Francesco Carlesi (1985) è borsista di ricerca presso l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano. Dottore di ricerca in Studi Politici (La Sapienza), socio della Sissco e dell’associazione «Il Pensiero Storico», è docente di Storia Contemporanea e Storia delle Relazioni Internazionali presso SSML “San Domenico”. Ha scritto e scrive per riviste come «Nuova Rivista Storica», «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», «Nova Historica» ed «Europea» e ha curato e scritto diversi libri, tra cui La Terza Via Italiana(2018) Mussolini e Roosevelt(2022), Storia della partecipazione (2023) e Itinerari del Presidenzialismo (2025). Ha collaborato a decine di libri, tra i quali si segnala Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali(2021) e Giuseppe Mazzini nella storia d’Italia (2023).
Recensione a: G. Belardelli Il tramonto del passato. La crisi della storia nella società contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2025, pp. 108, € 14,00.
«Per una comunità democratica il rapporto con la storia, la conoscenza del passato, implicano avere consapevolezza dei propri punti di forza e di quelli di debolezza, avere una qualche idea di ciò che si è e si è in grado di fare a prescindere dalle difficoltà e dagli imprevisti legati al presente, potersi avvalere di un legame tra i cittadini che si basa non solo su diritti costituzionalmente garantiti ma anche su una tradizione e una cultura comuni» (p. 11).
L’indebolimento della conoscenza della storia e della percezione del passato rischia di minare la solidità delle democrazie, già ampiamente provata da sfide economiche e internazionali? Una risposta affermativa emerge dal tagliente libro del professor Giovanni Belardelli Il tramonto del passato. La crisi della storia nella società contemporanea.
Nell’agile volume si entra nel merito di tutte le criticità legate alla “svalutazione” dello studio storico che impera soprattutto in Occidente. Per l’Italia, sul banco degli imputati in primo luogo la scuola che, secondo Belardelli, «attraverso gli interventi degli ultimi decenni soprattutto dei ministri Berlinguer, Moratti, Gelmini (dunque in modo bipartisan) ha peggiorato fino a eliminarla» qualunque capacità di «diffondere una conoscenza di base della storia» (p. 21). Si registra, per l’Autore, una evidente riduzione di spazio, credito e prestigio sociale della storia, alimentata dal didatticismo (le “competenze” in luogo della “conoscenza”, in un’ottica aziendalistica dove la cultura viene considerata “inutile”) e dalla svalutazione del ruolo del docente, la cui autorità sembra perdersi in nome del modello anglosassone dello student-centered learning. Senza contare, inoltre, alcune riforme dei programmi che mirano a destrutturare la stessa intelaiatura cronologica della storia, in favore di moduli tematici (ad esempio disuguaglianza sociale o questioni di genere) che disarticolano il divenire storico per seguire passioni e interessi dell’attualità. Una vera e propria «torsione etica», si legge nel libro, che rischia di svuotare di senso la disciplina.
Questo genere di operazioni viene compiuto da ambienti culturali che mirano a mettere in discussione e “decostruire” anche un altro elemento che proprio sulla storia ha basato la sua fortuna: Lo Stato-Nazione, il quale, per Belardelli, «ha svolto un ruolo essenziale nel promuovere nella popolazione il senso del passato, la percezione delle proprie radici indietro nel tempo» (p. 37). Pur tra interpretazioni spesso forzate («la storia giustifica ciò che vuole» scrisse Paul Valéry), la valorizzazione e lo studio delle radici storiche delle collettività hanno contribuito a costruire gli Stati nazionali, ancora oggi, nel bene e nel male, “contenitori” essenziali di cittadinanza e democrazia. Combattere tutto questo in nome di tendenze globalizzanti, che ambiscono alla creazione di una cosmopoli democratica dei diritti dell’uomo, vera e propria «religione secolarizzata», per Belardelli, e della world history, figlia per l’autore del progressismo contemporaneo che identifica la prospettiva nazionale quale intrinsecamente discriminatoria, viene descritto come un errore. Perché la storia, nota lapidariamente ancora l’autore, si fa sempre «da un punto vista particolare, correlato a una determinata cultura e a un contesto specifico. Il contesto o il punto di vista globale, cioè dell’umanità, semplicemente non esiste, non è un punto di vista e rappresenta semmai una mera costruzione ideologica» (p. 45).
Si tratta di considerazioni che fanno subito pensare ad uno degli storici italiani più importanti come Rosario Romeo, non a caso più volte citato nel libro. Pensatore vicino alla cultura liberaldemocratica e repubblicana, Romeo fu sempre in prima fila nella battaglia tesa a valorizzare il senso dello Stato e il Risorgimento, pur inquadrato criticamente. Nel 1961, nel corso delle celebrazioni del Centenario dell’Unità, scrisse amaramente che «sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali» si notava un «certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi dirigenti, la sensazione che alla riaffermata fedeltà a taluni valori tradizionali, si accompagni una certa fatica nello sforzo volenterosamente compiuto di riallacciare la odierna realtà italiana a quel passato, che tuttavia rimane il solo centro intorno al quale si possa richiamare, come segno d’unione, tutto il paese».
Tra i maggiori “colpevoli” della deriva, per Romeo, la gran parte degli intellettuali italiani vicini al Pci, insediatisi in posizione maggioritaria in tutte le cittadelle della cultura, «intenti a resuscitare dalle ceneri il vecchio filone antirisorgimentalista inaugurato dalla Lotta politica in Italia di Alfredo Oriani nel 1892». Lo storico siciliano combatté costantemente il comunismo italiano, rischiando anche in prima persona e venendo minacciato con una pistola all’Università “La Sapienza”. In una lettera a Gioacchino Volpe, Romeo espresse preoccupazione verso i «nemici o tiepidi dell’Italia risorgimentale – comunisti, democristiani, clericali (…) incoraggiati a disfare oggi quel che i nostri padri fecero ieri».
Per lui, l’Unità italiana rappresentò, pur con tutte le sue controversie, l’ingresso nella modernità della penisola, l’evento più importante dai tempi della caduta dell’Impero romano. Il suo meridionalismo, in questo senso, non lasciava spazio a interpretazioni (come quelle cosiddette “neo-borboniche”) che mettessero in discussione lo Stato-Nazione. Proprio sulla scia di queste battaglie sembrano collocarsi alcune considerazioni di Belardelli. Sulla valorizzazione dello Stato nazionale e lo studio del Risorgimento, poi, è tornato più volte anche Alessandro Campi (direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano che a Romeo dedicò un convegno un anno fa, presso l’Università di Macerata), il quale nella recente ripubblicazione della voce Treccani di Walter Maturi dedicata proprio al Risorgimento ha scritto: «a quel periodo – alla conoscenza e comprensione dei suoi attori e principi – forse sarebbe necessario tornare per cercare di affrontare la condizione di crisi e smarrimento in cui versano, ormai da anni, la società e la politica italiane».
La storia nella morsa della memoria, del “presentismo”, del diritto e della sfida digitale
Se in altri tempi le ricorrenze nazionali riguardavano i successi della Nazione, imprese o eroi da celebrare, nel presente si fa strada sempre più una tendenza alla vittimizzazione e alla colpevolizzazione del passato, nota Belardelli proseguendo la sua analisi con la critica a quella che viene definita la «nuova religione della memoria» (p. 61). Entrando nel dettaglio viene osservato come la memoria, utile ma pur sempre soggettiva e unilaterale, aumenta i rischi di «deformazione del passato» e schiacciamento sull’attualità, e non a caso vengono richiamate le battaglie di molte minoranze (ad esempio neri e movimenti lgbt) per ottenere lo status di vittime, le quali fanno spesso perdere di vista l’obiettivo dello studio storico: la comprensione degli eventi con tutte le loro complessità, nel tentativo di restituire il contesto particolare di ogni stagione lontana. Molte delle minoranze e dei gruppi organizzati impegnati in merito, scrive Belardelli citando i casi di Francia e Stati Uniti, «non puntano a integrare la memoria nazionale quanto a sostituirla» (p. 72). Di pari passo a queste analisi va la serrata critica alla cosiddetta cancel culture, che è arrivata a colpire figure come Churchill o Wilson, esaminata in primis nel Paese dove più di tutti «la criminalizzazione della propria storia è andata avanti» (p. 99): gli Usa. Non si vogliono qui certo negare massacri e drammi che hanno coinvolto tante minoranze nella storia, ma sottolineare il rischio di una visione appiattita sul moralismo e sulle considerazioni politiche del presente. Non a caso, «fare storia e non moralismo» fu il principio cardine del metodo storico di Renzo De Felice.
Altro rischio rilevante che investe la storia è la «giuridicizzazione del passato» (derivante non solo da ambienti progressisti, l’Autore parla anche delle leggi di condanna della negazione dei crimini del comunismo da parte di molti paesi dell’Est) che mira a punire penalmente determinate interpretazioni e restringe gli spazi di approfondimento. Non solo la politica ma anche il diritto, dunque, può invadere il campo della lettura del passato e contribuire alla marginalizzazione del ruolo degli storici.
Ultimo campo d’indagine del libro è la dimensione digitale, che sta cambiando e cambierà in maniera profonda il nostro modo di vivere e la stessa percezione della storia. Anche in questo caso, diversi spunti sono degni di menzione: «nella Rete il vecchio e il nuovo convivono e appartengono alla stessa dimensione epocale, quello del presente come unico tempo possibile» (p. 84), scrive Belardelli. Sembrerebbe prendere forma un presentismo (si veda in merito tra gli altri Prigionieri del presente di Galdo e De Rita o l’idea di «egocentrismo del presente» raccontata da Veneziani) che, «senza radici né profondità storica rischia di non essere altro che un’illusione, un miraggio» (p. 108), lontano dalla comprensione profonda del passato. Non solo: per Belardelli le nuove tecnologie dell’informazione della comunicazione contribuirebbero in maniera decisiva a questa deriva. Esse non sono di per sé neutre, ma «modificano strutturalmente il nostro modo di pensare» (p. 87). Non sempre in meglio: anche da qui pare originarsi la sempre più evidente difficoltà di concentrazione e la superficialità nella consultazione dei testi che caratterizzano i giovani, come emerge da numerose ricerche scientifiche. Generazioni per cui spesso «sembra del tutto normale giudicare personaggi di cento o mille anni fa come se fossero ancora viventi» (p. 106). Riuscire a gestire queste “transizioni” appare una delle sfide più difficili per il mondo della cultura e dell’istruzione.
In definitiva, l’Autore ci consegna un quadro desolante e invertire la tendenza secondo i suoi auspici, nonostante la preparazione dal parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito di nuove Indicazioni nazionali per le scuole più attente alla storia, potrebbe non bastare. Al di là del piano operativo, questo agile volume ha però un merito preciso: parlare chiaro, toccare senza remore molti temi (come l’identità), polemiche e “nervi scoperti” che infiammano la discussione tra storici, facendo riferimenti ad autori e maestri come Bloch, Koselleck e Croce. Certo, si tratta allo stesso tempo di interpretazioni che si prestano a osservazioni e critiche, e un dibattito non potrebbe essere che benvenuto. Si tratta di provare a riaprire la strada verso una storia, a cui Croce attribuiva un vero e proprio valore di civiltà, che possa essere pensiero critico e motore di conoscenza, riflessione e cambiamento, pur con tutte le sue luci e ombre. Perché, come scrisse Gioacchino Volpe, «la storia, qualunque storia, è cosa viva o morta, secondo che sono vivi o morti gli uomini che si voltano a guardarla. Essa, che nulla insegna a chi non sa fare da se, dice e insegna a chi fa e cammina».
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