Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Da qualche tempo, grazie anche all’iniziativa del quotidiano “Avvenire”, è in corso un dibattito su cattolici e cultura che ha impegnato diverse autorevoli firme. Si tratta naturalmente di una questione sentita e discussa anche da prima che il quotidiano dei vescovi vi dedicasse meritoriamente uno spazio apposito. Come mai, si chiedono in molti, la cultura cattolica (potremmo dire cristiana in genere) sembra non riuscire a dire parole significative, in questo tempo, sulle angoscianti domande che interpellano l’umanità?

Non si tratta solo di un’urgenza, per così dire, di bottega. Anche da alcune figure laiche è stata espressa, perlomeno negli anni scorsi, una sorta di nostalgia per una voce religiosa capace di indicare orizzonti diversi dalla chiacchiera quotidiana, fatta di parole logore come panni strizzati già miliardi di volte, dai quali non può fuoriuscire più nemmeno una goccia d’acqua putrida. Una fede che non riesce a dialogare, magari  ̶  perché no?  ̶  a disputare col contesto culturale in cui vive, smette di essere qualcosa di vivo per diventare, quando va bene, una riserva di buoni consigli per vivere una vita più serena, affrontare il lutto, relazionarsi in modo tranquillo con i figli, essere un cittadino rispettabile. Insomma, il rischio è che diventi una chincaglieria moralistica, tra l’altro facilmente addomesticabile dal potere politico di ogni colore, o un’esperienza che “devi sentire nel tuo cuore”, che non ha a che fare con la questione della verità.

In fondo, quando la fede fatica a farsi cultura, vale a dire a costituirsi come una visione del mondo che tenta di articolarsi in un insieme coerente di significati, è anche perché ha trascurato di farsi scuotere ancora una volta dal problema della verità di ciò che professa. Le ricadute pratico-morali del messaggio cristiano, però, separate dalla radice della loro verità (presunta o no, qui non interessa), a poco a poco perdono di forza, si illanguidiscono, dopodiché o vengono assorbite nelle nebbie della  piccola storia (si badi bene, ad essere assorbita è la versione illanguidita), o finiscono col risultare semplicemente incomprensibili allo spirito del tempo, come pezzi di un ingranaggio più grande dei quali, una volta separati al tutto, sfugge la funzione e il motivo della originaria fabbricazione.  In altre parole, il cattolicesimo italiano, che il teologo Pierangelo Sequeri ha impietosamente fotografato come una realtà fatta di «molta morale, poca comunità, zero cultura», produce discorsi che non hanno presa sulla realtà o sui significati che gli uomini e le donne di oggi danno alla loro esperienza del mondo. Il corrispettivo denotativo di tale discorso è un insieme vuoto.

Eppure, si sarebbe tentati di controbattere, diversi esponenti del mondo cattolico si esprimono con regolarità, e direi anche con una certa pluralità di indirizzi, su tante questioni contemporanee, che meritano di certo la massima attenzione: la bioetica, l’ecologia, la giustizia economica, la geopolitica. Se tali sforzi non conoscono l’incisività sperata, non è, a parere mio, solo per meri motivi di aggiornamento o lacune intellettuali. In tanti casi la competenza c’è ed è profonda. Forse il motivo della difficoltà va cercato nella perdita di confidenza con ciò che potremmo definire, richiamando il titolo di un’opera di Hans Urs Von Balthasar, il “caso serio del cristianesimo”, vale a dire il suo specifico più proprio. Non a caso, credo, il filosofo italiano Luigi Alici, lo scorso aprile, intervenendo su Avvenire nel dibattito di cui si è detto in apertura, ha rilevato la necessità di recuperare «una fede amica della trascendenza, disposta a contemplare l’eccedenza del mistero e l’altezza infinita dello spirituale», denunciando «una dilagante afasia escatologica». Mi sembra questa un’ingiunzione inaggirabile: tornare alle questioni fondamentali. Quelle di cui si parla molto poco in ambito intraecclesiale e di cui i laici domandano ormai sempre di meno.

Un episodio personale credo aiuti a illuminare la situazione. Qualche settimana fa ero in un pub con alcuni cari amici. Mentre celiavamo tra le birre e i cheeseburger, a un certo punto, non so chi e non so come fa una domanda sull’aborto. Poiché ero l’unico cattolico ufficiale del gruppo, inevitabilmente sono diventato l’interlocutore privilegiato. «Sei pro o contro?», «Se tua figlia volesse abortire?», «Ma la legge 194?», ecc. Il discorso, poi, si allargato anche ad altri temi caldi. Mentre rientravo a casa dopo il simpatico match dialettico, ho pensato due cose. La prima è che sono fortunato: ho degli amici che ogni tanto vogliono farmi delle domande importanti, anche se siamo al pub (non preoccupatevi, parliamo anche di altro), e sono perfino disposti ad ascoltare le risposte. La seconda è che quella conversazione somigliava a tante altre avute in passato all’università. Quando i miei amici scoprivano che la domenica andavo in chiesa (devo dire quasi sempre per caso), immancabilmente volevano conoscere il mio parere su aborto, eutanasia, omosessuali, donne, ordinazioni femminili, il Vaticano e potere, i templari e via dicendo. Intendiamoci bene: alcune di queste non sono questioni irrilevanti, anzi, e ne richiamano altre nient’affatto trascurabili, quali la coscienza e la libertà, la persona e la sessualità, il rapporto tra politica e religione ecc. Tuttavia, alla fine di quelle discussioni, quasi sempre vivaci e arricchenti, ho spesso dovuto realizzare che proprio le domande più abissali non mi erano state poste. Se sui temi che ho elencato, le mie posizioni potevano sembrare in qualche caso un po’ disallineate rispetto all’indirizzo comune, sarebbe stato interessante scoprire la loro reazione sulla vera posta in gioco del cristianesimo.

Sia la filosofia che la religione naturale (da qui in poi dovrò semplificare sperando di non tradire) hanno sempre distinto il finito dall’infinito. Insomma, l’essere umano ha sempre avuto sentore della propria finitezza, immaginandola di conseguenza circondata dal grande oceano ignoto dell’infinito mistero, per richiamare una nota immagine kantiana. La nostra ragione è confinata entro un perimetro che, per quanto lo si possa immaginare esteso, è comunque, appunto, un perimetro. La nostra condizione finita ci obbliga, in un certo qual modo, a pensare un’eccedenza, qualcosa che il nostro logos non può circoscrivere ma da cui, al contrario, è abbracciato e superato da ogni lato. Tale dimensione eccedente, che possiamo chiamare anche Infinito o Assoluto, coincide grossomodo con ciò che ad esempio da Karl Jaspers definiva «Tutto-abbracciante», il quale proprio in virtù della sua trascendenza rispetto al Finito o Contingente, non può entrare in nessuna definizione umana. Se lo si vuole rispettare nella sua assolutezza deve restare indeterminato: «La sopra personalità e la pura realtà di Dio – ha scritto Jaspers  ̶  nella loro irrappresentabilità per immagini, furono oggetto di indagine da parte di filosofi che specularono sull’essere, come Parmenide e Platone, da parte di pensatori indiani e del cinese Tao; ma questi sforzi di pensiero non possono realizzare ciò che si propongono. L’immagine finisce sempre con l’insinuarsi nelle capacità umane di pensare e di intuire». È questo, in fondo, il motivo per il quale Kant nega che la ragione teoretica sia capax Dei: si tratta di salvaguardare la trascendenza di Dio dalla hybris di una ragione che vorrebbe addomesticarla. Jaspers, in continuità ideale con l’intenzionalità kantiana, sosterrà che il peccato delle teologie ecclesiali consiste proprio nel voler oggettivare la trascendenza, la quale, se tale è, non può essere fissata nelle formulazioni dottrinarie. Insomma, per buona parte della filosofia e anche del pensiero religioso, l’Assoluto non deve essere troppo connotato. A un certo punto le limitate categorie umane, per limite intrinseco, devono lasciar parlare il mito oppure esercitare solo la teologia apofatica: di Dio si può parlare solo in chiave negativa, affermando ciò che Dio non è. Uno sguardo simile sull’Assoluto, tenute in debito conto le differenze, caratterizza anche l’antico politeismo. Come infatti ha messo in luce Joseph Ratzinger, molti anni prima di diventare papa, «l’elemento costitutivo del politeismo, che lo determina come politeismo, non è la mancanza dell’idea di unità, ma l’idea che l’Assoluto, in sé e in quanto tale, non è per gli uomini “interpellabile”. Esso, quindi, deve decidersi ad invocare le immagini riflesse dell’Assoluto, che sono finite, cioè gli dèi, che per l’appunto non sono “Dio”».

Orbene, di fronte a tutto questo, il cristianesimo osa affermare che l’Infinito indeterminabile non solo è interpellabile (non è l’Idea di Bene platonica, il Motore immoto aristotelico o l’Uno plotiniano bensì un Padre cui possiamo rivolgere la nostra invocazione), ma si è rivelato “determinandosi” in un uomo, Gesù di Nazareth, vissuto duemila anni fa. Il cristianesimo aggiunge anche che l’umanità assunta da Dio in quel giovane carpentiere ebreo, non fu, per così dire, un rivestimento esteriore, una maschera indossata per l’occasione: Gesù è vero Dio e vero uomo, dice il dogma di Calcedonia. Dio condivide dell’esperienza umana tutto: le fragilità del corpo e della mente, la solitudine, l’incomprensione, il dubbio, il dolore, l’abbandono, la morte, la tomba. L’unione tra Dio e uomo è talmente profonda e indissolubile, in virtù dell’incarnazione, che la natura umana è ora scandalosamente nel seno di Dio. Perciò Dante, nella Divina Commedia, nell’ultimo canto del Paradiso, quando contempla il mistero di Dio potrà dire: «dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige». La resurrezione di Gesù non è una sua impresa: nel Figlio, è l’umanità tutta ad essere attirata nella vita di Dio. Se rendere ragione della differenza assoluta tra Infinito-Finito, Idea-cosa sensibile, Uno-molti, e, insieme, del loro entrare in un qualche rapporto, è stata la crux della filosofia greca (per farsi un’idea si può leggere il Parmenide di Platone), il cristianesimo costringe a rivisitare completamente la questione: nell’incarnazione, si afferma un inaudito intreccio di Infinito e Finito, spirito e carne, eternità e storia, senza confusione né separazione. Il Dio dinanzi al quale Dante si trova è Trinità: l’Uno ha in sé la Molteplicità. Anche qui posizione “scandalosa” rispetto al divieto della filosofia antica (penso in particolare al Neoplatonismo) di mescolare l’Uno e i Molti. A partire dalla Trinità, il cristianesimo osa sostenere che l’unità della relazione agapica è più grande e profonda dell’unità del sé monolitico (da qui discenderebbero tante considerazioni di carattere morale, che però dobbiamo lasciare sullo sfondo).

Tutto ciò colloca l’Assoluto cristiano, se così possiamo esprimerci, quasi troppo vicino all’uomo per non suscitare una certa resistenza, e ad un livello concettuale che rappresenta una ardita provocazione per le tradizionali categorie logiche. Si spiegano in parte così, credo, anche i tentativi di affievolire la serietà dell’incarnazione, affermando, ad esempio, la presenza della sola natura divina ma non di quella umana nella persona di Gesù, poiché la prima assorbe la seconda (monofisismo); oppure concedendo sì la presenza delle due nature, ma anche di due persone (divina e umana), negando così dunque ciò che nel linguaggio teologico si chiama unione ipostatica (nestorianesimo). Su una scia simile, si è cercato anche di aggirare la sfida razionale della Trinità, o accentuando l’unità a discapito della molteplicità, ad esempio col modalismo, o evidenziando la molteplicità a discapito però dell’unità (triteismo).

Troppo “esagerata” questa vicinanza di Dio, troppo irragionevole questo Logos che non se ne resta nella propria inattingibile alterità, ma è Agape che si coinvolge col dramma umano. È perfettamente comprensibile, allora, la polemica del filosofo medioplatonico Celso, il quale, ne Il discorso vero, opera che conosciamo solo indirettamente grazie a Origine, afferma che una discesa di Dio fra gli uomini e l’assunzione della natura umana, implicherebbe un assurdo decadimento della sua somma perfezione, che ripugnerebbe alla divinità. Solo la teologia negativa può dire qualcosa di Dio, poiché questi è al di fuori di ogni determinazione. Dio, infatti, prosegue Celso, non partecipa della figura, del colore, del movimento e dell’essere. Figurati  ̶  possiamo aggiungere noi  ̶  se può essere torturato, appeso ad una croce, morire, essere sepolto. Figurati se Dio, il totalmente Altro, il Massimo, può manifestarsi nel Minimo, nella croce di Cristo.

Alla luce di quanto detto fino a qui, quando i miei amici del pub o dell’università, mi chiedono del cristianesimo, premettendo (spero siano sinceri ma non posso averne la certezza) che «ci interessa ciò che pensi perché per noi sei intelligente», mi piacerebbe tanto fossero ancora più temerari di una domandina sulla comunione ai divorziati, sullo stipendio dei preti o sull’eutanasia. Questioni dinanzi alle quali, lo confesso sinceramente, ogni tanto mi verrebbe da esclamare: “ma chi se ne frega”. Mi piacerebbe tanto chiedessero come io faccia a ritenere ragionevole che il senso dell’intero universo, nato circa 14 miliardi di anni fa, composto (nella sua parte osservabile) da circa 2000 miliardi di galassie, ciascuna contenente, come la nostra Via Lattea, almeno centinaia di miliardi di stelle ed estesa per centinaia di migliaia di anni luce, ecco sarebbe interessante, dicevo, se mi chiedessero come faccio a ritenere ragionevole che il senso di questa impensabile immensità poggi sulla capocchia di spillo della insignificante vicenda, se paragonata alla gigantesca profondità della storia cosmica, di un rabbi ebreo, vissuto sotto l’occupazione romana, e giustiziato da Ponzio Pilato probabilmente attorno al 30 d.C. Com’è possibile, per un uomo che voglia essere proprietario di un qualche pensiero, ritenere poi, che l’altra gigantesca vicenda della nascita e dello sviluppo della vita, avvenuta su un trascurabilissimo corpo celeste che chiamiamo Terra  ̶  nient’altro che un granello di polvere che fluttua nella infinita e muta vastità dell’Universo  ̶  non sia stato un semplice frutto del caso, ma che dietro la lenta evoluzione che vede la comparsa delle prime molecole organiche complesse, poi degli organismi procarioti, e via via, per milioni e milioni di anni, si snoda in un apparentemente caotico affastellarsi di specie viventi nate solo per poi perdersi sui tanti binari morti dell’evoluzione (non c’è che dire, un bel massacro), com’è possibile, dicevamo, per un uomo che voglia essere intelligente, ritenere che dentro questi cicli di nascite e catastrofi di mondi, si faccia strada, silenziosamente, nascostamente, la rivelazione di un Dio che fa esodo da sé e pone l’assolutamente altro da sé  ̶  la contingenza  ̶  donandolo a sé stesso e alla propria libertà?

Di tutto questo e di più, mi piacerebbe parlare. Perché è su questo che si gioca la partita decisiva del cristianesimo, ieri come oggi. Se un senso dell’universo ci sia o se le cose sono quello che sono. Se la stessa domanda su un senso ha senso. Se quel giovane predicatore appeso ad una croce romana che urla al padre suo il proprio abbandono, con l’aria che gli esce dalle ferite, è l’ennesima splendida vittima della macelleria della storia o il senso dell’essere. Se l’annuncio della resurrezione è una favoletta per placare l’ansia della morte, o l’anticipo del “salto di qualità” ultimo nella storia dell’evoluzione. Se però i miei amici non credenti non parlano di queste cose, non posso fargliene una colpa. La responsabilità più grande, a mio avviso, è dello stesso mondo ecclesiale, che tocca poco queste domande, intento com’è a commentare la querelle culturale del momento, a mostrarsi attivo socialmente e politicamente impegnato. Vorrei non essere frainteso. Il cristiano deve ovviamente vivere nel mondo, essere lievito della storia e impegnarsi affinché le strutture mondane siano orientante al bene. In tal senso nessuno qui sta auspicando una sorta di “opzione Benedetto”. Il problema, però, è che senza un permanente ritorno al “caso serio” del cristianesimo, la gran mole di impegno su certi argomenti produce alla lunga nulla più che materiale per discussioni colte e autoreferenziali o per battibecchi da talk show. A chi si preoccupa di cosa berremo, cosa mangeremo e con cosa ci vestiremo oggi, Gesù ribatte nel Vangelo di Matteo: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Evidentemente Gesù, che prima di iniziare la vita pubblica svolgeva una professione e si guadagnava da vivere come tutti, non stava invitando alla diserzione dalla quotidianità, ma alla correzione delle priorità. Credo sia un’indicazione essenziale anche rispetto al rapporto tra cattolicesimo e cultura. Se si torna a pensare con generosità il “caso serio” del cristianesimo, probabilmente il cattolicesimo potrà avere la quantità d’aria nei polmoni sufficiente per attraversare tutte le altre domande di questo tempo e forse dire una parola significativa.

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