Francesco Robustelli studia International Relations alla Luiss Guido Carli di Roma. Scrive principalmente di Sociologia.

Di solito, come principale enunciazione della dottrina Breznev, si cita un discorso che l’allora segretario del partito comunista dell’Urss tenne il 12 novembre 1968 al V Congresso del partito operaio unificato polacco. In quella occasione, egli dichiarò che:

Quando forze interne ed esterne ostili al socialismo cercano di far deviare uno dei Paesi socialisti verso la restaurazione degli ordinamenti capitalisti, quando sorgono una minaccia per la causa del socialismo in quel Paese e per la sicurezza della comunità socialista nel suo complesso, ciò diventa non solo un problema del popolo di quel dato Paese bensì un problema comune … per tutti i Paesi socialisti.

È nota l’occasione che portò Breznev a pronunciare queste parole: la repressione della cosiddetta “Primavera di Praga”. Nel 1968 i tentativi di creare un “socialismo dal volto umano” da parte del nuovo segretario del partito comunista cecoslovacco, Alexander Dubcek, avevano provocato allarme tanto in Urss quanto nelle altre nazioni del blocco orientale. Dopo ripetuti tentativi di negoziazione che non portarono ad alcun risultato, tra il 20 e il 21 agosto 1968 la Cecoslovacchia venne invasa dalle truppe di Patto di Varsavia, mettendo bruscamente fine all’esperienza riformista.

Questa azione venne accolta da numerose critiche non solo, com’era da aspettarsi, nel mondo occidentale, ma anche nello stesso blocco socialista. Si trattava, in effetti, di una patente violazione della sovranità dello Stato cecoslovacco così come essa è solitamente intesa nel diritto internazionale. Il principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Paese vieta, infatti, qualsiasi intromissione esterna. Nel caso specifico, poi, le nazioni del Patto di Varsavia che invasero la Cecoslovacchia violarono anche il ben più importante obbligo di rispettare l’integrità territoriale degli altri Stati. Secondo buona parte della dottrina, esso fa parte del diritto internazionale inderogabile, tecnicamente chiamato ius cogens.

Dunque un atto così grave richiedeva giustificazioni convincenti. In realtà, esse erano già presenti in una lettera inviata il 15 luglio a Dubcek dai segretari degli altri partiti comunisti del Patto di Varsavia. Da un lato, essi dichiaravano di non voler né interferire in «quelle che sono, alla fine dei conti, questioni interne», né «violare il principio di rispetto dell’indipendenza e dell’uguaglianza nei rapporti tra Partiti comunisti e Stati socialisti». Dall’altro, tuttavia, avvertivano che la presenza di forze ostili che cercassero di far traviare la Cecoslovacchia dalla strada del socialismo era da considerarsi «una preoccupazione comune di tutti i Partiti comunisti e dei lavoratori», «affari comuni alle nostre nazioni».

Si tratta, evidentemente, di una concezione che deve molto al tipico internazionalismo della filosofia marxista-leninista. Essa fu poi meglio specificata in una serie di articoli e interventi sulla Pravda, l’organo di stampa ufficiale del partito comunista dell’Unione Sovietica. Il primo e più conosciuto venne pubblicato il 26 settembre da Sergej Kovalev. Intitolato Sovranità e gli obblighi internazionali dei Paesi socialisti, esso affermava risolutamente che, se si riteneva che le azioni del Patto di Varsavia avessero violato la sovranità cecoslovacca, era perché si guardava a questo concetto con un approccio astratto e aclassista. Nel mondo reale dell’epoca, argomenta l’autore, le nazioni sono divise tra Paesi imperialisti e socialisti. Dunque, l’eventuale defezione di uno di questi ultimi è un problema di tutto il mondo comunista. Inoltre, continua Kovalev, l’idea che una posizione non allineata salvaguardi la propria indipendenza nazionale è illusoria: abbandonare il socialismo, infatti, significa aprire la strada alle truppe della Nato.

È evidente, dunque, l’unione tra teoria e pratica che è, se vogliamo, una caratteristica costante di tutto il pensiero marxista. Tuttavia, se si analizza il ragionamento più attentamente, saltano facilmente all’occhio alcune contraddizioni. Su tutte, l’idea che questa logica serva a proteggere quella che Breznev, nel già citato discorso del 12 novembre, chiama «autodeterminazione socialista», ovvero

il diritto sovrano che essi [i Paesi socialisti] si sono guadagnati di assicurare prosperità per il loro popolo e benessere e felicità per le grandi classi lavoratrici attraverso la costruzione di una società libera da ogni oppressione e sfruttamento.

È, chiaramente, un’incoerenza: rinunciare alla propria autodeterminazione per salvaguardare… la propria autodeterminazione. Non è un caso, quindi, che, già cinquant’anni fa, Mitchell fosse portato a parlare di un’ideologia «non più sicura dei suoi ormeggi», «alla deriva negli ormai incerti mari della Storia». Del resto, la stessa idea brezneviana che questa dottrina servisse a tutelare «gli anelli deboli del socialismo» rivela un’insicurezza di fondo sulla tenuta del sistema comunista persino in un Paese, come la Cecoslovacchia, che fino a quel momento era stato costantemente lodato dai suoi alleati orientali per la sua stabilità. Basti pensare che, contrariamente a quanto avvenuto, ad esempio, in Ungheria dodici anni prima, a Praga nel 1968 non si era mai parlato di uscire dal Patto di Varsavia o di cambiare radicalmente politica estera. Il «socialismo dal volto umano» di Dubcek consisteva semplicemente in una serie di riforme quali maggiore libertà di stampa o più ampi spazi all’iniziativa privata. Che persino aperture così limitate potessero far preoccupare i dirigenti del mondo comunista dice molto sullo stato di debolezza in cui esso versava già vent’anni prima della sua caduta. La dottrina Breznev, conosciuta in Occidente come «della sovranità limitata», può essere allora intesa come un tentativo funzionale di giustificare il mantenimento del potere. Potere che, tuttavia, iniziava a scivolare già nel 1968, paradossalmente anche e soprattutto come conseguenza della rigidità dei capi comunisti a Mosca.

Fino ad allora, infatti, numerose frange intellettuali e studentesche, pur non amando – per usare un eufemismo – il comunismo, avevano creduto di riformarlo dall’interno. Dopo la reazione violenta ai loro tentativi di apertura in Cecoslovacchia, però, molti dissidenti si sarebbero convinti dell’impossibilità di cambiare il mondo socialista, volgendosi a cercare di abbatterlo definitivamente. Si può, dunque, dire, con un appropriato linguaggio marxista, che la dottrina Breznev sia rimasta vittima delle sue contraddizioni, contenendo già da sé i presupposti del suo superamento. Vent’anni dopo, sotto Gorbaciov, essa venne rimpiazzata da una politica di non ingerenza negli affari interni dei Paesi socialisti definita, scherzosamente, «dottrina Sinatra» dal titolo di uno dei brani più famosi del cantante italo-statunitense: «My Way», ovvero «a modo mio».

Bibliografia
Breznev, Leonid. “Discorso al quinto Congresso del Partito Unificato Operaio Polacco.” Varsavia, 12 novembre 1968 (testo it. http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/doc/xxiii/064v01t04_RS/00000017).
Glazer, Stephen G. “The Brezhnev Doctrine.” The International Lawyer 5.1  (1971): 169–179.
Kovalev, Sergej. “Sovranità e gli obblighi internazionali dei Paesi socialisti.” Pravda, 26 Settembre 1968 (testo ing. Survival: Global Politics and Strategy 10.11 (1968): 375-377).
Mitchell, R. Judson. “The Brezhnev Doctrine and Communist Ideology”. The Review of Politics 34.2 (1972): 190-209.
Rostow, Nicholas. “Law and the Use of Force by States: The Brezhnev Doctrine”. Yale Journal of International Law 7 (1981): 209-243.
Westad, Odd Arne. The Cold War: A World History. New York: Basic Books, 2017.
Valenta, Jiri. “The bureaucratic politics paradigm and the Soviet invasion of Czechoslovakia.” Political Science Quarterly 94.1 (1979): 55-76.

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