Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jaspers e Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Inizia come La la land l’ultima fatica di Chazelle. Un lungo piano-sequenza che ci scaraventa in un effluvio orgiastico di immagini legate tra loro da un ritmo tambureggiante, travolgente. Lo spettatore non fa in tempo a mettersi comodo: la magia, quella del cinema, quella che Chazelle cerca in tutti i modi di celebrare, lo ha già incollato allo schermo, a quel buio tradito dalla luce.
Chazelle sembra dirci, nel tempo della crisi della visione in sala, che il cinema non può essere un’esperienza privata, da cameretta, ma solo un’esperienza collettiva: un’esperienza in cui il vissuto del singolo si trasfonde in quello degli altri dilatandosi a dismisura. Quello che tenta di mostrare il regista è quell’agonica relazione fra gli opposti, quella contraddizione lacerante fra meraviglia e orrore che sembra caratterizzare non solo l’esperienza della visione, ma la costruzione stessa della macchina dei sogni. Insomma, sullo sfondo aleggia la figura di Kenneth Anger e del suo Hollywood Babylone.
«Al cinema – dice a un certo punto Manny Torres a Nelly LeRoy – si vive e si muore». Ma, soprattutto, si muore e si rinasce. La capacità di eternare e di eternarsi è la cifra distintiva della Settima Arte. Ce lo ricorda anche il dialogo tra Jack Conrad – attore simbolo del cinema muto, duramente provato dal passaggio epocale al sonoro – ed Elinor St. John, giornalista che vive all’ombra dello spettacolo che deve continuare, sempre e comunque, ad ogni costo. Prima ancora dell’immortalità digitale c’era l’immortalità cinematografica: la ripetizione di un identico che muta, differisce, soltanto nello sguardo stupefatto e al tempo stesso terrorizzato dello spettatore.
Chazelle, sempre servendosi di Jack Conrad, mostra perché il cinema resta l’unica forma d’arte capace di trascendere le barriere sociali e le differenze culturali, risvegliando, col suo potere incantatore, quel sentire originario che accomuna ogni uomo. Questa universalità che abbraccia ogni differenza si riverbera sullo stile registico dell’autore, il quale riesce ad alternare l’arditezza quasi titanica di alcune riprese alla compostezza raffinata di altre. Esplicativa di questa felice oscillazione stilistica è il piano-sequenza che accompagna gli ultimi istanti della vita di Jack Conrad. Lo sguardo/ macchina da presa si arresta sulla soglia, dinanzi al claudicare della porta che lo separa dall’incomprensibile. Allo spettatore è concessa una fragile fessura, perché il dolore non si può guardare, si può solo sbirciare. Da quella prospettiva/distanza, l’indicibile si rapprende nel riserbo di uno sguardo muto, orfano per sempre della parola. L’ultimo piano-sequenza, che chiude questo viaggio nell’inconscio del cinema, possiede una potenza meta-cinematografica eguagliata da poche opere. Manny è al cinema, dopo vent’anni dai fatti narrati. Sta guardando Singing in the Rain. La macchina da presa scivola via, lentamente, con un grazia inusitata allarga il suo sguardo, si trasfonde in un abbraccio visivo che afferra tutti gli altri sguardi, tutti gli altri occhi che si lasciano impressione dalla potenza intramontabile del cinema. Singing in the Rain non è più Singing in the Rain. È tutto il cinema che sfila nello schermo, in una esplosione fragorosa e commovente di frammenti che hanno contribuito a plasmare, senza che ce ne accorgiamo, la nostra memoria, il nostro spettro emotivo. Su quello schermo, su quella luce abbagliante, si palesano Nana, Trinity, René Falconetti, un frame di Méliès. Tutto il passato del cinema diventa presente. Le immagini si allineano, si sovrappongono, producendo una miracolosa identità della differenza. Manny piange. Ognuno di noi piange. Non si possono trattenere le lacrime. Perché il cinema non è un’arte, ancor meno un’arte minore. Il cinema è la vita, la nostra vita. E la vita fa piangere perché il suo mistero, questa bellezza insopportabile, gratuita, indicibile, è più grande di noi. Eppure ci appartiene. Eppure ci interroga, ci ferisce, ci consola, ci aggredisce, ci salva.