Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: A. Minuz, C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo, il Mulino, Bologna 2024, pp. 128, € 11,00.

A rileggere oggi, trent’anni dopo, gli slogan, le interviste e i discorsi del vasto, ma alla fin fine monotono, mondo di oppositori a Berlusconi, si ricava una conclusione piuttosto desolante: al di là di quanto Berlusconi possa aver fatto o detto, di quanto possa aver inciso sulla storia italiana, l’antiberlusconismo è stato essenzialmente il sintomo di una assenza, quello di un’alternativa politica e culturale. Le parole d’ordine dei girotondini, del “Popolo viola” e di mille altri gruppi e associazioni – i quali esprimevano senza dubbio anche una reale esigenza di opposizione ai governi guidati dal Cavaliere – ricordano molto, anzi troppo, le parole d’ordine che, in un’altra epoca, dovevano risuonare all’Est per condannare l’edonismo e il consumismo sfrenato degli americani.

La lotta al modello berlusconiano si è innestata – è questo il suo difetto d’origine – su un nodo irrisolto, quello dei rapporti della sinistra con il proprio passato. L’antiberlusconismo soffriva per l’impotenza di non aver nulla da contrapporre al mondo concreto, fatto di consumi e mass media, di cui Berlusconi ha saputo farsi paladino. E Berlusconi faceva bene a ricordare continuamente il “pericolo comunista” riferendosi appunto all’anticonsumismo – più che altro teorico – dei suoi oppositori. Lo spiega bene Andrea Minuz in questo suo libro appena edito dal Mulino:

Berlusconi ce l’aveva molto di più con l’anticonsumismo della sinistra. Ma si capisce che dire “comunisti!” era più efficace di “e poi siete anche contro il consumismo!”. Il fatto è che a sinistra, dopo la caduta del Muro, restava una potente macchina mitologica da smaltire. Un mondo, una comunità morale, un linguaggio, idoli, comizi, sezioni, busti di Lenin, bandiere rosse, canti, balli, disegni di Guttuso, enciclopedie Einaudi, viaggi organizzati a Mosca, grigliate alle feste dell’Unità, tutto un armamentario parareligioso che aveva tenuto insieme generazioni e generazioni di italiani come una fede (p. 46).

Dunque lottare contro Drive In e la pubblicità che interrompeva i film, poi gridare contro il male (tanto morale quanto estetico) della politica di Forza Italia con il suo inno aziendal-motivazionale e i suoi gadget da fiera campionaria, era in fin dei conti un modo per canalizzare la frustrazione di un mondo, minoritario ma diffuso e radicato nella società italiana (pensiamo soltanto al fantomatico “ceto medio riflessivo”), che non riusciva a fare i conti con la realtà. Anche perché – come mostra una volta di più Minuz – tutto quello sdegno contro il potere berlusconiano passava, forse inevitabilmente, soprattutto lontano da quelle masse che si sarebbero dovute, a loro modo s’intende, indignare e che, invece, votavano e rivotavano il Cavaliere.

L’antiberlusconismo è stato essenzialmente un movimento calato dall’alto, dominato da intellettuali (o sedicenti tali) e da accademici (tutto più o meno orfani degli anni Settanta), che hanno visto in Berlusconi un vero profanatore. Per quattro lustri almeno abbiamo sentito ripetere che il fascismo era di ritorno, e l’imperativo “antifa” (come oggi un po’ con il terrificante odio, che imperversa ovunque, contro i “sionisti”) è diventato la parola d’ordine assoluta, buona per tutti e per tutto (anche per la carriera):

Il racconto era più o meno questo: prima c’erano stati l’impegno, il neorealismo, Pasolini, le piazze piene, Berlinguer, la passione collettiva, l’Italia “autentica”, un grande, sinfonico e armonico «noi». Ora non restava nulla. Vivevamo nelle macerie. Travolti dall’istupidimento televisivo, in uno scenario postapocalittico, reclusi in un micragnoso, egoistico, subdolo “io”. Anche volendo, non avremmo potuto combinare granché. La via della gloria letteraria o artistica era senz’altro sbarrata. Tutto era già stato fatto. Gli anni Ottanta avevano spazzato via quel magnifico “noi” (cioè “loro”), e ora eccoci qui. Però avevamo almeno qualcuno da odiare. L’antiberlusconismo sapeva essere seducente anche così. Faceva sentire parte di qualcosa, anche se non c’era più niente. Dissidenti del presente, dalla parte giusta delle cose. Essere di sinistra era complicato. Pieno di contraddizioni, nodi irrisolti, svilimenti. Proclamarsi antiberlusconiani garantiva invece un posizionamento limpido. Scuole, licei, università, si occupavano sempre contro Berlusconi, anche se al governo c’era Prodi (p. 23).

Non si tratta ovviamente di avviare alcun processo di riabilitazione di Berlusconi, né di negare i suoi limiti e i suoi errori (alcuni così grandi da cadere nel grottesco), ma speriamo che arrivi presto il momento di rompere il muro dell’accecamento ossessivo che per anni, anzi per decenni, ha monopolizzato l’orizzonte mentale della sinistra italiana. In quel mondo, lettore di “Repubblica” e poi del “Fatto”, votare la destra era semplicemente ripugnante, oltre che volgare. E anche se Berlusconi era difficile da odiare – simpatico, alla mano, persino buffo –, andava odiato, anche a costo di cadere nel pressapochismo di analisi sempre uguali (il rincoglionimento televisivo, il bisogno di moralità, le brutte figure all’estero, oltre che il sempre incombente fascismo) e di pregiudizi antidemocratici:

L’antiberlusconismo era un itinerario esemplare della facilità e della caparbietà con cui ci dissociamo dalla realtà quando la realtà non è d’accordo con noi. Se quando vincono gli altri è sempre in pericolo la democrazia, non sarebbe più semplice non farli proprio giocare? (era l’altro sogno degli italiani, quello accarezzato dalla parte giusta) [p. 28].

I dissidenti al regime di Berlusconi – peraltro perseguitati in modo invidiabile, a vedere le loro biografie – hanno controllato un pezzo del dibattito pubblico italiano per decenni, ma cosa hanno lasciato in eredità alla nuova, ipotetica sinistra italiana? Anche il movimento contro il Berlusconi “notturno” – quello più impresentabile e, alla fine, persino patetico – ha consegnato qualcosa alle nuove generazioni in lotta contro il “patriarcato” e i suoi abomini?

A leggere questo libro pare di no, ma ciò che è più preoccupante è che anche oggi sono ricominciati i soliti, estenuati, ritornelli contro la destra al governo e i nuovi dissidenti non sanno fare altro che ripetere gli slogan e i tic di quelli dell’epoca dei girotondi.

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