Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Negli uffici pubblici difficilmente i raggi del sole filtrano bene. La luce prova ad entrare dalle finestre, dalle fessure, ma un qualcosa di misterioso ne indebolisce la forza, e la rende pallida, grigiastra, foss’anche del sole di luglio. In un ufficio pubblico pure il tempo sembra modificare la sua essenza: ti mettono in una sala d’aspetto, ti dicono di aspettare un quarto d’ora. Aspetti, magari sei stato pure premuroso, portandoti qualcosa da leggere. Durante l’attesa riesci a: iniziare e concludere Infinite jest di Foster Wallace, riguardare integralmente la finale di Champions League del 1994, scrivere un romanzo autobiografico. Quando ti chiamano, la barba accuratamente rasata la mattina è ricresciuta di almeno sette millimetri; guardi l’orologio per vedere quanto tempo sia passato e con stupore constati che hai effettivamente aspettato solo un quarto d’ora. Se gli scienziati volessero davvero capire qualcosa sui buchi neri, dovrebbero cominciare ad analizzare gli uffici pubblici.
Il povero Elia aveva dovuto aspettare ben mezz’ora, prima di essere chiamato, e non si era nemmeno portato da leggere, dato che per lui leggere non è un piacere. Si mise a sedere davanti a una scrivania di legno su cui svettavano due monitor di computer, uno abbastanza nuovo, l’altro risalente, a occhio, al 1995. Questo particolare, unito alla precedente “mezz’ora” d’attesa, contribuì a confondere le coordinate temporali di Elia.
«Lei è qui per…?»
Non un saluto, non una stretta di mano. La signora dall’altra parte della scrivania era visibilmente seccata dalla sua presenza. Doveva avere circa cinquant’anni, indossava un cardigan color blu sbiadito (forse prima di entrare in ufficio era un blu oltremare), aperto davanti, sotto il quale si intravedeva una di quelle magliette con le stampe che fanno tanto primo anno di scuole superiori, raffigurante una Minni decisamente imbronciata. Un paio di occhiali da lettura con montatura in plastica rossa stavano filtrando uno sguardo passivo-aggressivo, accentuato da una fitta ragnatela di rughe maligne.
Elia, un po’ teso, rispose alla domanda:
«Salve, allora…sì. Sarei qui perché, ecco… Allora, mi sono trasferito da poco qui, no? Ho un mezzo lavoro però ecco… sa, per i primi mesi… ho sentito di un… contributo affitti, no?»
«Lei vuole fare domanda per il contributo affitti della Regione, giusto?»
L’annoiato e freddo cinismo della risposta spiazzò un poco Elia, ma il fatto che la signora avesse compreso lo rassicurò sul fatto di non aver sbagliato ente; ciò lo rese un po’ più sereno.
«Sì, ecco, se è possibile…»
«Eh, se è possibile, appunto. Ha letto il bando? Si è informato?»
La serenità appena guadagnata fece presto a dileguarsi.
«Per la verità… no. Un mio amico mi ha detto di venire qui e…»
«Sì, e poi cosa? Vabbé, fa niente. Lo vedremo adesso se ha i requisiti per la richiesta. Lei ha con se i documenti, vero? Carta d’identità, codice fiscale…»
«Sì sì, certo, ho tutto!»
«Allora, un secondo… che apro il computer…»
Nella stanza c’era un solo orologio, fermo alle tre e trentatrè minuti. Nell’aria c’era solo il suono dei tasti del computer premuti dalla signora.
Che fare? Dire qualcosa? Continuare a stare zitti? Si passerà più da stupidi a parlare o a stare in silenzio? A un caso, che dire? Elia voleva tornare a casa. Gli sembrava di essere entrato in una stasi temporale, che tutto fosse immobile tranne la signora, a cui però costava tanto sacrificio e impegno quel picchiettare annoiato e lento sulla tastiera. L’istinto principale era quello di dire che si era trattato solo di un equivoco, di scusarlo per l’incomodo, e di fuggire fuori, per strada, dove le cose si muovevano di propria volontà ed il tempo scorreva uguale per tutti. Stava quasi per farlo, quando la signora cominciò a chiedergli le generalità e gli estremi dei documenti.
«Allora, io le ho cominciato la domanda, però adesso le devo elencare le categorie che hanno accesso al finanziamento, d’accordo? Lei mi dice a quale di queste appartiene.»
«Afferrato»
«Bene… Lei ha meno di 24 anni?»
«No, 27.»
«Lei è sposato?»
«No»
«Ha figli?»
«Eh, no, ancora…»
«La sua famiglia ha un Isee inferiore ai 10.000 euro?»
«Beh, questo non so… non credo… Ma che c’entra la mia famiglia, son qui da solo io.»
«È disoccupato?»
«No, un lavoretto ce l’ho, però…»
«Ha un figlio o un parente meritevole di attenzioni particolari?»
«Mio cugino è bravo a giocare a calcetto, ma che c’entra?»
«Mi spiego meglio, ha qualcuno in famiglia portatore di handicap?»
«No, ma io son qui da solo!»
«Lei è portatore di handicap?»
«Beh, direi di no»
«È un invalido di guerra?»
«Ma che guerra?»
«Ha qualche parente che ha fatto la Resistenza?»
«Non lo so, e ridagli coi parenti!»
Queste e molte altre furono le domande rivolte a Elia, tutte ebbero una desolante risposta negativa.
«Signor Bianchi, le ho provate tutte, mi dispiace, ma sembra proprio che lei non rientri nei criteri di assegnazione. Lei ha tutto nella norma.»
«Ma, abbia pazienza… il mio amico, quello che mi ha detto di venire qui, ha avuto il bonus, eppure è nella mia stessa posizione.»
«Cosa vuole insinuare?»
«No, non è che voglio accusare, ci mancherebbe altro…Voglio solo capire.»
«Bene, allora mi dia il nome del suo amico, così vediamo.»
«Andrea Ternova»
«Ternova… Aspetti un attimo.»
Di nuovo il silenzio, di nuovo il ticchettio lento dei tasti. Ma a Elia, adesso, non sembrava tutto immobile: la tensione faceva fuggire il tempo, tanto che pure l’orologio rotto sembrava muoversi.
«Ternova… ecco qua! Ma certo che la domanda è stata accettata, è figlio di immigrato! Vede? Guardi alla voce qui, la numero trentatrè.»
«Sì, ma… non è giusto! Mica viene da una famiglia povera! E facciamo pure lo stesso lavoro, adesso! Abbiamo lo stesso stipendio!»
«Ma come fa a confrontare le due cose, scusi? Qui siamo nel mezzo di un percorso! È anche tramite questi incentivi che si favorisce l’integrazione, no? Lei non credo che abbia bisogno di essere integrato, eh, abbia pazienza.»
Elia si strofinò gli occhi chiusi con il pollice e con l’indice della mano sinistra, corrugando la fronte come nel tentativo di concentrare nella sua testa tutta la pazienza possibile immaginabile.
«Senta» disse poi, dopo qualche secondo di silenzio «per la verità c’è una categoria alla quale appartengo, anche se non è riportata tra quelle elencate.»
«Ah, beh, mi dica. Magari possiamo ricondurla a una di queste voci.»
«Non credo, perché, vede, io sono IL SIGNORE DEI DRAGHI!»
«Ma che ca…»
La signora non riuscì finire la frase, che un enorme getto di fuoco inondò la stanza incendiando tutto, lei compresa. La luce potente delle fiamme frantumò la polvere e il grigiore degli uffici. L’intero palazzo in breve tempo diventò un’enorme distesa di fuoco. Passanti e girovaghi che fuori facevano i fatti loro cominciarono a fuggire in maniera scomposta. Dagli appartamenti situati nelle vicinanze una miriade di curiosi si affacciò richiamata da quel mare infernale. Arrivarono i pompieri, tutti assistettero allo spettacolo: davanti agli occhi sbarrati di centinaia di persone, un enorme, vigoroso drago dalle squame vermiglie, fece capolino dalla sommità delle fiamme, sbattendo le sue larghissime ali e volando verso il cielo. Grida terrore sirene preghiere improvvisate. La grandezza dell’essere oscurò il sole, dando l’impressione della fine dei tempi. Sulla testa del poderoso drago, invisibile a tutti, cavalcioni come se fosse sopra a uno stallone, Elia era trionfante.
«Forza Pyrofilax, verso la prossima avventura!» gridò, prima di perdersi con lo squamoso compagno nell’immensità del cielo.
O almeno, questo Elia aveva immaginato nella sua testa, come soddisfacente vendetta contro quella donna e quegli uffici. In realtà, tutto si era chiuso con un “Grazie, scusi se le ho fatto perdere tempo, arrivederci”.
Scendendo le scale per uscire dall’edificio, cinto dal grigiore e dalla polvere, Elia si ricordò di dover passare a fare la spesa.