Recensione a
A. Bierce, Racconti fantastici di guerra
Edizioni di Theoria, Santarcangelo di Romagna (RN) 2018, pp. 217, €18.00.
Il libro racchiude, tra le sue 217 pagine, 25 racconti diversi, solitamente narrati in prima o terza persona dallo scrittore stesso, il quale per l’appunto si impersonifica, se non nel protagonista, in uno dei soldati che ricoprono un ruolo più o meno incisivo nella narrazione. L’intero libro si colloca nell’arco storico della guerra di secessione americana, tra il 1861 e il 1865, Guerra alla quale lo stesso scrittore prese parte nel ruolo di cartografo. La veridicità di questa affermazione è facilmente constatabile attraverso il libro. Egli infatti, per più volte, narra della discrepanza di ideologie tra i soldati federati, o nordisti, cioè coloro che volevano abolire la schiavitù, e i confederati, o sudisti, cioè coloro che volevano preservare la schiavitù. Lo fa ponendo un accento amaro, particolarmente tipico del suo registro linguistico, su questi ultimi, i quali si arenavano sulla sponda ideologica a lui opposta.
Tuttavia ci tengo a precisare che, a dispetto del titolo del libro, la guerra non ricopre un ruolo “esplicito”. Essa infatti si perde nell’ampiezza dello spettro di temi che caratterizzano il libro. La guerra, infatti, viene più volte lasciata in sottofondo, come a voler enfatizzare una crudele e surreale verità che si ridesterà nel finale del racconto, lasciando il lettore “comune” con quella sensazione di incredulità, quasi terrificante, e di cinismo, che si riscontra in tutto il libro. Per essere più preciso, nella mia lettura personale, la guerra si palesava nel finale sopratutto tramite le sue conseguenze materialistiche, come la morte, e nelle sue conseguenze psicologiche, come la nascita del sentimento che ti porta a compiere atti indicibili.
L’ultima constatazione sulla quale vorrei fermarmi prima di passare ai racconti è la ripetitività, forse voluta, della struttura delle storie narrate. Anche per un occhio inesperto come il mio, dopo una quarantina di pagine è apparso limpido che la narrazione sia sempre caratterizzata da una iniziale digressione “ambientale”, forse necessaria per rendere conscio il lettore di cosa stia leggendo, e da una ripetitiva digressione temporale, forse con lo scopo di sottolineare la relativa contemporaneità tra le storie e la vita dello scrittore. Successivamente si procede con una narrazione che svolge la funzione di preludio del finale, per rendere meglio l’idea: partiamo da un inizio pacato per poi passare a mano a mano alla scioccante crudeltà del finale, il quale non può essere compreso se non attraverso una lettura minuziosa della componente scritta e della componente psicologica.
Piccola premessa: Preferisco dilungarmi di più sulla trama dei racconti che ho preferito rispetto a quella dei racconti che non ho preferito. In questa seconda parte parlerò dei tre che ho meno gradito.
Parker Adderson, filosofo
Il racconto si articola tra spezzoni di dialoghi e digressioni. Il dialogo viene principalmente svolto da un generale di brigata e una spia nordista di nome Parker Adderson. Quest’ultimo tira le redine di un discorso incentrato sul significato della morte e della psiche umana, mentre il generale svolge il ruolo dell’ascoltatore attento. Tra i dialoghi sono intervallati, a ritmo cadenzato, digressioni sia ambientali, come potrebbe essere uno sguardo più accurato sul luogo dove si svolge il racconto, cioè l’interno di una tenda militare, sia di azione, come potrebbe essere la narrativa minuziosa della ribellione del filosofo, il quale si rifiuta di morire per fucilazione. Questa ribellione sfocia in un combattimento alla cieca sotto la tela della tenda, il cui supporto è stato reciso, e che terminerà con la morte di un soldato, nonché l’uscita di senno del filosofo.
Il racconto si concluderà, come già preannunciato, con la fucilazione del filosofo, il quale, in punto di non ritorno, riesce finalmente a capire la sostanza della morte, la stessa morte che aveva cosi tanto arzigogolato nei suoi discorsi filosofici.
Il motivo sostanziale per il quale non provo nessuna “attrazione” particolare verso questo racconto è la struttura. I dialoghi intervallati con delle digressioni, benché parlino di argomenti molto interessanti, non mi hanno ispirato particolarmente, forse avrei preferito un altro tipo di struttura. Per esempio, una introspezione personale causata dai sentimenti scaturiti dall’osservazione di una determinata scena cruenta. Infine ho trovato che la figura del generale sia un po’ troppo blanda e poco caratterizzata, rendendo il dialogo a senso unico e con un fine poco esplicito; fine che non sono stato in grado di analizzare correttamente a causa dello scarso interesse provocato dalla struttura del racconto.
Un figlio degli dei
Veniamo proiettati nella vicenda tramite una narrazione fuori dal tempo e dallo spazio. L’episodio si svolge in un campo di battaglia rurale, al di là e al di qua, in questo caso soltanto figuratamente, di una collina. Nell’aria aleggia soltanto tensione e terrore, entrambe provocate dalla mancanza di informazioni sulla ritirata nemica. Essi infatti potrebbero sgusciare fuori da qualsiasi antro e dar vita ad un inferno sceso in terra. In questo ampio spazio si erge la figura della collina, la fonte principale di tensione. Per ottenere informazioni sull’esercito nemico, infatti, era necessario scrutare oltre il suo vertice. Tuttavia quest’azione, tanto eroica quanto suicida, non vuole essere intrapresa da nessuno.
Qua subentra la figura dell’ufficiale, definito come l’apice della vanità umana, in sella ad un cavallo bianco gallopante, rivestito di una gualdrappa scarlatta, che comparve quasi dal nulla. Costui, dopo una breve chiaccherata con il comandate di brigata, si scaglia a tutta velocità verso la cima della collina, diventando in un millesimo di secondo un esempio da seguire per tutti i soldati. Dopo una scalata sconnessa della collina, il cuore impavido, a mezzo chilometro dalla cima, inverte la direzione. Aveva scorto il nemico.
Da dietro le colline si alzano delle cortine di fumo e su tutta la vallata s’irradia il fragore dei moschetti. L’ufficiale a cavallo si ritrova in mezzo ad un mare di piombo e, quando la polvere venne dispersa, si notò chiaramente la figura di quell’uomo, disarcionato dal suo fedele cavallo bianco, in piedi in mezzo al campo di battaglia, con in mano la spada, che è adesso rivolta verso l’armata alleata: stava rivolgendo il suo saluto alla morte e alla storia. Questo semplice gesto provocò un’euforia generale tra le fila alleate, le quali iniziarono ad avanzare forsennatamente, diretti verso il mare di uomini provenienti dalla cima della collina. Il racconto si conclude con una riflessione a cui non viene data risposta e che lascia intendere una sorta di critica indiretta per l’operato divino.
Il motivo sostanziale di un minor gradimento è distaccato dai temi presentati nel racconto. È ancora una volta la struttura, o per meglio dire, almeno in questo caso, l’utilizzo delle parole. L’intero racconto è un concentrato di digressioni che, il più delle volte, sono fini a se stesse. Tralasciando l’uso di alcuni vocaboli non propriamente consoni ai temi del libro, l’intero racconto è compromesso da narrazioni accurate che, dal mio punto di vista, sono fini a se stesse. Tuttavia devo ammettere che lo scrittore è stato particolarmente abile nell’amalgamare queste piccolezze con l’epicità tragica dell’ufficiale e del racconto.
Un bivacco di morti
Nella Virginia occidentale, nella contea di Pocahontas, si estende una piccola valle amena attraversata dalla biforcazione orientale del fiume Greenbrier. In questa valle, ben nascoste, vi è un numero eclatante di tombe di soldati confederati. Sulla maggior parte di questi sepolcri vi è la scritta “Ignoto”, e, come narra il libro, più volte ci si sofferma sull’espressione contradditoria di onorare la memoria di qualcuno, come in questo caso, di cui non è rimasto niente da onorare. La storia si sofferma in un primo luogo sullo stato di abbandono, e sulla poca visibilità, di questo cimitero, per poi passare, in un secondo tempo, ad una riflessione riguardante la scritta “Ignoto”. Infatti gli uomini che hanno contribuito a seppellire questi soldati del Sud sono quasi sicuramente vivi, e con il loro contributo si potrebbe sicuramente identificare alcune di quelle tombe. Tuttavia, come ci fa notare lo scrittore, alla domanda: c’è qualcuno, nel Nord o nel Sud, disposto ad accollarsi le spese necessarie per tributare a questi fratelli caduti l’onore di un sepolcro verde?… Segue soltanto il silenzio.
Un racconto completamente diverso dalla struttura degli altri racconti. Benché siano state di mio gradimento le riflessioni sulle conseguenze della guerra, non posso far a meno di notare questa variazione. Anche il finale non riporta più ad una sorta di stato scioccante, bensì preferisce terminare con una frase malinconica sul patriottismo, non di un paese, ma della compassione tra esseri umani. In sostanza l’unica critica “non critica” che rivolgo al racconto, oltre che alla durata temporale troppo ridotta, è la variazione dalla struttura fondamentale del libro. La crudeltà fatta lettura si chiama Ambrose Bierce.