Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».
Recensione a: A. Marcone, Democrazie antiche. Istituzioni e pensiero politico, Carocci, Roma 2017, pp. 168, € 13,60.
Il termine “democrazia”, oggi ampiamente inflazionato, ha una storia non meno peculiare del regime politico che la esprime originariamente. Spesso visto come terreno di frontiera tra civiltà e barbarie, il pensiero democratico moderno si è progressivamente sottratto alla complessità storica ed è diventato una fucina di fraintendimenti semantici.
Democrazie antiche di Arnaldo Marcone permette di approcciarsi al discorso sulla “democrazia” in modo scientifico e consente al lettore di dissipare la patina narrativa che accompagna il termine. Accompagnato da un solido impianto antologico, questo volume fornisce la possibilità di accostarsi direttamente, e in modo mirato, ai caratteri originali assunti dalla democrazia nel mondo antico. Oltre che a descrivere lo svolgimento della vita politica democratica nell’antichità, il libro di Marcone cerca di stimolare una riflessione riguardo il confronto tra democrazia antica e moderna. La domanda che sorge spontanea è se la democrazia occidentale abbia a che fare con quella ateniese di cui porta il nome. Se, in altri termini, ci sia un filo rosso che collega Atene con le cosmopoli d’Occidente.
Il termine stesso “democrazia” è assai problematico, più di quanto potrebbe sembrare dopo un primo sguardo. Il suo significato è noto come potere (kràtos) del popolo (demos), ed è proprio con questo valore che compare in Aristotele in Costituzione degli ateniesi (41, 2). Tuttavia, le aspettative moderne – spesso largamente idealizzate – riguardo al sistema democratico ateniese vengono puntualmente disattese da un confronto serio e sistematico con il passato. Quelle che vengono presentate come sfumature sono in realtà delle differenze strutturali enormi che ci spingono ad interrogarci sulla legittimità di utilizzare uno stesso termine per comprenderle.
La democrazia ateniese che arriva ad un solido consolidamento nel V secolo con Pericle – ci dice Marcone – è il risultato complesso di un processo storico e politico che si sviluppa in risposta alle tensioni sociali tra l’aristocrazia fondiaria e i contadini tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo. Il superamento delle contrapposizioni interne che permette la svolta democratica delle istituzioni ateniesi procede per tappe intermedie. Aristotele in Politica (1273B-1274A) identifica in Solone il fondatore della pátrios demokratia e riconosce come il suo progetto di riforma, caratterizzato da una forte carica etica e politica, riorganizzi il sistema politico ateniese combinando sapientemente le istituzioni aristocratiche e quelle popolari. Una successiva evoluzione nell’ordinamento interno della città fu opera di Clistene che decise di puntare sull’allargamento della comunità politica cittadina favorendo l’isonomia, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Clistene, consapevole che il largo arbitrio concesso dalle sue riforme si sarebbe potuto trasformare in instabilità o, peggio, in sovversione, mise a punto un ingegnoso strumento di deterrenza e conservazione: l’óstrakon. La pratica dell’ostracismo è volta a punire chiunque rappresenti un pericolo per il regime democratico e stabilisce delle coordinate amico-nemico ben precise: amico è il demos che si appropria, a tappe progressive, dei privilegi riservati a una esigua minoranza; nemico, invece, è chi si contrappone in modo assoluto alla formulazione della nuova organizzazione politica, ossia il tiranno.
Sebbene il cammino verso l’instaurazione del regime democratico sembri procedere spedito, non pochi furono i “nemici della democrazia” che si opposero con forza al nascente sistema politico. La democrazia ateniese favorì l’uguaglianza di parola in assemblea (isegoria) ed ebbe come diretta conseguenza lo sviluppo della retorica. Platone, il più aspro critico del sistema democratico, vede proprio nella retorica uno strumento d’inganno e di corruzione della città. La possibilità di parlare senza alcun vincolo era inevitabilmente destinata a degenerare nel malcostume di “parlare per parlare” (parrhesia). Le grandi figure democratiche come Temistocle e Pericle vengono visti come adulatori dei cittadini, anziché loro saggi educatori. Platone, che nella Repubblica indicava nel governo dei filosofi la soluzione dei mali della città, vedeva realizzarsi all’interno della democrazia l’inevitabile decadenza delle forme costituzionali. La metafora della nave del VI libro (488A-497A) porta testimonianza del livello che assume la critica antidemocratica platonica. Dopo un iniziale entusiasmo un giudizio realistico sulla democrazia ateniese incomincia a stabilizzarsi; la riflessione sul valore intrinseco di un “radicalismo popolare” spinse verso un giudizio meno enfatico sulla democrazia.
Dopo aver chiarito il processo storico che porta alla nascita del governo democratico ateniese, Marcone passa in rassegna tutti i suoi organismi fondamentali. L’Autore pone l’accento sull’ekklesía, l’assemblea popolare, cuore pulsante della partecipazione politica, e sulla boulé, o consiglio dei Cinquecento, che aveva il compito di riunire il popolo e di sottoporgli le proposte vagliate preliminarmente. L’amministrazione della giustizia, ancora lontana dal possedere la struttura complessa del diritto romano, è congegnata in maniera tale da eliminare ogni mediazione tra il popolo e la stessa díke. Titolare ultimo del potere giudiziario, infatti, è il popolo in quanto tale senza il filtro di un ceto di specialisti. Il popolo, ci dice Marcone, «era ad un tempo legislatore e giudice e, per questo, considerava qualsiasi violazione dell’ordine come un atto contro il suo stesso potere sovrano» (p. 26).
Molto diversa è la situazione a Roma. Marcone parte da una preoccupazione di fondo: in che termini si può parlare di un “regime democratico” romano, intendendo con questo un sistema in cui sia tutelata e incentivata la piena libertà d’esercizio dei diritti politici individuali? La risposta dell’Autore non si fa attendere ed è lapidaria. L’Urbe non conobbe mai un sistema democratico su modello di quello ateniese. Tuttavia, in età repubblicana, c’erano delle tendenze democratiche, il popolo non era affatto escluso e veniva coinvolto nell’operato politico dell’aristocrazia. Lo strapotere delle magistrature veniva equilibrato – almeno in parte – da quello del tribunato della plebe che poteva esercitare il diritto di veto rispetto alle azioni dei magistrati in carica ed era tutelato dall’inviolabilità (sacrosanctitas). Per poter svolgere un ruolo attivo nella vita politica romana era indispensabile appartenere ad uno dei due “ordini”: quello senatorio e quello equestre. L’inserimento del cittadino all’interno dei due ordini era legato alla genealogia e alle ricchezze individuali. Istituto fondamentale del sistema costituzionale romano era il census, ovvero la valutazione da parte dei censori delle ricchezze di ciascun individuo (p. 39).
Occorre ricordare come nella società romana i rapporti tra potere, prestigio e ricchezza economica sono invertiti rispetto a quelli alla modernità: la ricchezza era un effetto della potenza, non una sua causa. Infatti, ci dice Marcone, le ricchezze erano direttamente connesse al servizio militare e civile – subordinati al mos maiorum – del cittadino. Marcone afferma che è dal rifiuto di ogni drastica rottura con la tradizione aristocratica che scaturisce la stabilità e l’organizzazione dello Stato romano. È nella felice – seppur problematica – integrazione tra governo aristocratico e consenso popolare che Roma trovò un proprio peculiare equilibrio che Polibio esalta con l’idea di “costituzione mista”.
Tuttavia, con l’espansione territoriale dello Stato romano, venne meno la stabilità delle strutture politiche repubblicane che risultarono inadatte a rispondere alla nuova situazione storica. I leader democratici non riescono a rinnovare l’ordinamento politico per renderlo compatibile con la nuova realtà, cosicché si impone un nuovo tipo di potere: l’imperium. Ottaviano sintetizza nella figura del Principe il principio della potestas e dell’auctoritas, i suoi poteri sono indefiniti e illimitati. Successivamente – Marcone ne fa accenno ma non approfondisce il tema – il Principato lascerà posto al Dominato. Il sovrano nel Tardo Antico assurge al ruolo di intermediario tra Dio e gli uomini. Sebbene a Roma il politico è legato a doppio filo con la dimensione sacrale, si va sviluppando un apparato ideologico e simbolico teso a slegare la persona dell’imperatore da ogni forma di vincolo politico.
Concludendo, per affrontare un discorso sereno sulla dimensione storica della democrazia, occorre non lasciarsi coinvolgere in accese e manichee dispute morali. Il libro di Marcone sottolinea come un sistema democratico propriamente detto possa verificarsi solo in condizioni molto particolari, se non uniche – come accaduto della Grecia d’età periclea. Sebbene ai giorni nostri possiamo considerare ben acquisita la differenza tra democrazia antica e democrazia moderna, la sfida di decifrare il vocabolario politico di quest’ultima è ancora aperta. Siamo sicuri che la risposta non porti a dover reinventare un nuovo termine per descrivere l’attuale sistema di governo?