infatti, non coincide con l’apocatastasi, perché conserva al suo interno questi elementi di divisione e sofferenza. Secondo la tradizione cristiana, come descritto nell’Apocalisse, la redenzione è rappresentata dall’agnello sgozzato sul trono. Questo simbolo rappresenta un Dio sofferente che porta in sé la sofferenza. Sebbene questa sofferenza venga espiata e presentata come una consolazione possibile, essa non viene semplicemente cancellata, ma esibita. Dio assume su di sé il dolore del mondo proprio perché è impossibile fornire una spiegazione o giustificazione alla sofferenza: essa è Inassimilabile. Perciò può essere superata solo, in un certo qual modo, serbandola nella memoria divina della vita offesa. La resurrezione eternizza la croce, in un certo senso.

A tal proposito, c’è un’affermazione del prefazio pasquale arditissima e di inquietante profondità: si parla, infatti, dell’agnello che semper vivit occisum. La traduzione italiana edulcora molto il latino: “…con i segni della passione vive immortale”. La liturgia parla qui della permanenza dell’amore oblativo che supera la morte senza eliminarla magicamente. Nel cuore del cristianesimo, là dove si consuma il sacrificio del Golgota, sembra abitare il seme tragico dell’ambivalenza irriducibile e feconda: l’unione del Figlio col Padre è tanto profonda quanto il Figlio appare come l’Abbandonato dal Padre, il quale, a sua volta, custodisce l’unione «tacendo d’un silenzio non meno atroce e crudele che tenerissimo e straziato» (S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico). Il problema non è stabilire se sia possibile o meno un cristianesimo tragico. Il punto è che un cristianesimo dimentico della non assimilabilità di questo sfondo agli schemi della demitizzazione razionalista, un cristianesimo che sa declinare l’innocenza e la colpa solo in chiave etica e non più in chiave metafisica, corre il rischio di tramutarsi in piatto solidarismo morale e, per questa via, in nichilismo, se il nichilismo posizione del senso-valore che come tale può essere sia realizzato che annichilito. Non sorprende, allora, che in questa prospettiva, di fronte alla guerra non si abbia la capacità di sopportare il miscuglio di colpa e innocenza né la contraddizione rischiosa dell’esperienza morale, ma si corra ad affermare unilateralmente valori, indipendentemente dalle ricadute reali e dal tormento della storia.

La secolarizzazione, vista ora come perfetta fedeltà al cristianesimo nella “infedeltà”, di tutto ciò non sa nulla, anzi lo bolla come arcaismo religioso. Forse non è un caso se, durante la pandemia che ci ha colpito pochi anni fa, la cultura cristiana, salvo alcune voci significative, non sia riuscita in fondo a dire parole incisive nel dibattito pubblico. Dimenticando del tutto il registro tragico, infatti, le uniche cosa che restavano da dire erano legate o alla responsabilità individuale e collettiva in ordine alla salute generale (discorsi assolutamente preziosi, ci mancherebbe), o a una sorta di blanda teodicea, portata avanti con grande solerzia da alcuni teologi, che con tutte le forze ci ricordavano che il virus non c’entra con Dio, preoccupati che la religione sembrasse poco “razionale”. Peccato che affermare «la peste è la peste e nient’altro» aprisse uno squarcio sul tema del male, della sua insondabilità metafisica, del rapporto tra Dio e l’ingiustizia del cosmo. Proprio sulle questioni più difficili, la voce del pensiero cristiano ci ha lasciati abbastanza soli.

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