Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: R. Sasdelli, Quei matti di antifascisti. Cinquantatré storie di sovversivi finiti in manicomio durante il fascismo, Pendragon, Bologna 2022, pp. 261, € 18,00.

Le decine di storie ricostruite da Renato Sasdelli e raccolte in Quei matti di antifascisti, confermano una volta di più il fatto che anche il fascismo italiano abbia utilizzato anche i manicomi come luoghi dove “liquidare” un vasto e variegato mondo di sovversivi, emarginati, uomini e donne “non conformi”, realmente pericolosi o solo potenzialmente pericolosi.

Occupandosi di casi emiliano-romagnoli, e bolognesi in particolare, Sasdelli ha mostrato come il regime mussoliniano abbia sfruttato a proprio vantaggio la legislazione già esistente sugli internamenti psichiatrici, sia per reprimere sia per prevenire ogni possibile attentato all’ordine nuovo stabilito nel Paese dopo il 1922. Non ci si può ovviamente lasciar andare a generalizzazioni peraltro suggestive – non dobbiamo insomma immaginare che sia avvenuto nell’Italia mussoliniana quanto sarebbe avvenuto più avanti nella Russia sovietica, con una esplicita e massiva psichiatrizzazione del dissenso – ma è indubbio che la psichiatria sia stata usata (o meglio: che la psichiatria si sia prestata senza particolari problemi) per “neutralizzare” senza troppo clamore nemici politici o, semplicemente, “disturbatori” di vario genere. In generale, il manicomio era uno strumento duttile perché permetteva di risolvere ogni presenza dissonante, ogni possibile voce discordante svalutandola con la follia, ridicolizzandola con una diagnosi psichiatrica.

In queste storie c’è ovviamente di tutto: da veri militanti socialisti o comunisti a ubriaconi che si lasciavano sfuggire una imprecazione contro il re o contro il duce e che, per questo, potevano facilmente finire in una caserma, in una prigione e, talvolta, in un manicomio. Emerge senza dubbio – come giustamente nota Luca Alessandrini nella prefazione – un chiaro meccanismo classista in questa particolare forma oppressiva: «Il manicomio è servito per la repressione di antifascisti, ma è stato anche un dispositivo attivato verso persone prive di un solito inserimento sociale, che sono potute entrare in un meccanismo che le ha assorbite e le ha triturate» (p. 16).

Quello dei “matti del Duce” – per citare il titolo di un altro volume recente su questo tema – è stato un fenomeno quantitativamente limitato, ma sicuramente significativo del modo assai disinvolto in cui le istituzioni italiane, giudiziarie ma anche sanitarie, si siano occupate durante l’epoca fascista di tanti “folli”. Anche perché, è bene ricordarlo, il fascismo ha potuto beneficiare delle “procedure d’urgenza” per i ricoveri già previste nelle leggi dei primi anni del Novecento: se da una parte, infatti, la legge del 1904 sui manicomi (e il successivo Regolamento del 1909) permettevano internamenti “d’autorità”, senza che ci fosse la richiesta di un familiare o di un medico, anche i manicomi criminali (poi noti come ospedali psichiatrici giudiziari) potevano rappresentare una soluzione piuttosto agevole.

Questo libro mostra assai bene la pervasività della vigilanza di regime sulla condotta e sulle idee dei singoli. Non può stupire, in questo senso, il numero così scarso di “ravvedimenti”: l’obiettivo era appunto quello di individuare e bloccare i potenziali nemici (del partito, della nazione, dell’ordine pubblico, del decoro ecc.), non quello di convertirli. Non è dunque possibile delineare un caso tipico, ma emergono purtuttavia alcuni aspetti che vale la pena di sottolineare: da un lato il manicomio durante il fascismo continua ad essere, così come già, ad esempio, durante la Grande Guerra – pensiamo ai militari “scemi di guerra” –, un rifugio contro la violenza degli apparati polizieschi e giudiziari, dell’Ovra, del Tribunale speciale e così via. In altri termini, non sono mancati casi di simulazione di malattia psichiatriche. Dall’altro lato, è comprensibile il fatto che tanti perseguitati dal regime finissero prima o poi per accusare veri e propri sintomi psichiatrici: in un contesto in cui non ci si poteva fidare di nessuno, in cui pullulavano le spie, non era poi difficile diventare “paranoici”. Quindi ha senso che nei manicomi si manifestassero, anche fra i “sovversivi”, autentici casi di paranoia, veri deliri di persecuzione ecc.: dopo mesi o anni di “attenzioni” da parte della polizia del regime, dopo vessazioni e privazioni, capitava che la malattia che era la persecuzione fascista diventasse una vera e propria malattia mentale.

Un’ultima notazione importante riguarda il fatto che la grande maggioranza dei casi esposti in questo libro fossero di uomini. Si sa, la “politica” è sempre stata soprattutto una cosa da uomini e, d’altra parte, storicamente le donne più difficilmente finivano in manicomio. Ma giustamente Sasdelli dedica un capitolo proprio ai casi femminili, sottolineando come a essere colpite dagli internamenti manicomiali all’epoca del fascismo fossero soprattutto quelle donne che si sottraevano all’immagine che il regime voleva per le italiane: «I comportamenti estranei al canone di donna modesta nei comportamenti, dedita alla famiglia e unicamente votata alla procreazione: “di discutibile moralità”; “amante”; madre per “unione illegale”, erano a volte sottolineati dalla polizia prima ancora delle condotte sovversive» (p. 183).

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