Eleonora Martignetti (1998) si è diplomata al Liceo Classico "Marsilio Ficino" di Figline Valdarno (FI) e poi laureata con lode in Scienze Faunistiche presso l'Università degli Studi di Firenze Scrittrice, ha vinto numerosi concorsi letterari.

Con versi in prosa e versi in musica, l’Arte cristallizza dentro un uguale destino la storia di due soldati: uno lo conosciamo col suo appellativo, Giovanni; l’altro si presenta senza identificarsi: l’umanità. Il Mantello di Dino Buzzati è uno dei trentuno racconti presentati nell’antologia La boutique del mistero, pubblicata nel 1968. L’Autore ce li affida tutti con questa speranza «di far conoscere il meglio di quanto ho scritto».

Il mantello. Un indumento. Appartiene a Giovanni. Anzi, è sulle spalle di Giovanni, avvolgendolo aspramente, ricadendo come piombo fin lungo le ginocchia, sollevato dal suolo. I lembi si scostano appena dalle gambe del soldato mentre questi fa il suo ingresso in una casa di campagna, addolcita dalla presenza di un orto ben curato sul davanti. Passato l’orto, Giovanni sale i pochi gradini che lo conducono sulla soglia della sua casa, ma non ha bisogno di bussare: la madre lo ha visto, finalmente lui le compariva sopra a quello zerbino che da due anni stava aspettando sentir calpestare dalle orme del figlio soldato.

Il lettore a questo punto non può che gioire assieme alla madre e, con lei, volare incontro a Giovanni. Eppure, ora che il figlio le siede davanti, riposando sulla sedia che lei ha per lui prontamente scostato dal tavolo, è impossibile non notare di come quella figura, alta e fiera, non sia anche… mortalmente pallida. Il pungolante presentimento, fulmineo nella testa, diventa una voragine franante nel bel mezzo del suo petto. La madre decide comunque di rifuggire quella confusa inquietudine, non c’è tempo per il protrarsi delle preoccupazioni, perché oggi hanno tutte trovato la loro fine: suo figlio è a casa, dopo due anni condotti sul campo di battaglia, in guerra, e lei non desidera altro che portargli sollievo, di soddisfare tutte le richieste di Giovanni, per le qual cose non sta più nella pelle tanto è impellente il bisogno di prestare al figlio il materno servizio. Rispettosa del violento trascorso di Giovanni, ancora troppo recente per pretendere di riavere il figlio di sempre, gli evita anche il fastidio di sentirsi ripetere dalla madre di guardarla almeno negli occhi, di animare un po’ quel suo afflitto tono di voce e poi, santo cielo, di togliersi quell’asfissiante tessuto nero tutto aderente alla sua pelle, ma non lo sente il caldo che fa in quella stanza? A quest’ultima richiesta, Giovanni risponde stringendovisi ancora di più, evitando attentamente di non incontrare lo sguardo della madre. Ma lei non sospira nemmeno, bensì, con la preoccupazione sulle rughe della fronte, da quello sguardo getta le sue tracce d’amore sulla testa piangente del figlio.

Dunque che fare ora che sono tutti insieme? Proprio tutti: infatti ci sono anche i due fratellini, Anna e Pietro, che sin dall’inizio hanno assistito al rapido susseguirsi di quei fugaci eventi, osservando in silenzio il fratello di molti anni più grande; fra i tre nasce, rievocata dalla loro unione, quella complicità ancestrale della fratellanza per cui vige una comprensione priva di dialoghi verbali. Dunque i due fratellini permangono sotto lo stipite della porta della cucina, affacciati al salotto dove siede Giovanni.

Inaspettatamente, Giovanni annuncia la sua decisione: fra poco dovrà uscire. Sbigottita, la madre si lascia sfuggire più domande di quelle che si era ripromessa avrebbe voluto evitargli, ma è pur sempre sua madre e, dunque sì, tasta il terreno di quella affermazione, ma con amore, senza mai risultare provocatoria: non vuole che il figlio si senta attaccato anche dalla domestica casa, ora che un’aggressione l’ha appena superata.

Distrattamente, una figura intabarrata e che dava sensazione di nero, raggiunse lo sguardo della madre: chi fosse quello sconosciuto, che stava camminando su e giù per il vialetto, non sapeva spiegarselo, ma non le era sfuggita la somiglianza col vestiario di suo figlio. Giovanni spiega che quello sconosciuto è una persona incontrata per la via, durante il suo ritorno a casa, e che adesso lo stava aspettando lì fuori. Dunque Giovanni esce per lui? Non andrà a trovare la sua amata? Giusto, l’amata, la sua promessa, Marietta! «È per lei che volevi uscire?», gli domanda. Stavolta è chiaramente evidente il grumo alla gola dei sentimenti repressi che gonfia Giovanni poco sotto il mento. La madre offre prontamente una fetta della torta preferita di Giovanni, accompagnandola con un caffè bollente. Il figlio mastica quel dolce pasto con esasperante fatica. La madre ricorre ancora ad un altro tentativo nel riportare il sorriso su Giovanni, e lo accompagna nella sua camera, tutta rimessa a nuovo, persino rimbiancata. «Com’è bello! Grazie, sai? mamma». Tale fioca reazione causa nella madre un’insopprimibile apprensione, per cui è costretta a chiedere a Giovanni il motivo di quel suo sentirsi, di quel suo comportarsi. Non c’è tempo per dare spiegazioni, Giovanni deve uscire, è da troppo tempo che quel signore pazienta fuori, sta abusando della sua tolleranza.

La verità fa il suo ingresso come sempre, non voluta: Pietro scosta ampiamente il lembo di quell’oscuro mantello, e l’orrore si manifesta sfuggente ma reale: c’è sangue sotto quello spesso strato.

«Addio mamma».

Su cavalli, Giovanni e lo sconosciuto galoppano molto più in alto della lontana montagna: quel funereo signore aveva concesso alla madre e al figlio l’ultima pietà delle loro vite insieme.

Il lettore si sentirà partecipe di un duplice lutto: quello della madre per il figlio, e quello del figlio per se stesso. Ciononostante il racconto in questione non presenta mai toni luttuosi, bensì angoscianti: Buzzati ci pungola col mistero del figlio per tutta la durata del racconto, ci pungola nelle nostre vesti di figli trasferendoci l’inquietudine della madre, ci pungola nelle nostre vesti di genitore per l’inespugnabile fortezza di rifiuti da parte del figlio. Buzzati ci pungola nella nostra umanità.

Quanto allo stile, la critica letteraria descrive spesso quello di Buzzati come fantasioso, magico, fantascientifico. Ne Il Mantello troviamo uno stile umano, attento anche al riportare la dolce presenza di un piccolo orto al’’interno di un racconto tragico: riporta la Bellezza. Bellezza che ritroviamo anche nei dettagli della descrizione della camera messa a nuovo per rendere Giovanni contento al suo ritorno: la purezza delle tende bianche, il mobilio è tutto nuovo, in quella camera si respira aria di fresco e pulito. Cosa c’è di più contrastante con il trascorso violento che Giovanni si è lasciato alle spalle e quello verso cui sta dirigendosi? Questa camera rappresenta un ideale paradiso per il figlio, un paradiso purtroppo terrestre, non quello cui lui è destinato.

L’umanità di Buzzati emerge con ardimentoso vigore ed audace evidenza nella rappresentazione della madre: la gioia che alleggerisce il petto, dilata le pupille, e la bocca in un largo sorriso, smorzata così brutalmente dal pallore mortale del figlio, dall’incapacità di risolvere gli enigmi celati nello scambio di quegli stringati dialoghi, la frustrazione di non riuscire a portare conforto, a provocare un sorriso, di non sentirsi capaci nell’infondere col proprio amore la risoluzione interiore a qualsiasi problema che affligge profondamente il suo adorato figlio. Il lettore diventa la madre di Giovanni, viene assorbito completamente nelle emozioni di lei, nelle sue preoccupazioni, nelle sue intenzioni, nello sforzo (che lei compie in maniera naturale) di evitare con delicatezza qualsiasi scomodità per il figlio. Tutta la sfera emotiva della madre viene descritta col fine di immedesimarsi in lei, restituendoci la bravura con cui l’Autore è chiaramente capace di padroneggiare la realtà, quella più complessa ed umana: la realtà degli affetti.

Buzzati è umano anche nella chiusa del suo breve ed intenso racconto: la madre saluta come segue il signore che le porta via suo figlio «così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre) affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato».

Il personaggio della madre non viene mai sciupato da toni rancorosi o di rabbia, nemmeno quando lo si riterrebbe legittimo: fino alla fine, resta comprensiva, senza che tale caratteristica porti il lettore ad interpretarla erroneamente per una debole. Padroneggiare questa capacità, impedendo di scadere in incomprensioni, pure legittime, sottolinea una volta di più la familiarità che l’Autore ha per le cose che sono umane, e per la loro descrizione

Alla fine, noi lettori salutiamo Giovanni mentre si allontana all’inarrestabile galoppo del suo cavallo ora che «la guerra paura non fa», ora che «corri cavallo, corri ti prego […] corri come il vento che mi salverò» ma la salvezza ha portato i nostri soldati lontano da questo mondo.

Concludo sottolineando un aspetto molto curioso: sia Dino Buzzati che Roberto Vecchioni introducendo la morte, uno in vesti maschili, l’altro femminili, hanno scelto di descriverla magnanima, dolorosamente inevitabile certo, ma misericordiosa. Un potente contrasto emotivo per chiunque abbia un’anima ed affrontato un lutto, forse un invito degli Autori a contemplare la Mortalità con uno spirito più transigente.

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