Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Laureato in Lettere e Storia. Redattore presso Dissipatio.it. Ha scritto per«L'Intellettuale dissidente» e«Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».
Recensione a: M.E. Schwab, A. Grafton, L’arte della scoperta. Scavare nel passato nell’Europa del Rinascimento, Carocci, Roma 2024, pp. 280, € 24,00,
Il testo è stato pubblicato in prima edizione nel 2022 con il titolo, The Art of Discovery. Digging into the Past in the Renaissance in Europe, edito dalla Princeton University Press e per l’edizione italiana pubblicata da Carocci con la traduzione di Maurizio Ginocchi.
Scritto a quattro mani da Maren Elizabeth Schwab, storica dell’Università di Kiel, la quale ha concentrato il suo campo di ricerca sulla lingua latina in età rinascimentale, e da Anthony Grafton docente di storia culturale in età rinascimentale presso il dipartimento di storia dell’Università di Princeton. Lo scopo precipuo dei due storici è quello di descrivere il fenomeno culturale dell’antiquaria che ebbe inizio nei primi anni del Quattrocento. Attività, come sottolineano gli autori, prettamente dilettantistica praticata da personaggi che ruotavano intorno ad attività professionali culturali, quali: architetti, monaci, artisti, «che nutrivano un interesse professionale per gli aspetti dell’antichità» (p. 19).
Per sostenere questa tesi vengono presi come oggetto di studio le diverse campagne di scavo avvenute tra il 1480 e il 1518 in diverse città europee, protagoniste indiscusse del Rinascimento, quali Padova, Roma e Canterbury.
Schwab e Grafton evidenziano anche che vi era un tratto comune, sotto il punto di vista della metodologia, dei vari ritrovamenti. Uno di questi aspetti era nella sacralità mistica dei manufatti quando questi venivano ritrovati, sia essi che fossero delle reliquie cristiane che oggetti pagani: «le reliquie emettevano una sorta di radiazione sacra: vederle e ancora più toccarle, poteva suscitare nei credenti emozioni potentissime» (p. 29).
Un’altra connessione nelle due diverse tipologie di materiale antiquario constatava nel ricorrere ai testi della classicità, alle epigrafi e anche delle tradizioni locali per accertare l’autenticità del reperto, metodologia che poi nei secoli successivi, quando nacque l’archeologia classica, venne ampiamente messe da parte.
Il primo esempio portato a suffragio di tale tesi è stato il ritrovamento delle ossa attribuite a Tito Livio, rinvenute nell’autunno del 1413 all’interno di un locale dell’abbazia di San Giustina a Padova, «le cui ossa ricoprivano il ruolo principale in rituali prestabiliti che erano di norma propri della sfera religiosa: la traslazione e l’autenticazione» (p. 56). Resti che furono attribuiti allo storico classico sulla base di un antichissimo detto popolare il quale voleva Tito Livio morto nella sua stessa città natia. Tale leggenda venne ripresa da Francesco Petrarca nel XV secolo che interpretò un epigrafe in modo errato, posta nel muro esterno di Santa Giustina in cui vi era la dicitura: “T. Livius”, ma come venne appurato successivamente nell’epigrafe vi era anche l’iscrizione del cognomen: “Halys”, che successive ricerche di carattere filologico e paleografico appurarono che si trattava di un liberto e non dello storico. Quando vennero scoperte le ossa, mentre si stavano facendo dei lavori di muratura per uno scavo di una latrina, vi fu un’enorme pubblicità straordinaria dell’avvenimento in tutti gli Stati della penisola italiana. Alfonso V d’Aragona, sovrano di Napoli, inviò a Padova il Panormita per richiedere di poter prelevare un osso dello storico. La successiva traslazione delle ossa, venne eseguita secondo il rituale della processione trionfale, che secondo gli autori, «somigliava molto alla traslazione di un santo» (p. 44) e gli astanti indossavano dei paramenti liturgici che ricordavano le fogge degli imperatori romani.
In una contiguità metodologica con il ritrovamento delle ossa falsamente attribuite a Tito Livio è stata la scoperta nel 1485 sulla via Appia, a dieci chilometri da Roma, del corpo di una giovane ragazza, ritrovato sempre durante un lavoro di scavi. Corpo che era racchiuso in un sarcofago e in un discreto stato di composizione. Il giorno successivo al ritrovamento, il corpo venne traslato in Campidoglio ed esposto in pubblico. Il rinvenimento di un cadavere attributo all’antichità pagana e per di più in perfetto stato di conservazione, secondo la cultura mentale medievale e del primo rinascimento era sinonimo di santità. Gli autori ipotizzano che papa Innocenzo VIII, proprio perché il corpo era “pagano”, decise di far sparire il cadavere dopo alcuni giorni dal ritrovamento. Della mirabile scoperta furono redatti numerosi resoconti, ma come hanno sottolineato gli autori del saggio, se questi recavano le analoghe informazioni erano quasi identiche per le informazioni di base, quali: luogo di rinvenimento, la data ma differenziavano tra esse sull’identità del corpo della fanciulla. Come riportano le stesse cronache vennero utilizzati due metodi per identificare il corpo. Il primo fu quello della ricerca delle epigrafi nelle zone limitrofe dove era stato rinvenuto, il secondo fu la ricerca nella letteratura classica. Una delle prime ipotesi che venne addotta, forse anche quella suggestiva, fu che il corpo fosse quello di Tullia, la figlia di Cicerone, «la cui morte e il dolore che ne era seguito avevano lasciato una ricca testimonianza testuale» (p. 70).
Schwab e Grafton inseriscono nel loro saggio anche il ritrovamento del Laocoonte, rinvenuto nel gennaio del 1506 in un giardino di un vigneto vicino alla Domus Aurea neroniana. Anche per il rinvenimento del Laocoonte, appena divulgata la notizia della mirabile scoperta, accorsero numerosi curiosi. I primi ad arrivare furono Michelangelo Buonarroti, Giuliano da Sangallo e suo figlio, l’undicenne Francesco. Proprio Giuliano da Sangallo fu il primo che identificò la scultura con “Hilacooconte, che mentione Plinio“, in riferimento al passo della Naturalis Historia, libro XXXVI, 36-37 in cui Plinio il Vecchio descriveva il Laocoonte che adornava la casa dell’imperatore Tito, come l’opera scultorea più bella di ogni epoca. Laocoonte, personaggio leggendario dell’età classica considerato descritto da Virgilio nel II libro dell’Eneide, antenato dei romani e morto per la salvezza del popolo troiano, proprio questo suo martirio fornì in età controriformistica un parallelismo con la figura di Cristo e della sua morte, come scrisse sessant’anni più tardi il ritrovamento Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, canonico della cattedrale di San Venanzo.
L’ultimo capitolo del saggio viene dedicato alla scoperta della reliquia di San Dunstano, avvenuta nel 1508 a Canterbury per volere dell’arcivescovo William Warham. Quest’ultimo era un colto umanista del nord Europa, amico di Erasmo da Rotterdam e anche suo finanziatore per la sua attività di ricerca tramite l’assegnazione di un beneficio. Warham fu anche uno degli esecutori del resoconto dell’ispezione delle reliquie del santo e secondo gli autori utilizzò lo «stesso ragionamento degli antiquari italiani per l’ispezione delle ossa del sacro e il modo della filosofia naturale» (p. 165).
Un fil rouge che lega queste scoperte è la grande emotività dovuta alla scoperta degli antiquari, sia per le reliquie cristiane che per quelle pagane, ma d’altra parte fu un vulnus l’errore di avvalorare le ricerca tramite il raffronto con le fonti scritte e le tradizioni popolari.