Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jaspers e Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Franco Bertossa, maestro di meditazione, allievo di Gerard Blitz, insegna da oltre quarant’anni come riassorbirsi nel punto di scaturigine dell’esperienza cosciente. Il suo insegnamento combina insieme il buddhismo, nella sua matrice zen, e la filosofia occidentale, con una particolare attenzione alla filosofia di Descartes, all’idealismo e, soprattutto, all’ontologia fondamentale di Heidegger.
Secondo Bertossa, l’illuminazione, quella che i giapponesi chiamano Satori, è un risveglio alla radicale differenza tra l’essere – inteso in senso verbale – e il nulla. La visione dell’infondatezza, preparata dal sentimento dell’Angst, lungi dal far sprofondare nella disperazione, rilascia uno stupore in grado di cogliere il carattere miracoloso di tutte le cose, le quali, contrariamente a quanto si crede, non sono necessarie e nemmeno contingenti: sono impossibili. Ogni ente, compreso il nostro sguardo su di esso, non dovrebbe esistere, dal momento che ogni ente, suo malgrado, si ritrova ad essere, ad essere altro dal niente, senza che di questa alterità si possa rinvenire la causa. Ogni causa, infatti, è ancora essere, ancora infondatezza. Tutto è sospeso, come un sasso, nel vuoto. Visione dell’essere e visione della vacuità sono un tutt’uno: la vacuità non coincide con il niente, ma con il fatto d’essere di ogni cosa, con l’alterità di ogni ente dall’abisso del nulla. Vuoto non è l’assenza o l’annientamento di qualcosa, ma il suo sporgere, misterioso, dal niente, il suo essere, come recita il verso 279 del Dhammapada, privo di sé. Il sapere dell’essere – il quale, appunto, è il sapere della vacuità – è sapere nella duplicità del genitivo. Non un sapere che tematizza l’essere come suo oggetto – genitivo oggettivo – ma un sapere dell’essere da parte dell’essere circa la sua radicale differenza dal niente, circa la sua vacuità. Questo sapere è detto Prajñā. È un sapere che si produce nel soggetto, ma non è del soggetto. È un sapere metasoggettivo e metaoggettivo che abbraccia tanto l’io quanto ogni suo oggetto. Questo sapere, che concerne «il miracolo di nessun Dio», dal momento che anche Dio si ritrova ad essere, gettato nell’alterità di ogni ente da niente, è «il divino», l’assoluto, ciò che non può derivare da altro. L’essere, il suo mistero, è un mistero sapiente, che sa di sé e sente se stesso nelle tonalità emotive dell’angoscia e dello stupore. Tramonta, dunque, in questa prospettiva, il Dio personale delle religioni positive e, al suo posto, subentra il mistero dell’essere e il suo divino sapere.
In ogni uomo c’è una volontà di verità e di bene che precede qualsiasi altra volontà – la volontà di piacere e di potenza, in questa ottica, sono subordinate alle prime due, sue distorsioni quando pretendono di assolutizzarsi –: ciò che in noi cerca la verità è la verità stessa, è il mistero stesso che si fa sentire e sapere e, in questo senso, si prende cura di noi. Ma qual è il luogo di rivelazione di questo mistero sapiente? Se è vero, come sostengono alcuni neuroscienziati, che l’io non è altro che una sovrastruttura della fondamentale struttura biologica, delle reti neurali, come è possibile che si dia risveglio? Qui Bertossa prende in egual misura le distanze dalla visione fisicalista e da un’errata interpretazione dell’ānatman. In questo duplice distanziamento Bertossa si avvicina all’idealismo gentiliano, pur non condividendone gli esiti.
Per Gentile, non è possibile che vi sia qualcosa di anteriore all’atto puro del pensare. L’autoctisi, l’autocreazione dell’io, e l’eteroctisi, la creazione dell’altro, si compongono nell’atto in atto del pensare. Croce, secondo Gentile, è vittima dello stesso errore degli idealisti che li hanno preceduto. Egli, con la sua dialettica dei distinti, non si accorge di aver elevato delle forme metodologiche del conoscere a strutture della realtà aventi i caratteri dell’eternità e dell’immutabilità. Queste forme rimandano all’atto di unificazione dello Spirito, l’atto in atto del pensare, da cui si diramano le infinite categorie della realtà e del pensiero. Per essere ogni categoria deve essere pensata, altrimenti è nulla puro non essere. Ma se viene pensata, allora la sua verità risiede nel pensiero pensante.
Il pensiero pensante è trascendentale. Il pensiero in atto non può mai essere oggetto del conoscere, non può essere suscettibile di descrizione perché è l’atto stesso di descrivere e di conoscere.
La natura e l’Idea, logo la chiama Gentile, sono dedotti dal pensiero in atto. L’atto, la sintesi, precede natura e logo, il dominio dell’analisi. L’atto del pensiero, però, è posto da un soggetto e si riferisce sempre a un oggetto. Se ne deduce che il moto stesso del pensiero è triadico (ancora Hegel). L’io pone se stesso (tesi), oppone a se stesso il non-io (antitesi) e pone se stesso come sintesi differenziata e in sé unificata. È tolta la cosa in sé, indipendente dal soggetto. Parimenti, è tolta la sintesi apriori delle categorie. Non c’è differenza sostanziale tra sensazione e intelletto. La prima è solo il momento primordiale della dialettizzazione dell’atto. Non occorrono concetti puri o categorie: l’unica categoria o concetto è il soggetto inteso come conceptus sui, concetto di sé. Dove il concepire assume il suo significato etimologico di porre un oggetto. L’attività dell’io è autotetica, auto-ponentesi: pone se stesso.
Il soggetto che effettua la sintesi, questo è un punto di capitale importanza, non è il soggetto empirico, l’individuo (Severino sostiene che tra i filosofi contemporanei solo Croce, Gentile, Jaspers e Heidegger hanno tenuto ben ferma questa distinzione tra io empirico ed io trascendentale), ma l’io trascendentale, assoluto, infinito. Se il soggetto trascendentale potesse rendersi trasparente a se stesso, non sarebbe più soggetto, ma oggetto; non più pensante, ma pensato. L’io trascendentale non è fenomeno, ma la radice originaria e inoggettivabile del fenomeno. Da qui giunge l’accusa di misticismo da parte di Croce, il quale osserva che l’io, così come inteso da Gentile, può servire per sentirsi in intimità con Dio, dal momento che presenta tutti i caratteri propri del Dio della teologia negativa e della mistica, ma inopportuno a pensare ed agire nel mondo, nella concretezza della realtà storica. Gentile si difende sostenendo che l’io trascendentale non distrugge la molteplicità degli io empirici, i quali compongono il sociale, ma li unifica. Nell’io trascendentale sfuma la distinzione tra pensiero ed azione. Il pensiero-azione è sempre verità e bontà, nel senso che il male e l’errore non posso appartenere all’atto del pensiero pensante, solo al pensato, al passato. Il male non è, era. È pensiero pensato, volontà voluta, aziona attuata e non attuantesi. Se il male è l’errore fossero in atto, bloccherebbero il divenire. Solo il pensiero come atto puro può autenticamente rendere conto del divenire.
Il pensiero medesimale di Bertossa si muove nello stesso orizzonte gentiliano: la meditazione è riassorbirsi nel principio di sé, nello sguardo originario nel suo attuale dispiegarsi, nel suo primigenio affacciarsi sul mondo. Se il pensiero della scienza è un pensiero transitivo, ossia che transita da un soggetto a un oggetto, il pensiero medesimale della meditazione, in quanto sapere in prima persona, è atto puro, pensiero pensante che non può avere niente fuori di sé, dal momento che ogni oggetto è un pensato e in virtù del fatto che l’oggetto del conoscere non è un pezzo di mondo, ma il vedere stesso, il suo situarsi dietro gli occhi fisici, carnali. La relazione che si istituisce tra l’io e se stesso non può mai essere debole, relativa, ma è sempre forte, assoluta. Nessuno può non credersi, nessuno può non credere alla propria originarietà e trascendentalità, dal momento che anche il non-credersi è credere di non credersi. Si può dubitare di ogni cosa, questa la verità perenne scoperta da Cartesio, tranne dell’atto in atto del proprio domandare. Esiste, si chiede Bertossa, un atto più originario del domandare e della sua co-estensione con il credere? La domanda stessa rivela la risposta. Anzi, è la risposta. Il dubbio è la porta di accesso dell’assolutezza di sé. Esso non può essere analizzato come un che di oggettivo, sondando la sua corrispondenza ai rispettivi correlati neurali. Il dubitare è atto medesimale per eccellenza. Se volessimo, infatti, risalire a un antecedente del dubbio, dovremmo porre in dubbio l’originarietà del dubbio. Insomma, qui si verifica lo stesso paradosso del Barone di Münchausen descritto da Schopenhauer in Die Welt als Wille und Vorstellung per mostrare la trascendentalità della coscienza. Non possiamo aggredire il dubbio se non con il dubbio stesso: non possiamo uscire dalla nostra medesimezza. La freccia del pensiero transitivo, dal soggetto all’oggetto, nel pensiero medesimale, si piega, anzi si ripiega su se stessa: dal soggetto al soggetto. Questo ripiegamento si volge secondo la scansione dei quattro tempi della coscienza: 1) L’essere aperti su un ambito di esperienza, l’affacciarsi originario della coscienza sul mondo. 2) La capacità mentale di isolare nel campo dell’esperienza un fenomeno. 3) Ogni riconoscimento si fonda sulla messa in questione, fenomenologicamente diremmo sull’epochizzazione del fenomeno: ogni fenomeno è aggredito dal dubbio. 4) Al dubbio segue la risposta, il pieno riconoscimento del fenomeno epochizzato. I quattro tempi della coscienza sono trascendentali incarnati, vissuti in prima persona, per il tramite dell’esistenza singolare. Non si possono negare dal momento che l’atto di negazione sottostà ad essi: cosa significa, infatti, negare se non previamente dubitare? E cos’è l’atto del dubitare se non un atto consustanziale al previo riconoscimento del fenomeno da dubitare? E come si può dubitare se non si crede al dubbio, alla sua inconcussa realtà? Bertossa, sulla scia di Hakuin, sostiene che solo dal «grande dubbio», da questa massa incandescente che, talvolta, ci soffoca, facendo risuonare le voci del niente, può aprirsi la via che conduce all’assoluto di sé. L’io non può essere negato, l’esistenza precede ogni essenza e, dunque, ogni negazione. Eppure, questo pensiero pensante, da cui sempre siamo pensati e agiti – uno dei frutti della meditazione è l’esperienza dell’essere-già-lì del pensiero: non decidiamo di pensare, siamo nel pensiero, partecipiamo all’attualità vissuta e incarnata di esso –, non è il termine ultimo dell’indagine filosofico-meditativa. Ciò che non ha visto Gentile, e che, invece, Heidegger ha saputo intravedere, è lo sfondamento della visione coscienzialista. Quello che non ha visto Gentile è l’esperienza coscienziale come Dasein, come relazione costitutiva con il Sein, con l’essere inteso come alterità radicale dal niente. Ciò che Gentile non ha colto è la non-nientità del pensiero pensante. Il pensiero medesimale risale all’originarietà dell’esperienza cosciente, all’ānatman. Ma cosa significa non-sé? Significa forse relativizzazione della coscienza, illusorietà dell’io? Nulla di tutto questo. Illusorio è l’idea dell’accasamento, del prendere dimora presso l’io, senza vedere che la sua assolutezza, la sua trascendentalità, è concrezione della differenza ontologica: l’esserci dell’io non è derivabile da altro, è assoluto; la sua essenza, per così dire, è il rapporto essere-nulla, il mistero della sua sporgenza dal niente. Il pensiero medesimale non ha un fuori, è in sé stesso un fuori, un’alterità. Proprio per questo non è suscettibile di essere posseduto. L’illuminazione, allora, non solo l’esperienza dalla originarietà della coscienza, ma il suo indebito apparire. Illuminazione è, secondo Bertossa, un evento catastrofico, proprio nel senso etimologico greco, che segna un prima e un dopo. Dapprima di questo evento il mondo è celato dal niente, per riprendere la metafora di Saisho, foreste, monti e fiumi non sono tali perché l’infondatezza, cioè il niente come radicale mancanza di senso, li cela allo sguardo. Ma il niente – il quale, non essendo, rilascia un significato, un significato metaconcettuale – soltanto mostra essere, lo rivela: allora foreste, monti e fiumi appaiono così come sono. Appaiono, cioè, come impossibili, come «miracoli di nessun Dio». Appaiono in una luce, insieme respingente e accogliente, perché non dovrebbero essere, dal momento che non posseggono causa e fondamento: ogni causa, ogni fondamento, è ancora essere, differenza dal niente. Allora, solo allora, si comprende che l’essere stesso, nella sua dialettica di dono e ritrazione, di latenza e palesamento, è l’illuminazione. L’essere è il bene perché la sua visione, la visione della sua vacuità, della sua differenza dal niente, rilascia lo stupore originario. Tale stupore non può essere ridotto a una contemplazione estetico-religiosa del mondo. Esso, se accolto in tutte le sue implicazioni, apre al sentimento etico del «non per me». Gabriel Marcel avrebbe detto che chi vede il mistero dell’essere si apre al sentimento della «non-pretesa». L’essere non è un nostro possesso, niente può dirsi veramente nostro. Il dolore è volere che le cose siano altro da ciò che sono, è voler prendere dimora e aggrapparsi agli enti, fisici e mentali. Ma questa assenza di dimora trasforma ogni posto del mondo nella dimora della non-dimora, ossia del mistero dell’essere. Il nichilismo giudica l’esistenza inospitale e indegna di essere, assolutizzando e ipostatizzando il niente di senso e valore. Il buddhismo, invece, così come insegnano Saishō e Bertossa, è il ribaltamento del nichilismo. Esso rappresenta l’altra faccia dell’infondatezza, là dove la negazione, che brucia e divora ogni senso, appare anch’essa vuota, infondata: «neppure negazione». La possibilità fondamentale del pensiero pensante, la possibilità che Gentile non ha visto, è la visione della vacuità di tutto, anche del pensiero. Il pensiero medesimale del maestro Bertossa conduce al mistero sapiente dell’essere.
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