Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Chi non conosce Casanova e le sue imprese? Tutti sanno che Casanova vantò di aver conquistato centinaia di donne, di averle sedotte, corteggiate, amate e poi subito dopo abbandonate. Anche se le sue avventure galanti di un borghese – aristerotico, non bello, ma affascinante – risultassero in realtà di meno da un punto di vista numerico, la fama e l’invidia tra i maschi non ne uscirebbe diminuita, e il desiderio delle donne di incontrare un uomo così intraprendente e seducente non scomparirebbe. Insomma, tutti si identificano in questo personaggio, lo apprezzano e lo esaltano, solo alcuni, più moralisti, fingono di disprezzarlo ma spesso solo per invidia.

Casanova rappresentò nel Settecento il modello per un nuovo vangelo: la libertà del pensatore si incarnava nell’azione stessa; era il paradigma dell’Illuminismo e del sensismo. L’uomo è solo, individualista, colto, raffinato ma anche forte e coraggioso, un cavaliere con la spada in pugno, galante ma anche temerario, gentile ma anche spregiudicato; lui raccoglieva l’eredità dell’eroe medievale, dell’amore cortese ma si concretizzava in una forma nuova data dalle nuove conoscenze scientifiche, empiriste, materialiste.

Questo libertino, diversamente dai personaggi sadiani, non si fidava del metodo cartesiano, non contabilizzava le sue conquiste, non applicava la ragione ad ogni “caso” che incontrava. È noto che Sade aveva voluto razionalizzare il piacere, obbligato tutti a possedere e essere posseduti all’interno di uno spazio e un tempo specifico. Dovere provare il piacere è già un ossimoro: il piacere di fatto è libertà fisica e morale; obbligare al piacere diventa una costrizione dolorosa. Le 120 giornate di Sodoma diventano una tortura che spinge alcuni uomini a possedere e torturare le giovani femmine in ogni parte del corpo e in ogni momento organizzato della giornata.

Casanova, invece, per ogni donna che conosceva, improvvisava, come un musicista di fronte ad uno spartito nuovo, un Paganini della sessualità; si adattava alla bellezza della creatura che vedeva e ne sapeva apprezzare ogni spigolatura, ogni ruga, ogni forma nuova, e scopriva e ne esaltava l’originalità. Se Sade applicava un a priori, e credeva ad un ordine, e Don Giovanni conteggiava le sue vittime senza peraltro classificarle, – più aritmetico che geometrico, diversamente di quello che ne pensa Max Frisch nella sua opera teatrale, Don Giovanni e la geometria – Casanova era humeano: appena vedeva una donna ne ricavava un’impressione, era un’esperienza unica e irrepetibile. Ciò lo costringeva alla creatività, alla ricerca di un piacere sempre nuovo e inatteso. Viveva così alla giornata, fiducioso che avrebbe trovato presto altre conquiste, altre amiche. Il piacere viveva nell’attesa, nell’ansia, nella speranza. E forse, più che del sesso stesso, Casanova era attratto dalla sorpresa, dalla fantasia, dal gioco, dal caso, a cui la vita lo sottoponeva. Ma non è un caso appunto che, oltre alle donne, amasse così tanto il gioco d’azzardo, gioco che gli costava parecchio e a cui dedicava tutti i suoi averi. Se il gioco gli costava economicamente, la donna sapeva coglierla gratuitamente; il piacere del sesso, almeno quello, era gratuito.

La gratuità del piacere è l’indice di un rispetto della donna, della sua grazia, della sua bellezza e anch’essa doveva concedersi per puro piacere. Se il gioco era un’attività intellettuale, venale, corruttibile, la donna rappresentava la femminilità stessa, era madre del piacere. Se in Sade la donna andava punita in sé e in Masoch era desiderio perduto, per sé, pertanto doloroso (Masoch è un malinconico: basta leggere il suo romanzo, Venere in pelliccia, in cui il protagonista passa il tempo a venerare e a desiderare questa donna dura e tenace che non si concede) e in Don Giovanni si sperimentava ancora la colpa, in Casanova la donna è adorata, amata e contemplata in sé e per sé. Se nel francese Sade il piacere stesso consisteva nel provocare dolore, nell’intensità geometrica della collera alla ricerca di un ordine della natura ormai perduto, e nel tedesco Masoch la pura contemplazione era il paradiso perduto idealizzato nella forma di una virtualità, nell’italiano Casanova il procurarsi il piacere risiede anche nel procurarlo, nel tentativo di donare alla madre scomparsa quello che la madre stessa avrebbe desiderato. In Casanova il lutto di Sade e la malinconia di Masoch sono sostituiti dalla nostalgia: letteralmente, un ritorno a casa. Se non c’è pace in Casanova, almeno c’è speranza, attesa di un mondo perfetto, perduto ma forse riconquistabile, ripresentabile, appunto, una Casa Nuova. Se in Sade si doveva riempire un vuoto, un’assenza a cui si pensava di rimediare con l’ira, di un limite che non si raggiungeva mai, illimitato, e in Masoch la mancanza era il desiderio frustrato di ritrovare almeno nel dolore quella madre scomparsa, in Casanova la consapevolezza dell’illimitato si scontra ogni volta in un limite che si pensa di aver raggiunto. Ma senza la colpa di aver tradito la donna come accade in Don Juan. Lo spagnolo è roso dai sensi di colpa, è passionale, confessionale. Ha bisogno di espiare i suoi peccati, e per questo ogni cosa lo delude. Casanova invece non è un uomo della controriforma, è un illuminista; conosce sé stesso; sa che cosa è l’uomo e quali sono i suoi bisogni materiali e spirituali. Agisce, vuole agire, sa cosa cerca, non si fa scrupoli; non è amorale semmai ha una morale nuova; per certi versi è un oltreuomo; diventa ciò che è. Afferma sé stesso, il suo carattere, la sua personalità.

Eppure, a ben vedere, la sua azione è stancante, è ripetitiva, è ossessiva. È vero che i suoi spartiti sono diversi, ma alla fine la musica che suona è sempre la stessa. Il piacere si riduce alla conquista: a far mostra di sé e ad esaltare la sua bravura. Un buon musicista forse, ma più un virtuoso di un vero artista; un Paganini appunto, che suona qualsiasi spartito e strumento, che improvvisa ma non crea nessuna grande opera. Uno che conosce bene la tecnica ma con poca sensibilità artistica. Innamorato più del suo talento che del piacere stesso. Alla fine più sadiano di quanto potesse sembrare, dato che, in ogni caso, le sue donne soffrono di essere abbandonate e forse una parte del suo godimento sta anche nell’abbandonarle. Se Don Juan è il bambino che batte i piedi e piange perché ha perduto il suo oggetto di interesse e altro non vuole che quello, Casanova ricorda quel fanciullo che getta via il giocattolo e subito ne prende un altro e un altro ancora. Non c’è rabbia, ma divertimento. Lui sa che è un gioco e attraverso questa azione sta dicendo, ironicamente, che vuole tutto, ma il tutto non basta a riempire la sua perdita. È un gioco insensato; il gioco stesso risiede nell’insensatezza, nell’alea. D’altronde Casanova è un giocatore d’azzardo, non ama veramente il gioco con le regole, il game, ma la distrazione, la casualità. O meglio ama il fine. Nonostante tutto la visione del veneziano è ancora teleologica. Mira ad un obiettivo benché contingente. Qualsiasi preda lo soddisfa, l’importante è vincere. Non c’è malinconia o delusione. Non c’è tristezza in Casanova, c’è un amore che si è realizzato e che si crede uguale a quello che si è perduto. Non si vuole veramente tornare a casa (nostalgia), si crede che la casa sia da un’altra parte, si spera sia la prossima. Casanova è un nomade, ma un nomade con una direzione anche se cade in un circolo. È cosmopolita: ogni paese, ogni donna, di per sé, presa singolarmente è insignificante, quello che conta è raggiungere la meta. Non c’è amore se non per sé stesso. Non si ama una patria, una donna, si ama piuttosto sé stessi. La casa lui la porta con sé, nel ricordo bello di Venezia. In fondo lui spera sempre di tornare a casa. E quando è costretto a morire in esilio (come racconta Sebastiano Vassalli) si spegne definitivamente. Non muore perché è vecchio, ma perché si spenge la speranza del ritorno.

Si spenge quell’innamoramento di sé stessi, che è il suo narcisismo. Ci si innamora di una parte di sé che è la sua abilità. Come conquisto una donna, così uccido uno spadaccino, così vinco al tavolo delle carte. Casanova, benché assomigli ad un aristocratico, è già l’uomo liberale. La liberalità consiste nel fare, nell’agire. Nell’azione dimostro il mio valore. E, tuttavia, se la volontà è il noumeno kantiano, lo è anche la libertà. Casanova è libero di agire seguendo le sue passioni, così come lo è seguendo i suoi pensieri. Il Don Juan di Molière assomiglia più di tutti a Casanova. Lo scrittore francese mostra bene come il suo Don Giovanni sia libertino e ateo, ma soprattutto affrancato da pregiudizi e tradizioni consolidate. Egli crede solo a sé stesso, alla sua ragione. Nessun pensiero è fisso: come il suo corpo è libero di agire, così la sua mente è libera di pensare e di non fissarsi su alcuna cosa. Il Don Giovanni di Molière è un vero filosofo scettico e relativista: ha messo in dubbio ogni cosa; ogni pensiero è sottoposto a critica. Come ama la conquista così ama il paradosso. E, come un sofista, incanta, affascina e convince delle sue ragioni, salvo poi lui stesso a dimostrarvene l’insensatezza. L’unico senso è quello fisico.

Invece Casanova, se gli sottraiamo la sua conquista, rimane deluso e intristito. Non tanto perché è deluso della preda, piuttosto è deluso del non riuscire a predare. Tutte le donne sono la sua meta, belle o brutte, egli non le sceglie. O meglio sceglie la conquista, la sua attività consiste nel cacciare la noia. Come un cacciatore infatti gode nello sparare alla preda: qualsiasi cosa si muova è degna di essere catturata. Non ama le lungaggini del sesso, l’erotismo feticista, la perversione, come invece accade a Sade, ama la donna e basta, e la conquista. Ma se a Casanova le donne si concedessero facilmente, se fossero disponibili immediatamente, lui ne sfuggirebbe. Ciò che ama più di tutto è l’occupazione, come il soldato in guerra. Per raggiungere la meta è disposto a soffrire, a combattere, a lottare, a rischiare la sua vita. Il corpo è la terra su cui lui vuole abitare, è la casa su cui vuole giacere. Eppure, più che un fatalista cattolico italiano innamorato della mamma, in questa volontà di agire sembra un calvinista, sempre pronto a “lavorare” ben sapendo che non giungerà facilmente “in paradiso”. Solo con l’azione si redime e per questo rifiuta di pagare le donne: la prostituta non è una conquista ma un trastullo. Manca l’alea, l’azzardo, il rischio della perdita. La donna, preda di Casanova, invece resiste quel tanto che basta per eccitare l’amante. Poi è costretta a soccombere soggiogata dalla forza, dal coraggio e dal dispendio di energia che per lei ha dovuto spendere, e si concede a quel giusto vincitore. Nel cacciare, l’uomo si sente libero, libero di scegliere il momento, il luogo, la posta nel doppio senso del termine (appostarsi e spendere). Si sente soprattutto libero di seguire i suoi desideri e di realizzare i propri piaceri. È vero che le donne hanno ormai sentito parlare di questo amante perfetto e molte sarebbero disposte ad incontrarlo. Il desiderio si rovescia: la preda vuole essere predata e gioca anch’essa il ruolo della vittima sacrificale per poter dire di essere stata conquistata. La vittima si fregia di essere stata disonorata e in questo consiste il suo onore. Se Casanova l’ha vinta essa può dire di averlo meritato.

Così ad un certo punto Casanova si rovescia: da cacciatore diventa di fatto la preda. Qui consiste la fama del giocatore veneziano. Ormai vive di rendita. Ogni donna sarà disponibile a concedersi e lui sarà obbligato a giocare il gioco delle parti. Ma la noia già lo pervade: se dicesse di no, cadrebbe la sua fama, se dicesse di sì cadrebbe in un gioco privo dell’essenza stessa di questo gioco del desiderio. Occorrerebbe un gioco in cui il desiderio e il piacere coincidessero; occorrerebbe che Casanova potesse decidere anche di sottrarsi al gioco e rifiutare la sua falsa preda. Ma per far questo bisognerebbe che la donna stessa si trasformasse in una Casanova. Lui diventerebbe da cacciatore a s-cacciato. È il paradosso di Casanova sempre sul filo di essere veramente amato e quindi di fuggire. Diversamente è ne La Venere in pelliccia di Masoch dove la femmina si sottrae al gioco per aumentare l’intensità del desiderio del predato fino a spossarlo e a umiliarlo e di fatto non concedendosi e non donando piacere.

Occorrerebbe forse una Casanova che conquistasse il maschio che si sottrae. Occorrerebbe una femmina che ama il piacere così intensamente che miri a cacciare l’uomo, a conquistarlo, a considerarlo come un oggetto suo proprio senza bisogno della posta. Tuttavia bisognerebbe che la femmina stessa sublimasse l’uomo quel tanto che basta da non concedersi a tutti. Il piacere infatti implica la scelta della preda, ma non passivamente come spesso accade in natura. Per rovesciare Casanova c’è bisogno di un’amazzone che gli tenga testa. Il piacere è tale solo se è reciproco. La Casanova ti conquista, è pronta a darti e prendere piacere e lui, il Casanova, è rovesciato, diventa la preda di sé stesso, perché non può più conquistare, ma è conquistato. In questo modo il Casanova si inceppa, si contorce nel suo stesso desiderio, si innamora del suo stesso desiderio irrealizzato. Se la femmina gli resiste, Casanova l’ama ancora di più, ma se la donna lo ama, e per questo lo rifiuta, lui stesso impazzisce nel gioco di specchi. L’amore è solo innamoramento di sé stesso, del proprio desiderio, al di là del quale non c’è che freddezza e utilità. A questo punto Casanova sarebbe costretto a scegliere la vita etica, non potrebbe fare a meno di continuare ad amare colei che gli sfugge. Avrebbe così risolto il paradosso di Kierkegaard per il quale la vita estetica non si sceglierebbe, la scelta sarebbe solo scegliere la vita etica. È la fine che capita al Casanova raccontato da Marai, ne La recita di Bolzano, quello di non fare a meno di Francesca. Per risolvere il problema molti uomini si innamorano solo di una donna, amando tutte le altre. È come se ci fosse una pietra di paragone alla quale tutte le altre vanno saggiate per vedere chi si avvicina di più alla prima e vera amante. È evidente che nessuna le assomiglierà, e Casanova si dispera e ne cerca altre che ricordino l’originale. Ma l’originale è unico e irrepetibile ed è anche l’origine. Per rendere più facile l’esercizio bisognerebbe capovolgere Casanova e renderlo disponibile a qualsiasi donna, da cacciatore diventerebbe lui stesso cacciato; ma allora bisognerebbe che qualsiasi donna si trasformasse in una Casanova che dovrebbe amare tutti gli uomini cercando essa stessa il limite del suo piacere e non superarlo col desiderio di non concedersi mai per far soffrire il Casanova rovesciato fino ad estenuarlo e farlo morire nel talamo nuziale.

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