Recensione a: F. Hadjadj, Essere padri oggi. Un San Giuseppe per tempi postmoderni, Cantagalli, Siena 2022, € 19,00.
«Meglio una testa ben fatta che una ben piena». La celebre frase del filosofo Montaigne è un attentato alla scuola, per come oggi è concepita. Nozionistica, ai limiti del ragionevole, appendice di multinazionali che sorgono imperiture. Non si preparano menti critiche e quindi di per sé libere, ma funzionanti, produttive. Un vero peccato. Con questo metodo educativo, se educativo si può chiamare, si vogliono formare in primis dotti, eruditi. Guai a parlare di saggezza o, addirittura, sapienza. Sono gli attestati, il poter dire “io ho questo o quest’altro” a qualificare la persona.
Il lettore, leggendo il titolo della recensione, si starà chiedendo: perché questa introduzione se il saggio in questione si intitola Essere padri oggi? Rispondo procedendo per passi. Partiamo dall’Autore, persona che oggi si potrebbe definire controversa nelle scelte di vita, soprattutto guardando gli ultimi dati Istat che attestano che in Italia ogni 1000 abitanti nascono in media 7 bambini. Perché Fabrice Hadjadj, filosofo cattolico di cittadinanza francese, è padre di nove figli. Non due, non tre, nove. Quasi una squadra di calcio a 11. Hadjadj, con la sua libido, non la manda a dire ai difensori del One child, One planet.
La sua scelta, radicale senza dubbio, non è però frutto di una qualche forma di ostentazione. Colpisce ciò che scrive nelle pagine iniziali del saggio:
Non siamo mai pronti a essere padri. È qualcosa che ci cade addosso – a causa della nostra debolezza per le parti intime. [..] Forse la paternità è come la nascita: ci tocca con e malgrado noi, verso e contro tutto. Forse non è il risultato di un calcolo ma la fonte di una libertà, insomma, è la vita stessa.
Da queste parole si evince un fatto, oltre che l’evidente rifiuto nell’uso dei contraccettivi già di per sé rilevante. Al di là di ogni legittima speculazione dogmatica e, aggiungo, biologica, circa il valore, l’importanza dell’essere padre e madre, la filiazione di Hadjadj è la risultante di un timore secolare insito nel Cristianesimo, come in ogni altra religione: senza figli le radici di una religione sono destinate a dissiparsi. Dietro il dogma della filiazione, impresso nelle mura del Vaticano, c’è il bisogno di consolidare ancora il proprio dominio spirituale e culturale sul vecchio continente. L’atto del far nascere nasconde quindi anche, ma non solo, un anelito di potere. Politicamente scorretto tutto ciò? Senza dubbio.
Torniamo però all’Autore. Non solo Hadjadj si è visto piombare dall’alto un figlio, anzi più figli, senza alcun tipo di programmazione. Chi meglio di San Giuseppe può incarnare l’imprevedibilità della vita che ti travolge e ti lascia costernato e impreparato? Ricordiamoci che infatti Maria venne da lui annunciando la nascita di un figlio nonostante fosse vergine. La sua reazione? Dopo l’iniziale e, direi, legittimo desiderio di ripudiarla, Giuseppe sposa la causa dell’alleanza, si unisce in una sola carne, nonostante tutto. Perché Giuseppe desidera Maria, ma non in senso edonistico, in una declinazione del godimento. La sua essenza lo travolge, è un desiderio carnale e non fisiologico, come ci spiega Hadjadj.
La figura biblica di San Giuseppe, lasciata troppo spesso ai margini sia da parte del mondo cattolico che laico, è tanto semplice quanto complessa: uomo di umili origini, falegname, e molto più anziano della giovane Maria. Sembrerebbe impreparato a educare quello che sarà il figlio di Dio in Terra. Come può un falegname indicare la retta via, accendere fiaccole nel buio della notte, lui che si trovava fra gli ultimi?
Risuona nuovamente la frase iniziale di Montaigne fra le righe di questa recensione: meglio una testa ben fatta che una ben piena. Chi si rende degno del ruolo di padre? Padre è forse un maestro, che abbellisce insegnamenti di vita con citazioni forbite, o un educatore professionalizzante, che affronta lo straordinario con gli strumenti dell’ordinario? No, secondo Hadjadj. Padre è colui che trasmette la vita attraverso le parole, le azioni. Essere degni del ruolo di padre, significa dare riprova di saggezza. Il saggio è colui che ha come bussola per orientarsi il lume della ragione, è colui che sa discernere fra il bene e il male, che agisce nella moderazione e nell’equilibrio dei giudizi. Senza saggezza, senza una buona testa, non si è degni di essere padre.
San Giuseppe, l’umile e saggio, ha affrontato la tempesta della filiazione e lo ha fatto con autorevolezza. Perché il rimprovero, il divieto, imposto e non compreso, è atto sì illiberale, ma quanto mai doveroso e necessario nell’educare un figlio al senso del limite, persino a educare il figlio di Dio.
Ora, nonostante l’essenza apparentemente democratica della saggezza, che può invadere i più, è difficile riconoscere questo anelito nel demos, questo soffio vitale che ricerca il vero. La saggezza più che inclusiva è esclusiva. Non si possono sventolare attestati che certificano la bontà di tale predisposizione o non ci sono università predisposte alla formazione di buone teste (forse di teste piene sì?). E allora se ci sono pochi saggi in giro, ci sono anche pochi padri degni di tale nome? Credo di sì, purtroppo.
Alla luce di questo, parlare di programmazione nell’atto del procreare ha ancora senso? Se per programmazione si intende quel processo cosciente di un individuo che contempla il proprio riflesso, le proprie difformità, senza dubbio sì. Non voglio pensare che un figlio, usando le parole di Hadjadj, capita, come capita di nascere, perché la vita giunge a te.
È pur vero che l’ imprevedibilità insita anche nell’atto della procreazione è come la marea che tenti invano di arginare, ma questo non significa che non debba avere un contraltare. Perché il diritto di essere padre assume senso di esistere se l’altro lato della bilancia è terreno fertile per un interrogativo: sarei degno di essere padre, al pari di San Giuseppe? Se la risposta dovesse essere negativa, si può sempre mandare una mail all’Istat, sperando che capiscano.