Francesco Robustelli studia International Relations alla Luiss Guido Carli di Roma. Scrive principalmente di Sociologia.
Che cos’è il Maoismo: dalla Cina all’Europa
Tra le varie declinazioni del pensiero di Karl Marx, il maoismo è sicuramente una delle più particolari, eterodosse ed estreme. Come suggerisce il nome, essa si deve alle teorie del rivoluzionario cinese Mao Zedong. L’uomo, noto anche come “il Grande Timoniere”, guidò il Partito Comunista del suo Paese alla vittoria nella guerra civile contro i nazionalisti, per poi diventare presidente della nuova Repubblica Popolare fino alla sua morte, avvenuta nel 1976.
La sua filosofia era, se vogliamo, a due facce. Da un lato, infatti, essa era dichiaratamente ispirata a quella di Josif Stalin, suo modello di pensiero. Dall’altro, invece, il maoismo era pesantemente imbevuto di caratteristiche e idee specificamente cinesi. Forse anche a causa di questa connotazione nazionale così marcata, esso non si è, di fatto, mai diffuso al di fuori dalla Repubblica Popolare, con alcune limitate eccezioni. Se apriamo la Costituzione cinese, leggiamo che il proemio definisce la filosofia ufficiale dello Stato “marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong”. Sono, quindi, evidenti da un lato i riferimenti alla tradizione comunista classica e, dall’altro, le specificità apportate dal fondatore della Repubblica Popolare. In cosa consistono queste differenze?
Fondamentalmente, il pensiero di Mao ha due caratteristiche principali. La prima è l’importanza attribuita al ruolo dei contadini. Come ben sa chi conosce Marx, nell’ortodossia socialista il compito rivoluzionario più importante deve essere attribuito al proletariato urbano. Questo, infatti, è l’unico ad avere la coscienza di classe e, dunque, l’organizzazione necessaria per ribellarsi contro gli sfruttatori borghesi. Mao, al contrario, rovescia questa concezione: per lui, la rivolta dovrà partire dai contadini. Ciò, se vogliamo, era anche una necessità pratica: nell’arretrata Cina degli anni Trenta del Novecento, il proletariato industriale era numericamente inesistente rispetto alle centinaia di milioni di lavoratori agricoli che, però, in molti casi, erano ancora sottomessi a una condizione semi-feudale. Vincere il loro sostegno fu una delle mosse decisive, da parte di Mao, per assicurarsi prima la sopravvivenza del suo Partito e poi la vittoria nella successiva guerra civile contro i nazionalisti.
La seconda e più importante peculiarità del maoismo è la sua credenza, tipicamente cinese, nella capacità trasformativa della filosofia. Nella visione del rivoluzionario, le idee, unite alla forza di volontà dell’essere umano, avrebbero potuto ripulire la società da ogni male e portare alla scomparsa di quella che egli definiva, con disprezzo, “vecchia Cina”: arretratezza, patriarcato, superstizione. Questa concezione fu uno dei motivi principali della rottura con l’Unione Sovietica degli anni ’50 e ’60. Fino a quel momento, infatti, Mao aveva seguito pedissequamente i consigli e la guida del potente vicino per raggiungere il progresso sociale ed economico. In qualche caso, addirittura, i suoi tecnici avevano copiato in toto i piani sviluppati dall’URSS durante l’epoca stalinista. Quando, però, i primi risultati furono superiori alle aspettative, il Grande Timoniere si convinse di poter fare molto di meglio, e che l’arretratezza che ancora persisteva in Cina fosse dovuta alla troppa cautela imposta dai sovietici. Ecco perché, dopo aver allontanato tutti i loro consiglieri, Mao diede il là alla più ambiziosa campagna comunista mai tentata: il “Grande Balzo in Avanti”. Con obiettivi completamente irrealistici, quali quello di raggiungere il livello di industrializzazione degli Stati Uniti nel giro di vent’anni, essa fu un completo disastro: le stime più caute parlano di 18 milioni di morti, quelle più alte addirittura di 45.
Qualunque sia la verità, ciò non creava alcun tipo di problema al presidente Mao, teorizzatore di un uso pedissequo e sistematico della violenza per abbattere gli ultimi residui della società borghese. Famosa è la sua citazione secondo la quale «la rivoluzione non è un pranzo di gala […] non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra». Idee che sarebbero state messe alla prova qualche anno dopo, durante la Rivoluzione Culturale: una campagna che trasformò gli studenti del Paese in Guardie Rosse pronte a bersagliare chiunque venisse accusato di simpatie controrivoluzionarie. Durante la purga, Mao ebbe il modo di esprimere un altro aspetto saliente della sua filosofia: il rifiuto per ogni sapere che non avesse un risvolto eminentemente pratico e che non potesse servire alla causa della rivoluzione. Anche qui, le perdite di vite umane si contarono a milioni.
Ora, dopo aver analizzato questa ideologia così estrema, potremmo domandarci quanto essa sia stata capace di attecchire all’esterno del suo Paese di origine. La risposta più immediata ma efficace è: poco, quasi per nulla. L’unico movimento maoista capace di prendere il potere oltre a quello cinese fu, infatti, la fazione dei Khmer Rossi in Cambogia. Ciò nonostante, l’influenza di Mao non fu del tutto assente nemmeno in Occidente. Per capire perché, basta guardare al periodo della Rivoluzione Culturale: tardi anni ’60. Esattamente lo stesso momento in cui la nostra realtà era sconvolta dalle agitazioni sociali del ’68. In un contesto simile, non c’è da stupirsi che idee fondate sulla lotta al patriarcato, al conformismo e a tutto ciò che appariva vecchio e stagnante potessero avere un qualche successo. Esso, tuttavia, fu molto limitato: i partiti maoisti europei, che pure nacquero, non riuscirono mai a conseguire, alle elezioni cui parteciparono, più di qualche punto percentuale. Probabilmente, la filosofia cui si ispiravano era fin troppo lontana dal nostro mondo.