Eleonora Martignetti (1998) si è diplomata al Liceo Classico "Marsilio Ficino" di Figline Valdarno (FI) e poi laureata con lode in Scienze Faunistiche presso l'Università degli Studi di Firenze Scrittrice, ha vinto numerosi concorsi letterari.

Non basteranno informazioni nozionistiche per descrivere, contestualizzare e collocare questo romanzo epistolare. Questo è il racconto di un verista, Giovanni Verga, ispirato dalla sua grande sensibilità, dalla sua accortezza per le anime più fragili, più nascoste, per quelle vinte.

Nel titolo dell’opera, l’oggettivazione del suo nome; nella storia, un’imperante arrendevolezza al predestinato. Storia di una capinera viene titolato in questo modo a seguito di un ricordo dell’Autore, memoria che lo richiama all’improvvisa morte del piccolo passeriforme chiuso in gabbia: nonostante le sfiziose granelle di miglio sempre a disposizione, la povera capinera muore rassegnata alla sua clausura, condannata ad una vita altra dalla sua naturale, quella che le spettava vivere di diritto. Il Verga dirà «Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio,  e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete».

La narrazione dell’intera storia, invece, può essere riassunta con altre parole dall’Autore così articolate:

La storia di un’infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione  e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lacrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto.

La nostra infelice è una genuina ed entusiasta Maria, orfana di madre e figlia di un padre risposato, il quale le ha donato due fratelli, Giuditta e Gigi, nonché una matrigna completamente disaffezionata. Maria è solare, estremamente vitale, sorridente, amorevole, non manca di cure per nessuno, nemmeno per i vicini che vengono a trovare la sua famiglia tanto spesso. Lì, a Monte Ilice, dove le floride campagne si fondono in fitti boschi di ombreggianti castagni, Maria conosce l’amore. Dapprima è incredula, non osa confessarlo a se stessa, né all’amata amica Marianna, con la quale mantiene costanti rapporti epistolari. Eppure col tempo, sotto gli incessanti subdoli dispetti dell’arcigna matrigna, Maria prende coscienza del valore che per lei hanno tutti i momenti trascorsi in compagnia dell’amato, Nino, e nel suo cuore dilaga il desiderio di proteggere quegli incontri, di gioire della reciproca compagnia, di voler restare con lui per sempre. Tuttavia, qualcosa fuori dalla portata di Maria prende il sopravvento e decide per lei: è il suo senso di obbedienza, di rispetto per volontà che le sono imposte dalla società a seguito della propria condizione di orfana. Maria, infatti, si dovrà far monaca: si farà monaca, nonostante le insistenze, le lacrime, le suppliche, le carezze di Nino. I due si separano: unico ricordo dell’amato è, per Maria, la rosa che lui le regala la sera antecedente la partenza. Maria è disperata, angosciata, coi voti presi non potrà più vedere il padre, l’amato, l’amica Marianna, non potrà più scorrazzare all’aria aperta, sotto al cielo terso, il sole dardeggiante sul capo; perderà la sua lunghissima chioma, tagliata a pesanti ciocche di trecce castane e ad ultimo costretta dentro un velo asfittico, anche per la sua anima.

Maria non voleva perdere la propria vita, non voleva assistere alla morte dell’anima, la sua, costretta in un corpo sofferente ed impedito alla ribellione. Maria adesso che ha perso la linfa esistenziale, sta morendo, impazzisce, e pulzella si spegne in un letto dell’infermeria del convento. Sulle labbra, rigide foglie secche di una rosa antica, profumate in una vita precedente a quella monacale.

Così termina il romanzo, pubblicato a Milano nel 1871, del siciliano verista, nato a Catania nel 1840. In questa opera, il critico letterario Giuseppe Petronio riconosce un Verga descritto come segue: «nelle opere scritte fra il ’66 e il ’75 troviamo soprattutto un certo impulso autobiografico, nel senso che egli mirava, se non a raccontare fatti accadutigli realmente, per lo meno a effondere stati d’animo e sentimenti che erano anche suoi».

In questo racconto epistolare, temi cardine della narrazione sono rappresentati dalla famiglia, dall’amicizia, dal profondo senso di reverenza religiosa ed infine dall’inevitabile confronto-lotta con sé, con la propria natura, i propri desideri, la salvifica autodeterminazione. Attraverso le lettere che Maria scrive all’amica Marianna, sempre affettuosamente dedicate nella loro intestazione, ci troviamo anche noi destinatari di queste carte, di queste confidenze, di pensieri prima limpidi, tranquilli, poi sempre più turbolenti, titubanti, fino a risultare fra loro contraddittori, sia nella loro risoluzione, che nell’origine della loro intenzione. Marianna saprà fedelmente accompagnare l’amica in questa tragedia, senza mancare mai di raggiungerla al cuore con l’inchiostro del proprio.

Troviamo un’altra amicizia o meglio, un’altra dimostrazione amicale e umanissima: suor Filomena. Suor Filomena, da anni abitante del convento, si incarica di consegnare segretamente le lettere scambiate fra le due complici, poiché a Maria è vietato qualunque tipo di scambio e contatto con l’esterno: non devono esistere, non devono essere risvegliate in lei, sensazioni, pulsioni differenti da quelle che suscita un’apatica clausura.

Suor Filomena sarà la chiusa di questa prosa tragica: l’ultima lettera verrà infatti scritta tramite il suo pugno, perché Maria è ormai «l’estinta», «la defunta», «colei che si trova fra i Beati». In questa ultima epistola, Suor Filomena fa rinvenire a Marianna il crocifisso di Maria avvolto in precedenti lettere non spedite, adagiato su quelle che sembrano essere proprio foglie secche di una rosa antica.

Nino resta sempre il chiodo fisso di Maria, la serpe nel cuore che l’attanaglia tanto più violentemente quanto più cerca dimenticarsene, il peccato che l’avvicina al demonio e l’allontana da Dio. Nonostante questo, la verità del sentimento di Maria la spingerà ad affermare di amare il suo peccato, e questa mostruosità custodirà in seno. Maria non riesce a vincere il destino crudele che le si para davanti, spianandole ogni dolcezza, privandola della sua autenticità: nonostante tutti i suoi sforzi, le sue estenuanti lotte interiori, la sua disperazione urlata, allucinata da occhi sbarrati, da incubi pieni di sudore, da buchi nel cuore e fisici dolori lancinanti, Maria viene vinta.

Cosa resta a noi lettori? Una scrittura a dir poco estasiante, una scelta di parole ed il loro accostamento delicati, incantevoli, pertinenti, puntuali, grazie a cui siamo capaci di introiettare le esatte sensazioni così come sono riportate, così come la nostra protagonista le ha provate, senza dover ricorrere ad interpretazioni, a sentimenti azzardati, ad intuizioni manchevoli. A noi lettori resta l’opprimente senso di ingiustizia, la sofferenza per l’ostile tormento che tormenta Maria, grida di pietà soffocate in petto, forti attorcigliamenti di stomaco per l’atterrimento provocato dall’inatteso, per l’impossibilità del cambiamento. È uno sgomento totale, un abbandono completo della nostra dimensione per dedicarci, in queste settanta e poco più pagine, all’attraversamento delle vertigini del cuore, dei margini dell’esistenza, della nostra amata, amatissima Maria.

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