Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
L’opera di Bergman non solo rappresenta uno dei tesori più preziosi della storia del cinema, ma uno dei momenti più alti dell’intera cultura del secolo scorso. Al pari della grande letteratura e della grande filosofia del secolo breve, essa dipinge, con colori pregni di verità, la condizione dell’uomo orfano dell’Assoluto, gettato in un’esistenza che egli non ha scelto e che grava su di sé come una colpa inespiabile.
L’orizzonte dell’uomo che lo sguardo del cineasta svedese mira a disvelare è l’orizzonte segnato dalla drammatica sentenza nietzscheana della morte di Dio. La macchina da presa che scivola lenta negli angusti interni, teatri del dramma interiore bergmaniano, registra con fare algido un mondo interiore ed esteriore dove Dio non è più granitica certezza capace di donare senso all’esistenza del singolo, ma terribile assenza che penetra, come un pungolo, nella carne dell’uomo, abitandola e inquietandola. Dio non parla più, a parlare è il suo silenzio. Egli resta nel cuore dell’uomo come un’inguaribile ferita, un anelito, una domanda che contorce le viscere senza trovare risposta. Antonius Block, protagonista de Il settimo sigillo, potrebbe essere visto come il profeta e il testimone di questo mutamento antropologico che Bergman, insieme a tutto l’Occidente, ha vissuto e ha diagnosticato con lucidità estrema. La morte è la faccia scarna e truculenta del silenzio infinito di Dio, l’unica trascendenza che, oscuramente, illumina l’immanenza della nostra coscienza, la quale ha smesso di credere a se stessa come il locus revelationis del divino: essa si piega su stessa e scorge nel proprio inquieto domandare d’essere, piuttosto, il luogo in cui appare l’incolmabile distanza che lo separa da Dio, quel male radicale di cui egli è vittima e complice.
Antonius Block vorrebbe confessarsi, ma il suo cuore è incapace di generare quella parola in grado di congiungere l’umano, la finitudine, all’infinitudine della Parola, a quel Verbo che si fa carne in ogni coscienza individuale che scopre la sua ancipite natura, quella d’essere al contempo marchiata dalla contingenza e dal sigillo del divino, il quale ci eleva al di sopra di noi stessi. Da sé egli non è in grado di attingere nulla, perché è diventato il suo nulla. Un nulla che è costretto «a fissare» e che avvolge non solo le cose, privandole della loro ontologica consistenza, ma soprattutto quello sguardo che sulle cose si dirige e che, nominandole, le sottrae all’insignificanza. Antonius Block, in perfetta consonanza con alcune pagine di Sartre, si fa portavoce del disgusto nei riguardi dell’assoluta gratuità dell’esistenza. L’esistenza è di troppo, un’indebita escrescenza, un pallido riflesso del niente, un segno che indica solo la propria impotenza. Siffatto niente deforma la struttura stessa della coscienza, il suo essere costitutivamente rapporto a sé e rapporto all’altro uomo. Gli altri, infatti, alla luce del vuoto prodotto dall’infondatezza dell’essere, sprofondano in un’alterità radicale che rende le sembianze del loro viso intrise di una viscida irriconoscibilità. L’eclissi di Dio sembra dunque determinare la dipartita della stessa coscienza morale, la cui voce non vibra più della chiara cogenza del dovere. Infatti il dovere morale, l’imperativo categorico che dice “puoi, dunque devi!”, è l’Assoluto in noi, il richiamo di un Altrove che, pur immanendo nel cerchio del nostro domandare, infinitamente lo trascende. Se l’Assoluto non esiste, né fuori di noi né in noi, allora tutto è permesso – parafrasando Ivan Karamazov – e il volto dell’Altro non è latore di quell’inviolabilità che, per Lévinas, è la fonte del comandamento biblico “Non uccidere”.
L’onnipervadente presenza della morte, che fascia il mondo interiore ed esteriore della luce oscura e respingente della disperazione, si trova al centro di una delle pagine agostiniane più belle che il filosofo abbia mai scritto. Qui il filosofo, diversamente da Antonius Block, si trova a dover affrontare la perdita del suo migliore amico, compagno di studi fin dall’infanzia, che ha segnato profondamente la sua esistenza. Il suo vissuto personale diventa lo specchio di una condizione esistenziale che coinvolge tutti. Egli diventa l’Ognuno, l’immagine di ogni uomo che esperisce il dolore della morte:
La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m’era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perche non lo tenevano fra loro e non potevano piu dirmi “eccolo, viene”, come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest’anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: “Spera in Dio” lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell’anima.
In questo passaggio struggente dell’opera di Agostino si condensano i motivi fondamentali che costituiscono l’esperienza della morte della persona amata. Innanzitutto, vediamo all’opera la morte personale come l’assenza presente che rende assenti, ombre spettrali, tutte le cose e le persone del mondo. La morte, come sottolineato anche dall’opera bergmaniana, è quel male che rivela il malum mundi, un male strutturale in virtù del quale i singoli mali sono male, e che fa sorgere nel cuore dell’uomo la disperata e violenta rivolta contro l’essere stesso, divenuto tristemente il grembo vuoto e scarno nel quale l’altro appare, ma solo negativamente, come incolmabile mancanza. Nella stretta di questo dolore incurabile, nasce la domanda filosofica che fonda la filosofia dell’esistenza: «Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso». L’uomo, differentemente dall’animale che non sa di essere animale, sa di essere uomo, o meglio, sa di essere se stesso solo come dubitante, come tremante e angoscioso domandare. In questo non-sapere, d’improvviso, come attraversato da una folgore, coglie chi egli è: quell’esserci che pone in questione se stesso e il mondo in cui si trova; colui che perviene a sé conoscendo che il proprio sé è il domandare stesso su di sé; che fra il nucleo più profondo del proprio esserci e il dubitare v’è una relazione assoluta, di coincidenza puntuale.
La lacerazione interiore di Agostino e di Antonius Block ci conducono, dunque, alla trascendentalità dell’io. Possiamo dubitare di tutto, finanche del mondo e di Dio, ma non possiamo dubitare del fatto che stiamo dubitando: Si fallor sum. Per ingannarmi devo essere. Questa dialettica interiore, che salda dubbio e certezza di sé, avrà, come noto, una grande risonanza nella filosofia moderna con Descartes, il quale radicalizzerà il gesto filosofico agostiniano aprendo le porte, secondo l’interpretazione di Reinhard Lauth, alla filosofia trascendentale.
Ciò che preme sottolineare, però, è che questa rivoluzione copernicana del pensare è già in contenuta in germe nell’opera agostiniana, e Bergman, da profondo conoscitore dell’animo umano, sembrerebbe, seppur implicitamente, riportarla alla luce grazie all’austera figura di Antonius Block. Il domandare radicale del cavaliere, come quello di Agostino, ci permettono di gettare uno sguardo sull’abisso di noi stessi, facendoci comprendere che l’idea di Verità è dentro di noi, con i suoi caratteri di assolutezza, originarietà e indipendenza. Noi siamo questa apertura costitutiva e strutturale alla Verità: è il domandare stesso, seppur disperante, a confermarlo. Eppure, sia nell’opera bergmaniana che nel passo citato di Agostino, il dubbio permette di pervenire, per così dire, solo al lato immanente della Verità, senza poter scorgere, al contempo, il lato trascendente e immanente, ossia Dio.
Alla disperazione del domandare, infatti, fa seguito, come riporta il testo agostiniano, lo slancio della speranza: «spera in Dio». Ma questo slancio è subito soffocato: la realtà di Dio è troppo lontana perché possa sostituire la vicinanza carnale dell’amico perduto. Solo le lacrime diventano un’amara consolazione, un ponte, seppur fragile, che unisce la solitudine di Agostino a quella dell’amante perduto. Qui la disperazione esistenziale di Agostino, unendosi a quella del Cavaliere Block, non ha ancora imparato che Dio non è il totalmente Altro, ma quanto vi è di più intimo – più intimo a noi di noi stessi – e che l’assolutezza della propria anima richiama l’assolutezza del divino, la quale è al contempo la scintilla originaria di noi stessi e insieme ciò che la abbraccia e la ricomprende, trascendendola. La disperazione di Block nasce da questo equivoco, dal desiderio di voler cogliere Dio coi sensi, quasi come fosse un oggetto. E, d’altro canto, dall’avvertire Dio in sé solo come divorante assenza. Block, in questo senso, rappresenta l’esistenza che, rapportandosi a se stessa, assapora solo la propria contingenza e finitudine, cogliendo l’infinito, colui che è nel rapporto polo e fondamento, solo come aspirazione, come silenzio incapace di tramutarsi in Parola, e non come presenza attuale e vivificante. Nel De vera religione Agostino afferma:
noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas: et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum. Sed memento cum te trascendis, ratiocinatem animam te trascendere.
Qui Agostino si distacca da Block: l’esistenza si rapporta a se stessa e in se stessa scorge la Verità, una Verità che si dice in lui, ma che è più di lui. Tale Verità è l’Assoluto che non conosce né corruzione né morte. Infatti, in questa processo di discesa in se stessi, di assorbimento nel principio di sé che rifulge della luce dell’Assoluto, l’io deve trascendere perfino se stesso, la propria egoità aggrappata alla regione della dissomiglianza. Infatti, Il Sé, l’uomo interiore, non è l’anima raziocinante. Finché si resta in essa, permarrà il dualismo e il Sé apparirà solo come pensato.
È quanto afferma Patañjali, ben prima del vescovo d’Ippona, nel primo verso della sua opera capitale, lo Yogasutra: «Lo Yoga è lo spegnimento dell’attività mentale, del turbinio della coscienza». La mente logico-discorsiva (mens-ratio), unitamente a quella psichica, rappresentano il regno dell’opposizione, in cui il soggetto, proprio come indicato da Patañjali, è avvolto nel groviglio inestricabile di contenuti particolari – pensieri, desideri, impressioni e volizioni –, trovandosi sempre in altro, nelle maculazioni (klesha) e nell’attaccamento (avidya) della vita psichica, e mai nel centro di sé, nella mens imago dei, nell’ātman che è brahman. In questo profondissimo silenzio anche il silenzio di Dio, incarnato nell’assenza presente della morte, si dissolve come un fenomeno fra gli altri: vita e morte, e l’angoscia ad esse connesse – che il Block di Bergman ha portato sul grande schermo con impareggiabile acutezza –, perdono la loro assolutezza nello sguardo originario che noi stessi siamo e che non conosce né nascita né estinzione.
Bibliografia consultata:
S. Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro, Milano 2005.
Agostino d’Ippona, Confessioni, Garzanti, Milano 1999.
Agostino d’Ippona, De vera religione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1930.
Patañjali, Yogasutra, BUR Rizzoli, Milano 2014.