Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Che cosa aveva in mente Italo Calvino quando scrisse Le città invisibili (Einaudi, Torino 1972)?

Già nell’introduzione alla prima edizione l’Autore spiega la sua volontà di ricercare un metodo di interpolazione tra Il Milione di Marco Polo e la condizione delle megalopoli moderne.

Quest’anno il libro compie cinquant’anni. Continuamente ristampato (oggi da Mondadori), il lettore può trovarlo con facilità nelle maggiori librerie italiane. Si tratta di un testo costituito da nove capitoli dove in ognuno si sviluppa il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei tartari Kublai Khan, nipote di Gengis Khan. Condottiero mongolo, nonché fondatore del primo impero cinese – Dinastia Yuan –, Kublai viene anche ricordato come l’ultimo dei Gran Khan.

Che cosa vuole Kublai da Polo? Descrizioni. L’impero in mano al Khan è talmente vasto che pare non conoscerne esattamente le proporzioni e le diversità. Polo, interrogato, sfrutta la sua abilità descrittiva e immaginifica per raccontare al Khan quello che ha visto durante il lungo viaggio che l’ha condotto fino al cuore del suo impero. Cinque descrizioni per ogni città, salvo la prima e l’ultima in cui si concede dieci descrizioni; cinquantacinque città, raggruppate in undici sezioni: «Le città e la memoria»; «Le città e il desiderio»; «Le città e i segni»; «Le città sottili»; «Le città e gli scambi»; «Le città e gli occhi»; «Le città e il nome»; «Le città e i morti»; «Le città e il cielo»; «Le città continue»; «Le città nascoste»: una successione che non implica gerarchia, ma una rete dove tracciare molteplici percorsi narrativi, come spiegherà Italo Calvino, rifacendosi proprio al testo Le città invisibili, nelle sue Lezioni americane (postumo, 1988).

Il Khan ascolta, e questo è già molto, perché Polo prima di tutto è un mercante forestiero, ma con una certa sicurezza argomentativa e rigore nel riportare informazioni anche relative a minimi dettagli. Con dodici anni di anticipo rispetto la prima stesura delle Lezioni americane, già in questo libro del 1972 si percepisce un modello operativo narrativo capace di tener conto dell’esattezza e della visibilità: due tra le cinque qualità che secondo lo scrittore è necessario ‘trasportare’ verso il nuovo millennio – le ultime edizioni delle Lezioni contengono una sesta e incompleta lezione che avrebbe dovuto chiamarsi Consistency (in realtà, Italo Calvino, riferì di avere materiale per otto lezioni, anche se come già detto si conosce la stesura completa solo delle prime cinque). A proposito di esattezza e visibilità, celebre è il passo delle Città invisibili in cui Polo gioca a scacchi con il Khan e descrive la scacchiera:

La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere –. Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. – Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido di una larva; non di un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto. Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente…

Certo, Polo descrive con attenzione le cinquantacinque città, ma questo non significa che le città narrate corrispondano alle città attraversate: si tratta di un gioco di specchi, di una pedagogia dell’immaginazione, dove al centro è probabile ci sia l’immaginazione dello stesso Polo-Calvino, nelle qualità antinomiche del cristallo e della fiamma. Non solo specchi: una narrazione al rimando con continui aggiustamenti della messa a fuoco, dal macro al micro e viceversa. Geometria, certo, ma anche invenzione letteraria e visionarietà.

La struttura del libro sottende un furor mathematicus: siamo negli anni del Calvino socio onorario dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”); Calvino amico di Perec e Queneau e studioso di semiologia – già nel 1968 aveva partecipato ai due seminari di Roland Barthes su Sarrasine di Balzac all’École des Hautes della Sorbona, e alla settimana di studi semiotici presso l’Università di Urbino.

L’utilizzo della struttura-scacchiera consente all’Autore un certo ordine e una certa ‘pulizia’ narrativa; in questo libro la scacchiera, più che regolata dalle combinatorie dello strutturalismo, è suggestionata dalla teoria dell’informazione e dai sistemi formali. Rispetto a questo sono fondamentali alcuni passaggi della lezione americana sull’esattezza. Per Calvino esattezza significa «1. un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2. l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco eikastikos; 3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione». Le linee di forza che attraversano le città invisibili ‘viaggiano’ entro le coppie infinito-indefinito, macro-micro, scelte formali-modello cosmologico, ordine-entropia, cristallo-fiamma (quest’ultima coppia ha come riferimento Piattelli Palmarini a proposito del dibattito tra Jean Piaget e Noam Chomsky, 1979).

Il Khan si accorge che le città che Polo racconta si assomigliano, come se non ci fosse l’attraversamento inedito nelle strade di ognuna, piuttosto una scorporazione di elementi e trasposizione alla città successiva. Polo continua a raccontare, ma dopo aver intuito ciò, il Khan, comincia la sua costruzione-scorporazione mentale delle città: «D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate».

Si conosce il meccanismo combinatorio delle città invisibili grazie agli studi di Mario Barenghi, ma la precisione del meccanismo era stata avvertita sin da subito da Claudio Milanini che con il suo saggio su Calvino si è avvicinato di molto al congegno originale. Il lavoro combinatorio di Calvino si muove più su uno sfondo digitale che strutturalista, sfondo costituito dalla teoria dell’informazione e dall’influenza delle premesse matematiche in Queneau e Santillana. Di più: in Calvino si osserva l’approdo della logica e della matematica ai processi combinatori dello strutturalismo e della semiotica.

Nelle città invisibili l’Autore conduce il lettore verso un diverso atteggiamento mentale, che ha come suo centro il conoscere e l’ordinare pezzi di realtà, attribuire loro un senso, verificarne i perimetri e le possibilità sterminate sempre a partire da un rigoroso impianto regolato. In definitiva, le città di Polo-Calvino, testimoniano «un modo di guardare, cioè di essere al mondo».

 

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