Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: Città mito. Luoghi del Novecento politico italiano, a cura di M. Baioni, Carocci, Roma, 2023, pp. 240, € 25,00.

Questa raccolta di saggi dedicati alle città italiane del Novecento pensate come miti politici e, a volte, come veri e propri feticci di regimi o di ideologie, è l’esito di un convegno tenutosi a Milano nel 2021 e può anche essere letta come una carrellata nell’immaginario collettivo (nazionale e internazionale) del secolo passato. Che si tratti di grandi città (come Roma, Napoli o Venezia) oppure di piccole cittadine (come Sesto San Giovanni) oppure ancora di spazi più ampi e indefiniti (il Veneto democristiano o il Nord leghista), ci troviamo di fronte a una schiera di storie che fanno inevitabilmente riemergere quanto i nomi di certi luoghi abbiano significato per tante generazioni di italiani, impegnati a combattere nelle battaglie delle guerre o in quelle politiche.

Sicuramente, dalla lettura di questo volume non può che emergere anche la nota importanza che le diverse identità locali hanno sempre avuto per la storia nazionale (l’Italia come il paese delle cento città). Allo stesso modo, il nostro Paese, terra delle piccole patrie e dalle province sempre “profondissime”, ha avuto tante capitali prima di Roma. E proprio il saggio dedicato al caso romano, scritto da Catherine Brice, rappresenta bene quanto il mito di Roma (anzi, i diversi miti di Roma, città imperiale, città imperiale, città italiana) abbiano pesato e pesino tuttora nel rendere problematico il suo ruolo di capitale. È indubbio che la città eterna subisca, come conseguenza del fatto di essere un mito cosmopolita, il fatto di avere una identità municipale deficitaria. D’altra parte, «la debolezza del municipio romano e l’assenza di una forte cultura comunale lo rendevano, in virtù della sua “neutralità”, un candidato ideale per lo status di capitale. A Roma non c’era una piccola patria né un forte marchio localistico» (p. 18). Per tutto il Novecento, Roma è stata (ed è tuttora) l’oggetto di una competizione fra lo Stato italiano, il potere comunale e quello vaticano e mai come durante il regime di Mussolini (il quale, prima del 1922, non aveva mai nascosto il suo odio per la capitale), l’esigenza di celebrazione della romanità in ogni suo aspetto spinse Roma a ricostruirsi nella sua immagine ancora attuale:

il mito della Roma imperiale applicato alla città si tradusse in un’ambiziosa politica archeologica, in un’urbanistica di rappresentanza con la trasformazione del cuore di Roma intorno a piazza Venezia, e in una politica abitativa che comprendeva la creazione di nuovi quartieri ma anche di abitazioni temporanee come le borgate periferiche. Questa Roma che Mussolini distrusse e riedificò e che definisce ancora la città attuale. Glorificata, aborrita, condannata: la politica romana del Ventennio continua ad essere aspramente dibattuta, soprattutto oggi, perché le tracce lasciate sono crudamente esplicite (p. 26).

Come sempre accade nelle raccolte di saggi, alcuni centrano l’obiettivo più degli altri. Fra i contributi più riusciti del volume, vogliamo anzitutto segnalare, oltre a quello appena citato della Brice, quello firmato da Mirco Carrattieri, che si occupa di Predappio, la «Betlemme del fascismo». Risalendo alla nascita di questa città-mito, con i pellegrinaggi di regime degli anni Trenta e Quaranta e passando per la rimozione del secondo dopoguerra (alla Liberazione, «la casa natale del duce ospita una famiglia di sfollati», pp. 178-179), Carrattieri racconta ciò che la città di Predappio è diventata con l’affermazione (sostenuta anche dalle amministrazioni di sinistra) del turismo neofascista. In nessun altro luogo come a Predappio i simboli sono ingombranti e di difficile gestione. Occorre soffocare la fama nera della cittadina o, all’opposto, sfruttarla? Nonostante progetti più o meno credibili di riqualificazione urbana e per la creazione di grandi musei sul regime, ciò che resta è lo stigma di una città di cui si parla soltanto in occasione delle adunate sulla tomba di Mussolini.

Un altro lavoro interessante è senza dubbio quello di Filippo Focardi, che ha fatto una mappatura di tutte le città italiane “Medaglia d’oro della Resistenza”. Questo studio è dedicato appunto al modo in cui la storia della lotta di Liberazione si sia “solidificata” in una geografia della Resistenza e dell’antifascismo, ampliandosi progressivamente dalle città del nord a quelle del sud. Focardi rappresenta qui la storia di una vera a propria “politica delle medaglie”, derivata dalle più generali politiche della memoria che si sono succedute in Italia nel corso dei decenni. Dopo che, nei primi anni del dopoguerra, furono insignite del riconoscimento le città partigiane del Settentrione, la scelta cadde via via sempre più sui centri dell’Italia meridionale:

La strada prescelta per offrire un riconoscimento a tante città del Sud che non potevano vantare eroismi partigiani fu piuttosto il conferimento della medaglia d’oro al valor civile (sulla base della legislazione del 1958). L’onorificenza fu conferita nel 1959 a Messina, capace di risorgere “due volte dalle macerie”; ad Avellino, che “con animo fierissimo sopportò senza mai piegare numerosi bombardamenti aerei”, a Foggia, che aveva resistito “impavida alle offese della guerra” (p. 113).

Vogliamo ricordare infine almeno il caso esemplare di Trento e Trieste, le due città gemelle, simboli del nazionalismo italiano, di cui si occupa il curatore Massimo Baioni. Anche in questo caso, il mito di Trento e Trieste, città in attesa di una liberazione, con i loro martiri (come Guglielmo Oberdan), è via via evoluto negli anni del fascismo e, poi ancora, soprattutto per la città friulana, nel tribolato secondo dopoguerra: «dal 1945 al 1954 Trieste è additata a “capitale morale della nuova Italia”, diventa una presenza quotidiana nelle case degli italiani, che sono spinti a non dimenticarla, a mobilitarsi per farla tornare ad essere parte integrante dello Stato italiano» (p. 47). Non dobbiamo però ignorare il fatto che il vero punto di svolta, con un cambiamento di prospettiva davvero enorme, ci sia stato anche per queste due città con la “rivoluzione culturale” degli anni Sessanta e Settanta, quando cioè Trento non fu più la città di Cesare Battisti, ma quella della Facoltà di Sociologia e Trieste divenne la capitale del movimento anti-istituzionale italiano, guidato da Franco Basaglia.

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