Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».

Recensione a
G. Travers, La fine del capitalismo
a cura di G. Giaccio
Diana Edizioni, Napoli 2021, pp. 201, € 15,00.

Uno spettro si aggira per l’Europa. Non è quello celebrato da Marx ed Engels nel Manifesto e non sembra avere intenzione di arrestare la sua marcia. La mano invisibile dell’“inquietante ospite” dirige le dinamiche sociali e le trasfigura in partiche commerciali; indica nell’azione predatoria e interessata il proprio modus operandi. La mercificazione del mondo sembra essere il tratto distintivo dell’Occidente moderno. La compravendita a buon mercato di dosi d’esistenza è la vocazione naturale del “capitalismo”. Il capitalismo appare come un problema irrisolto. Subito troviamo difficoltà a proporne una definizione e ad indicare delle prospettive in maniera non problematica. Contro il leggero utilizzo di un concetto che appare rinnovarsi nella contraddittorietà, occorre declinare fin da subito il termine “capitalismo” per non lasciarci alle spalle imbarazzanti silenzi.

Per affrontare la controversia sull’essenza del capitalismo è necessario superare due insidie. Il primo ostacolo è quello di considerare il capitalismo come un fenomeno fondamentalmente limitato alla sfera economica – come meccanismo di massimizzazione del profitto; il secondo, invece, consiste nell’adottare un’immagine astratta che lo proietti fuori dalla storia. Seguendo il sentiero incoraggiato da Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) e da Sombart in Il capitalismo moderno (1902), si riconosce nello “spirito” capitalistico un modo per l’uomo di abitare il mondo e spingerlo verso una totale mercificazione della vita. L’idea di base da cui parte Travers in La fine del capitalismo è quella che lo studio del fenomeno capitalistico non può ridursi all’analisi dei suoi specifici rapporti di produzione, ma deve partire da una ricerca preliminare di quella Weltanschauung che trascende i soggetti e ispira in essi una mentalità mercantile ben precisa. Così definito, il capitalismo non appare più esauribile all’interno di un paradigma economico, ad una forma di interazione tra capitale e lavoro, ma viene a rappresentare un insieme di valori, norme e codici comportamentali interiorizzati dall’individuo che ne costituiscono lo spettro di disposizioni e il temperamento culturale.

La fine del capitalismo mette insieme cinque brevi saggi pubblicati separatamente ma intimamente legati dal tentativo di apportare un contributo significativo al delineamento del volto ideologico del capitalismo e delle sue implicazioni sul piano antropologico, sociale e politico. Fin da subito l’Autore ci mette di fronte ad una definizione che gli consente di tracciare una direttrice di sviluppo del discorso. Il capitalismo, per l’economista francese, è un «sistema economico e sociale che riduce ogni relazione tra gli uomini alla relazione commerciale interessata, che considera ogni bene come una merce, e qualsiasi valore come puramente soggettivo per l’individuo» (p. 21). Ne consegue un corollario di fondamentale importanza: l’uomo del capitalismo abita nel mondo come consumatore “mercivoro”.

Il primo e più importante fondamento intellettuale del capitalismo, continua Travers, è l’individualismo, vale a dire quell’idea che l’elemento all’origine di tutti i fenomeni sociali, sia l’individuo. In questo senso si assiste ad un radicale mutamento nella struttura assiale delle idee che muovono il mondo. Dove l’uomo pre-capitalistico riconosceva principi che, pur attraversandolo, lo trascendevano, la modernità inaugura l’era dell’alienazione e della solitudine. L’uomo diventa estraneo a se stesso, perde la propria identità e recide i legami che lo uniscono al divino e alla comunità. Tagliato fuori da ogni appartenenza, l’individuo fronteggia passivo e inerme l’interrogativo sul proprio destino. Le identità finiscono nel tritacarne del mercato, regrediscono di fronte alle sirene pubblicitarie e vengono livellate su un unico modello, quello del consumatore. L’Autore – pur con alcune riserve – accoglie favorevolmente la riflessione del I libro del Capitale sul “feticismo delle merci”: le merci si staccano dal loro valore d’uso e assurgono al rango di idoli.

Il mondo della finanza sottomette l’uomo e lo piega ai suoi capricci. Il mercato modula i bisogni dell’individuo, l’avere e l’apparire determinano le sue aspirazioni: la mercificazione dell’uomo è servita su un piatto d’argento. L’apparenza si sovrappone alla realtà stessa e la subordina: tutto è conformato ai modelli imposti dal capitale. Si è detto che lo “spirito” del capitalismo si sviluppa attraverso il mercato. Il mercato è l’istituzione concreta del capitalismo e rappresenta un poderoso dispositivo antropogenico che dirige il processo di costruzione della persona, regolando i rapporti tra le parti del sistema. L’unica equazione realizzata dal mercato è la prassi del consumo. I bisogni delle masse vengono creati artificialmente, ogni bene è pensato per essere fagocitato dall’individuo. L’intero panorama sociale è progettato per soddisfare, nell’immediato e al pari della merce, le esigenze del consumatore. Proprio per questo il tratto saliente del capitalismo è la mercificazione del mondo – si pensi alla reificazione (Verfallenheit) heideggeriana. Tuttavia, il mercato, prima di aggregare gli individui attorno al banchetto dei prodotti commerciali, deve prima dissociarli da ogni carattere storico, politico e culturale. La funzione storica immediatamente precedente all’inizio del XXI secolo del mercato è quella di preparare il terreno all’orgia del consumo, prosciugare le sacche refrattarie e imporre identità artificiali nelle quali identificarsi.

Il capitalismo vuole rifare l’uomo dall’interno lacerando ogni appartenenza, ogni legame che non sia diretto dalle dinamiche del consumo. Nella società di mercato la pubblicità non è un mezzo neutro; essa è anzitutto una narrazione sull’essere sociale che promuove un modello desiderabile. La società dei consumi ha le sue festività (i saldi), i suoi rituali (le sfilate di moda), i suoi idoli (indossatrici/indossatori), le sue preghiere (gli slogan), tutto è pensato per rendere più desiderabile la frenesia consumista (p. 28).

La “comunità” (Gemeinschaft), definita da Tönnies come un tutto organico caratterizzato da un’identità relazionale tra le componenti, involve in “società” (Gesellschaft) organizzata sull’azione egoistica e contrattuale degli individui dove viene sperimentata una condizione di atomizzazione senza precedenti storici. Il motto thatcheriano secondo cui «la società non esiste, esistono solo gli individui» è la manifestazione più evidente di questa prospettiva. La rottura tra l’uomo e la sua comunità, proiettando l’immagine superiore della rottura dell’uomo con Dio, si fa terreno fertile per l’individualismo moderno. Con l’espulsione di Dio dal cosmo vengono poste le basi per la svalutazione del mondo e fondano i presupposti per la sua trasformazione in merce. A tal proposito Weber in La scienza come professione (1919) fa riferimento al “disincanto del mondo” per designare quel processo che, con il crescere della razionalità scientifica, ha comportato la cacciata dell’aspetto spirituale dal mondo. Ciò che interessa a Weber è in primo luogo il processo di “razionalizzazione” economicista dell’esistenza. Il sociologo tedesco imputa all’etica calvinista il fatto di aver mosso i primi passi verso l’ascesa del capitalismo moderno. Seguendo la scia di Sombart, espressa in Gli ebrei e la vita economica (1911), indica nella ricerca permanente del profitto la vera pietra angolare del capitalismo; a suo dire gli ebrei sono all’origine di molte innovazioni finanziarie e commerciali che hanno permesso l’estensione del mercato e, sulla base dello studio dei testi giudaici, mostra l’inclinazione ebraica per il commercio, una struttura mentale che li predisponeva ad accostarsi al mondo come un gran mercato. Storicamente l’individualismo è stato favorito dall’ascesa della borghesia che, incrociandosi con la cultura liberale e illuminista del XVIII secolo, appare come principale vettore del capitalismo.

Ma la cultura europea è cosa ben diversa dalla Zivilisation dell’Occidente. Spengler nel suo Il tramonto dell’Occidente (1923) fa notare come il mondo occidentale sia caratterizzato dal dominio del denaro e della stampa, intellettualmente arido e politicamente fragile (p. 62). Insomma, una bella scimmiottatura bislacca e degradata della Kultur di Thomas Mann (Cfr. Considerazioni di un impolitico, 1918) La concezione europea classica, infatti, vede nell’uomo un essere politico (zoon politikon), che appartiene in modo organico ad una comunità che gli preesiste e che gli sopravviverà. Anche se ogni uomo appartiene inevitabilmente ad una comunità politica, questa non si riduce alla somma degli individui, non è un contenitore di individualità, ma un organismo vivo che instaura un rapporto simbiotico con le componenti.

Anche nella sfera del politico il capitalismo irrompe e ne scuote le fondamenta. Lo sconvolgimento radicale propiziato dal fenomeno del capitalismo può essere compreso solo se lo si ricolloca all’interno della prospettiva generale dell’individualismo moderno. Ad una visione organica e relazionale della comunità, la modernità ha sostituito una visione contrattuale: l’individuo è membro di una società perché in essa trova il suo miglior interesse. Questo è il perno intorno al quale orbitano le attenzioni individuali, l’economia si disinnesta dalle sue implicazioni collettive e ciascuno è legittimato a perseguire i propri interessi individuali – letteralmente homo homini lupus. Con la democrazia liberale-individualista, il politico è sempre più costretto a rispondere del proprio operato, subordinato a centri di potere che rispondono agli interessi della “razionalizzazione”. La dissociazione dell’economia dal tessuto politico e sociale della comunità segna una rottura importante con il pensiero europeo classico e premoderno (p. 76). Il principale obiettivo politico, il primo indicatore per misurare il successo o il fallimento delle componenti del sistema è il tasso di crescita dell’economia. Le politiche sociali non mirano ad assicurare maggior benessere alle parti più indigenti della società, ma soltanto ad assicurarsi che nessuno resti escluso dalla frenesia del consumo. In tal senso i valori politici del capitalismo sono riassunti in prescrizioni come “crescita”, “efficacia”, “produttività”, “flessibilità”, “funzionalità”. Ad uno stadio avanzato nel dispiegamento dell’ideologia mercantile, lo Stato non viene liquidato, ma impiegato per squalificare i fattori di disturbo agli interessi economici.

La modernità porta con sé una serie di battaglie delle quali il capitalismo si fa principale interprete: livellamento e smussamento di ogni verticalità, cancellazione delle differenze e spinta verso un egualitarismo che spesso si traduce in indistinzione generalizzata. Il concetto di disuguaglianza è connaturato nell’architettura capitalistica e la forbice sociale, man mano che si intensificano le dinamiche interne, aumenta vertiginosamente. Ma l’aspetto più terrifico del nostro spettro è la tendenza a divorare le anime. E se è vero che è più difficile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, ci si prepari a “rifare” il mondo esorcizzandolo dagli spettri.

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