Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Secondo Tolkien, il celebre autore de Il Signore degli anelli, dobbiamo adeguatamente distinguere tra due tipi di fughe: quella del disertore, che scappa di fronte alle proprie responsabilità, e quella di chi evade dalla propria prigione. La differenza viene ricordata dallo scrittore in un saggio del 1964, dal titolo Sulla fiaba. Il secondo tipo di fuga è anche quello di chi, immergendosi in un racconto fantastico, lascia momentaneamente il mondo reale per poi ritornarvi con la maggiore lucidità data dalla presa di distanza della fantasia. La prigione, talvolta, è la realtà stessa, quando non si riesce ad immaginare delle alternative ai dati di fatto. La prima fuga, invece, è il rifiuto dell’urto con l’esterno, di ciò che non possiamo controllare. Nel primo caso non si modifica nulla della realtà, nel secondo, invece, la fuga significa mutare la propria condizione o porre le basi per farlo.

La precisazione di Tolkien può sembrare banale solo se non si ha contezza di quante volte i due tipi di evasione vengono confusi. Dire di voler “abolire la povertà”, ad esempio (spero che il riferimento politico non offenda nessuno), significa gabellare l’evasione da un drammatico problema umano vendendola per fuga collettiva dalla prigione dell’indigenza. La religione, l’utopismo, l’irenismo, le ideologie, spesso sono servite come fuga misticheggiante dai problemi della vita spacciata per liberazione esistenziale. L’evasione dalla realtà intesa come fuga dal costo che vivere comporta è probabilmente la vera sindrome non diagnosticata delle società in cui viviamo. L’escapismo di massa in cui siamo coinvolti – ecco il nome della sindrome – è forse il frutto del nostro stesso successo nel costruire apparati di difesa dai pericoli naturali e sociali: la tecnologia, la medicina, il diritto hanno funzionato così bene – perlomeno nella nostra parte di mondo e negli ottant’anni che abbiamo alle spalle – da convincerci che le nostre case illuminate e riscaldate, il frigorifero pieno, la farmacia e il commissariato di polizia sotto casa, siano come la forza di gravità o i legami intermolecolari: datità di natura. «La ragione borghese si propone non soltanto di ostruire le sorgenti del pericolo – ha scritto Ernst Jünger in Der Arbeiter – ma di inaridirle del tutto. Ciò avviene nel momento in cui il pericolo, alla luce della ragione, assume le sembianze dell’assurdo, e con ciò perde il diritto a realizzarsi»: ecco, sembra quasi che oggi il pericolo non abbia il diritto di realizzarsi. Eppure il pericolo non è assimilabile alla ragnatela del bene e del male, semplicemente si dà. Sarà per questo che dinanzi alla morte o a un infortunio, il primo pensiero è ormai denunciare qualcuno. Per questo “abolire la povertà” era uno slogan perfettamente in linea con lo spirito del tempo, così come il sospetto pazzoide sui vaccini, che ancora ci circonda, sembra la volontà inespressa di abolire le malattie per decreto. Va da sé che l’altro slogan molto di moda in questo tempo, vale a dire “aboliamo la guerra”, si inserisce nello stesso filone.

Non voglio prendere in giro la volontà di pace, anzi, ma l’indisponibilità quasi infantile di molti a inserirla nel tessuto connettivo di ciò che minaccia la vita. Colpisce particolarmente il fatto che povertà, epidemia e guerra, corrispondano ai tre cavalieri dell’Apocalisse che, stando alla pagina biblica, compaiono sulla scena dopo il cavaliere bianco (sulla cui interpretazione ci sono diverse versioni), quando l’Agnello (Gesù Cristo) apre i primi quattro dei sette sigilli che chiudono il rotolo che sta nella mano di Dio. Nel corso degli ultimi anni, prima la pandemia, poi la guerra e, in seguito a questa, il problema delle materie prime e dell’approvvigionamento delle risorse  ̶   che i dazi di Trump promettono di accentuare  ̶  sono tornate sulla scena della storia. In verità non se n’erano mai andate: chiusi nel nostro gigantesco safe space largo quanto l’Occidente, avevamo semplicemente rimosso il problema. Così come la ormai tristemente nota foto dei camion militari che, a Bergamo, trasportavano le bare con le vittime del Covid, è stata più volte definita una montatura propagandistica per giustificare misure restrittive “totalitarie”, anche la natura imperialista dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin viene in fondo negata da una parte dell’opinione pubblica, e con essa la documentatissima guerra ibrida russa portata in Europa coi mezzi della disinformazione organizzata. Da qui si comprende come anche soltanto le parole “armi” e “difesa” siano perfino impronunciabili dinanzi ad alcune persone, e ciò a prescindere dalle diverse e legittime posizioni che si possono avere sulla prospettiva di rafforzamento militare europeo di cui si discute in questi mesi. Semplicemente, la necessità empiricamente indiscutibile di un mondo in cui la libertà e i diritti devono essere difesi, se proprio si deve anche con la forza, perché non tutti scelgono di vivere in pace, è da taluni del tutto rimossa. Il fatto inemendabile che per fare la pace si deve essere in due, ma per fare la guerra basta uno solo, è altresì del tutto eliminato da una quota parte di nostri contemporanei. È anche per questo che la favola di un Trump pacifista è risultata plausibile a molti: con tutta questa volontà di non credere all’esistenza del pericolo, come fai a non dare fiducia a chi promette di riportare in ventiquattro ore il mondo alla sera tranquilla che ha preceduto questo giorno difficile?

Al di là e prima dei cinici opportunismi di qualche partito, delle impuntature ideologiche, della dose fisiologica di stupidità, uno dei problemi fondamentali, dinanzi a tutto quello che sta succedendo nel mondo da un lustro a questa parte (forse da molto prima), è la fatica (comprensibile) ad accettare la situazione, a fare i conti con un reale che ha bucato la crosta delle nostre illusioni. Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha correttamente indicato nella “algofobia”, la paura del dolore, uno dei tratti distintivi della nostra epoca:

L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore. L’algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione al consenso.

C’è un filo rosso che tiene insieme la pretesa di bonificare i testi letterari dalle scene ritenute moralmente deprecabili, la moltiplicazione dei trigger warning, fino al rifiuto di molti di credere alla serietà del Covid o al pericolo rappresentato dalle tendenze autocratiche che minacciano l’ordine democratico: tutto è tenuto insieme, credo, dalla volontà di neutralizzare le asperità del reale. Il risultato è la scomparsa dell’Altro. Non l’altro come l’altra persona e basta, ma l’Altro come quel Fuori che non abbiamo ancora addomesticato del tutto e che mai, suppongo, addomesticheremo.

La civiltà, con tutto il suo carico di leggi, tribunali, forze dell’ordine, istituti formativi, organismi sanitari e così via, è la grande infrastruttura, fondata essenzialmente sul linguaggio, inteso come strumento razionale di organizzazione condivisa del reale, con la quale proviamo a regolare i rapporti col “Fuori”. Ci sono epoche in cui questa regolazione va alla grande, funziona tutto, perlomeno in base al livello di aspettative e possibilità di un certo periodo storico. Ma poi capita uno smottamento, una incrinatura. I nodi della fune con cui avevamo ridotto e dato un limite alla volontà di potenza, ad esempio, si allentano, e questa si mette a prendere a testate la grande infrastruttura, perché pretende un po’ di più o addirittura tutto. Perché? Perché c’è il “male”, signore e signori, quello fisico (terremoti, malattie, eruzioni vulcaniche), quello morale (volontà di dominio, uccisione, meschinità, sopraffazione, razzismo ecc.).

In qualunque modo lo vogliamo intendere, come epifenomeno evolutivo, come concetto teologico o metafisico, c’è il male. Può capitare che arrivi una pandemia; può capitare che, senza che ce ne accorgiamo, un clan di nerd antidemocratici, molto ben istruiti, enormemente ricchi e pure spostati di testa, diventi un gruppo molto influente presso il governo degli Stati Uniti; può capitare che l’autocrate del Cremlino, fino a ieri partner commerciale dell’Ue, con reciproca e razionale convenienza, decida che è il momento di riprendersi tutto quello che crede appartenga al suo Paese, e inizi una lenta scalata al dominio dell’Europa dell’Est. Tutte le indispensabili analisi politiche, economiche e sociali giungono dopo la presa d’atto dell’esistenza del pericolo come di una verità da affrontare. Dinanzi a tutto ciò ci rifugiamo in una ben precisa strategia della “complessità”, che non è quella virtuosa di chi vuole capire meglio i difficili nessi dei labirinti della storia, ma quella di chi punta a diluire la presa di contatto con la minaccia in un ragionamento al cloroformio che evita puntualmente l’esito necessario: per preservare ciò che ritengo irrinunciabile, molto probabilmente dovrò pagare un dazio (a proposito, ancora, dell’ultima trovata del presidente americano). Pur di dribblare questa conclusione, la mente si mette a cercare dei responsabili occulti del disordine, che si possono togliere di mezzo senza costi aggiuntivi: così i guerrafondai non sono quelli che hanno cominciato un conflitto ma quelli che si difendono, chi diffonde la malattia è il vaccino, e così via. Facciamo fatica a guardare i cavalieri che sono tornati sul palcoscenico. Eppure “Apocalisse” non significa catastrofe, come molti ancora credono, ma “rivelazione”.

Lo scopo di quel libro non è terrorizzare ma aiutare a leggere la storia con la sapienza che viene dalla fede e sa guardare attraverso i fatti. Nel capitolo quinto, l’Agnello, colui che ha vinto la morte, appare ritto in piedi ma sgozzato. Un’immagine tutt’altro che placida. Ciò a cui tutti siamo richiamati da quell’immagine, credo, è il profondo realismo, che emerge proprio mentre si racconta la più grande speranza che sia possibile udire da orecchio umano: la vittoria definitiva della vita sulla morte e del bene sul male.

In questo momento storico possiamo prendere tutte le posizioni possibili e abbracciare le interpretazioni più disparate. Ciò che forse non è lecito, per senso di responsabilità verso il proprio tempo, è la fuga da una realtà in cui, purtroppo, dei mansueti e dolci agnelli vengono ancora sbranati dai lupi famelici. Da tutto ciò non segue questa o quella specifica ricetta politica: su questo dobbiamo sbrigarcela da soli. Possiamo però forse affermare che qualsiasi decisione prenderemo, se non avrà come presupposto l’accettazione del reale in tutta la sua problematicità, potrà soltanto peggiorare la situazione.

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