Mario Ascheri (1944) è nel Consiglio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo dopo aver insegnato nelle facoltà di Giurisprudenza e di Lettere delle università di Sassari, Siena e Roma 3. Ha fondato la rivista «Nova Itinera» con S. Amore e A. Giordano; come giornalista pubblicista ha diretto il settimanale “Zoom” a Siena (2009-11). È nel direttivo di molte riviste storiche italiane e straniere. È uno specialista di storia della giustizia e della giurisprudenza medievale e moderna, oltreché dei Comuni italiani, ed è riconosciuto a livello internazionale per i suoi lavori specialistici sui consiliae i manoscritti giuridici basso-medievali. È stato coordinatore della rivista dell’Accademia dei Rozzi di Siena. Nel 2001 gli è stata conferita la laurea honoris causa dall’Università dell’Auvergne (Clermont-Ferrand) e nel 2003 il massimo riconoscimento civico a Siena (“Mangia d’oro”) e a Ventimiglia (“San Segundin d’Argentu”). Negli anni 2000 è stato membro del Beirat del Max-Planck-Institut per la storia giuridica europa (Frankfurt/Main). Da allora è anche Senior Fellow della Robbins Collection, School of Law (Boalt Hall), University of California, Berkeley.
Recensione a
Minoranze religiose e cultura europea. Ebraismo, protestantesimo, islamismo nelle forme simboliche dell’Occidente
a cura di A. Castelnuovo, premessa di F. Margiotta Broglio
Franco Angeli, Milano 1999, pp. 208, €24.50.
È un piacere, perché il libro curato da Antonella Castelnuovo è molto ricco, di contributi e di spunti, e interviene in un momento in cui questi temi sono di estrema attualità: tutto quello che si può fare per renderci coscienti di questi problemi è benvenuto. Merita perciò riparlarne, sia pure a distanza di oltre vent’anni, perché si tratta di esempio di come la buona ricerca non invecchi, ma anzi resti giovane nel tempo. Questo poi è un libro stimolante perché nato da un seminario anziché da un progetto a tavolino per raccogliere una serie di approfondimenti scientifici omogenei su un tema specifico. Insomma è ben diverso da libri accademici in senso stretto.
Qui non siamo tanto al contributo specifico originale, al contributo nuovo che discute una bibliografia specifica selettiva e vuole lanciare proposte nuove – come pure c’è, direi soprattutto nei contributi di Piero Morpurgo, Giorgio Bouchard e di Giorgio Israel. Siamo piuttosto agli interventi di sintesi, alla sottolineatura dell’importanza di certi contributi per la comprensione della religiosità contemporanea. Penso, ad esempio, all’articolo di Riccardo Campa, che si sviluppa seguendo il filo delle trattazioni di Bryan Wilson e di Peter Berger, oppure a testimonianze personali, come quando Pietro Clemente, con la consueta acutezza, ci dice come si stanno vivendo nella cultura antropologica i problemi delle minoranze religiose e del loro radicamento in realtà nuove, oltreché offrirci anche un simpatico passo biografico, in cui ricorda l’importanza della mamma napoletana nella sua iniziazione all’interesse per riti e tradizioni popolari.
In questo modo il libro nel suo complesso non pretende tanto di essere e di divenire una pietra miliare della ricerca pura, quanto piuttosto con la sua tavolozza di contributi, molto diversi nei contenuti e nello stesso impegno e approfondimento, di smuovere e collegare le competenze, di realizzare delle sinergie come si dice. Ha voluto infatti favorire il confronto fra studiosi, lasciar loro un ricco legato che stimoli loro in certe direzioni di ricerca (questa volta sì che la ricerca c’entra), e squadernare alcuni profili di un’enorme problematica al grande pubblico.
Il lettore normale è destinatario di questo libro, il lettore che voglia entrare nella complessità: che c’era di meglio degli atti di un seminario variegato, non unilineare per non annoiare e spaventare? E, in effetti, lo scopo è pienamente raggiunto grazie alla eterogeneità, alla mancanza felice (direi) di omogeneità formale e contenutistica dei contributi. Gli universi religiosi, il rapporto religione-scienza, la religione e la letteratura, la religione e l’arte cerimoniale e non figurativa. Tutti temi trattati da specialisti in modo relativamente piano, accessibile appunto al pubblico, anche se non va taciuto che forse l’ordine dei contributi, che è un ordine logico, del tutto giusto, non è anche quello che incoraggia il lettore normale alla lettura.
Capisco che è un ordinamento un po’ necessario, ma dal punto di vista dell’utenza, per così dire, se in limine si fossero trovati i contributi meno teorici e più concreti presenti soprattutto nella seconda parte, forse sarebbe stato un approccio più semplice. Ma queste sono quisquilie di struttura, che non devono velare più di tanto la valutazione complessiva dell’impresa, che non può che essere positiva, fortemente positiva. Soprattutto, direi, per averci proposto all’attenzione uno spicchio notevole dell’universo delle minoranze religiose nei Paesi ad egemonia cattolica, privilegiando, come si noterà quindi, quelle che sono più attuali o quelle che hanno conservato attraverso i secoli un’identità culturale più netta, e che proprio per questo sono sopravvissute a quell’egemonia.
L’islamismo è presente con i saggi di storia della cultura, della letteratura e dell’arte, giustamente sottolineandosi il grande contributo dato dalla cultura araba alla cultura occidentale. Mahmoud Salem Elseheikh soprattutto ha buon gioco a sottolineare l’importanza fondamentale del pensiero scientifico, astronomico, geografico, medico, e filosofico per gli sviluppi della cultura bassomedievale e poi moderna europea. Come giustamente Giulio Soravia sottolinea gli imprestiti della poesia siciliana, del dolce stil nuovo e anche di Dante da quella letteratura. Ma è stato anche giusto sottolineare come ha fatto Elio Satti l’importanza dell’opzione non figurativa dell’islamismo, il suo ripudio del culto per le immagini a favore di una religiosità più astratta, sognante, rispetto alla concretezza di quella cattolica – e perciò quella islamica poté anche più facilmente recepire e fondersi con le culture locali dopo l’impatto della conquista.
Da un punto di vista storico, che è quello per cui ho una competenza marginale, ovvero ho meno incompetenza che per gli altri, mi sembra che questi contributi sull’islamismo e quelli sull’ebraismo, ma anche il valdismo soprattutto, finiscano per mettere in luce la svolta che andò realizzandosi nel corso del 1100. C’è stato un tempo in cui veramente si era realizzata una koinè culturale e gli scambi sono stati proficui e molto aperti fra le grandi culture, cristiana-araba-ebrea. Pensiamo soltanto alle traduzioni, che furono e sono anche oggi un momento fondamentale del riconoscimento delle identità e dell’altro, e quindi sono momenti fondamentali non solo di crescita culturale, ma di contributo al dibattito culturale e quindi alla tolleranza. Ebbene, esse ebbero spesso luogo in terra islamica mettendo all’opera cristiani e utilizzando senza remore i dotti ebrei. C’è stato un momento in cui il cristianesimo (quello occidentale, almeno) ha nutrito un fortissimo senso di inferiorità che ha tentato di superare imparando, umilmente e caparbiamente. Fu anche il momento delle prime università, e del dibattito più aperto. Poi ci sono stati i due grandi fatti che hanno cambiato l’identità cristiana europea, o almeno le hanno fatto assumere caratteri nuovi. Le crociate, da un lato, e i concili ecumenici romani, dall’altro, hanno avviato il Papato ad un ruolo europeo del tutto nuovo, che ha avuto nel corso del Duecento le sue conseguenze anche per lo stesso dibattito culturale. Ricordiamo le prime condanne parigine dei teologi troppo curiosi, san Tommaso compreso.
Si trattava di elevare un muro di fronte alla cultura araba, così come i concili con le loro proibizioni elevarono altri muri, in prospettiva questa volta concreti, materiali, nei confronti della cultura ebraica. Per tanto tempo i divieti non furono rispettati – basterà ricordare come soprattutto la medicina ebraica fu ricercata senza tanti scrupoli dai cristiani bisognosi –, ma sui tempi lunghi le crisi come quella del Trecento dovevano cambiare il quadro generale di riferimento. Non fu certo un caso, nei decenni al volgere del 1500, l’incredibile e rapido diffondersi del culto di San Simonino, il bimbo pubblicizzato come vittima d’un sacrificio rituale degli ebrei di Trento, nonostante, si badi, l’opposizione d’un commissario apostolico, vescovo di Ventimiglia, mandato da Roma; e meno che mai meraviglia che la sua pretesa santità sia stata conservata fino a pochi anni orsono.
La svolta vera nella storia dell’Europa non fu tanto il Mille, che è persino ridimensionato oggi come spartiacque economico, non fu tanto il 1100, che pose solo le premesse dell’esplosione della cultura universitaria, ma il 1200 dal nostro punto di vista. Il boom culturale cristiano che con le sue università poté cominciare a pensare all’autonomia culturale, e il boom istituzionale che possiamo compendiare nella formula, cui seriamente si pensò allora, del papa-imperator, del papa signore del mondo in quanto vicario di Cristo. Cose notissime, ma non riflettiamo mai abbastanza sulla incredibile sintesi cui quella svolta condusse la cattolicità e che si sente anche oggi che si realizza il sogno medievale del pontefice signore nel mondo.
Quella scelta istituzionale, in parte almeno condizionata dai grandi modelli della romanità imperiale, caratterizzata allora in modo fortemente intollerante e autosufficiente, ebbe la sua parte nella stessa configurazione dell’eresia come reato. Di qui le scelte drammatiche di un san Francesco e dei suoi per la Regola, di qui anche la rottura valdese, e non solo. Scelta politico-istituzionale e giuridica che diede alla cattolicità un’unità di direzione politico-culturale del tutto assente nella cultura islamica e nella cultura ebraica. Bello il saggio di Giorgio Israel, che in margine al libro importante di Sholem ci mostra come la stessa scienza cabalistica si sia sviluppata a fine 1100 e poi per tanto tempo sia stata come sommersa nella stessa cultura ebraica, dopo aver dato un contributo importante allo sviluppo della scienza moderna occidentale. Oppure, il saggio commosso di Laura Quercioli Mincer, sulla cultura yiddish, della quale l’autrice sottolinea le difficoltà all’interno dell’universo ebraico, che solo in epoca recente ha ritrovato cultori appassionati, dopo l’avventurosa trasmigrazione da Vilna a New York del suo principale istituto. Ma, com’è notissimo, lo stesso islamismo ha un’articolazione ricchissima e non ha mai conosciuto un centralismo paragonabile a quello pontificio.
E siamo così di nuovo alla sottolineatura del rilievo assoluto dell’elemento culturale nell’esame di questi processi. Le comunità ebraiche hanno avuto la fortissima identità che hanno avuto – pur senza alcun potere politico a sostegno fino a tempi recenti – grazie alla cultura autonoma che hanno saputo tener viva e sviluppare, partendo dalla lettura dei sacri testi; l’identità era data anche da un eccezionale alfabetismo e transculturalismo (pensiamo all’eclettismo yiddish che non fu soltanto linguistico), che non ci furono mai o che vennero meno laddove c’erano nella cultura cattolica.
La mediazione sacerdotale così assolutamente prevalente nel mondo cattolico ridusse, come si sa, il laicato ai margini del culto e soprattutto della cultura. Scienza e religione nella cultura cattolica divorziarono assai presto, ben prima della svolta del 1600, che è comunque stata giustamente sottolineata da Giovanna Pons. La presenza cabalistica ed ebraica nella Firenze del ‘400 ebbe la sua importanza: da Pico della Mirandola a Copernico si consumò, nonostante l’irenismo erasmiano, la frattura tra chiesa e dotti e la cultura scientifica prese proprie strade nel quadro del Rinascimento.
La Riforma fu una grande operazione culturale oltreché religiosa, per carità: non a caso si sottolinea in questi contributi la centralità della traduzione in tedesco e in inglese della Bibbia. Si potrà rivedere finché si vuole la tesi weberiana sulla nascita del capitalismo, si potrà rivedere finché si vuole la tesi della decadenza italiana a partire dal Cinquecento o dal Seicento, ma il fatto è che da allora data lo squilibrio culturale. Il protestantesimo è anche rivoluzione culturale, e lo si vede bene nel saggio sulla letteratura inglese puritana di Giorgio Bouchard. Il repubblicanesimo di John Milton, con la sua uguaglianza e libertà, non è solo anticipazione, ma anche riecheggiamento della grande cultura italiana “popolare” del Due-Trecento, quella messa ormai in naftalina dal trionfante mondo della stabilità politico-culturale d’antico regime. L’Italia non ebbe mai governi così stabili come allora, ma anche una cultura così stagnante come forse dovrebbe essere ricordato qualche volta, specie oggi che si parla solo del valore della governabilità peraltro senza chiarire.
Religione-cultura-politica: il trinomio inscindibile dell’identità, della riflessione sull’oggi e sul domani. Il libro lo fa emergere bene, fa capire bene che l’incontro tra le minoranze dev’essere possibile, se possibile, su quel piano. Con l’avvertenza, aggiungerei, che sul quel piano ormai siamo tutti in minoranza. La riflessione sul destino proprio e degli altri è ormai minoranza, anche quella cattolica è in minoranza a dispetto e al di là dei pur grandi e ben riconoscibili trionfi universali. Ormai siamo tutti in minoranza: questa è forse la riflessione più urgente e drammatica che sollecita, tra le tante, questo libro; perché è in minoranza, o forse addirittura in via di estinzione, la cultura umanistica che le religioni variamente incarnano.