Francesco Robustelli studia International Relations alla Luiss Guido Carli di Roma. Scrive principalmente di Sociologia.

Il realismo politico nelle relazioni internazionali: da Tucidide ad oggi

Capita, alle volte, che una certa teoria o scuola di pensiero esista per secoli, a volte addirittura millenni, prima di essere sistematizzata o perfino definita con un nome. Le idee di pensatori vissuti in un lontano passato, una volta analizzate, dicono, talvolta, cose molto simili a quelle che si possono ritrovare negli scritti di studiosi molto più recenti.

Tra le varie dottrine a cui si potrebbe adattare questo discorso spicca sicuramente la scuola realista nella teoria delle relazioni internazionali. La sua idea di fondo è relativamente semplice: in un contesto di anarchia globale, l’unico modo in cui gli Stati possono garantirsi la sopravvivenza è applicando spietatamente la legge del più forte. Simili concezioni erano già stati espresse, ad esempio, da Tucidide, uno storiografo greco vissuto nel V secolo a.C. Nella sua opera più famosa, La guerra del Peloponneso, egli racconta il conflitto trentennale tra Sparta e la sua Atene per la supremazia sul mondo ellenico. A un certo punto della lotta, nel 416 a.C., gli Ateniesi si resero protagonisti di un crimine di guerra, attaccando l’isola di Melo, che si era proclamata neutrale, e sterminandone gli abitanti maschi quando questi rifiutarono di sottomettersi. L’episodio è catturato da Tucidide in un celebre dialogo de La guerra, dove egli fa pronunciare agli Ateniesi frasi che, da sole, sarebbero una sintesi perfetta della concezione realista delle relazioni internazionali: «si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe allo stesso modo su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano». Non è possibile, argomentano gli emissari ateniesi, risparmiare una comunità anche piccola come quella di Melo. Altrimenti gli altri sudditi del loro impero lo interpreterebbero come un segno di debolezza, col rischio di veder scoppiare rivolte contro la loro autorità.

Più di due millenni dopo tali idee sarebbero state sistematizzate da quella che, oggi, conosciamo appunto come scuola realista delle relazioni internazionali. Mentre Tucidide partiva da argomentazioni puramente filosofiche, pensatori come Hans Morgenthau introducono anche alcune premesse politologiche. In primis, essi affermano, l’attore principale della comunità internazionale è lo stato-nazione. In secondo luogo, lo Stato viene concepito come un’entità unitaria, che agisce in modo compatto per un solo obiettivo: il proprio interesse. Per raggiungere tale scopo, i decisori politici – ed è questa la terza e ultima premessa – si comportano sulla base di calcoli meramente razionalistici. Nel mondo dei rapporti tra Stati, non c’è spazio per le considerazioni morali.

Si tratta, come si vede, di una visione delle relazioni internazionali che si allontana da qualunque etica, anche da quella, molto particolare, introdotta nel XVI secolo da Niccolò Machiavelli. Il pensatore fiorentino, che pure potremmo definire retroattivamente come “realista”, aveva una concezione dei rapporti tra Stati che spesso è travisata. Per Machiavelli, il principe non deve essere privo di morale, come di solito si pensa. Piuttosto deve agire seguendo la morale particolare che regna nel mondo della politica. Tale sistema di valori, a differenza di altri, pone al primo posto non la lealtà e l’onore, bensì la sopravvivenza dello Stato e dei suoi sudditi. Ecco perché il principe deve essere, secondo una celebre metafora adottata da Machiavelli, “volpe e leone”, ovvero deve saper usare sia l’inganno sia la forza. Se così non facesse, commetterebbe un atto gravemente immorale (secondo i particolari parametri delle relazioni internazionali, come abbiamo già detto), ovvero mettere a repentaglio la sopravvivenza delle vite di cui, in quanto governatore, è responsabile.

Per quanto cinica, tale visione si basava comunque su principi filosofici ed etici, poi abbandonati, come abbiamo visto, con l’evoluzione del realismo nel corso dei secoli. Il punto di arrivo di questo percorso è, solitamente, considerato il neorealismo di Kenneth Waltz, formulato in un libro del 1979, intitolato Teoria della Politica Internazionale. La sua idea, anche chiamata “realismo strutturale”, fa un ulteriore passo in avanti rispetto a quella di Morgenthau. Per quanto avesse abbandonato l’impostazione filosofica di Machiavelli, infatti, essa continuava a motivare il comportamento degli Stati con una ragione astratta: la costanza della natura umana. Waltz, invece, pone alla base del suo ragionamento un fenomeno molto più concreto e tangibile: l’anarchia del sistema internazionale. La comunità degli Stati, infatti, non ha alcuna autorità regolatrice come sono gli Stati stessi nei confronti dei loro cittadini. Tale anarchia è così radicata che possiamo considerarla una vera e propria struttura (ecco perché parliamo di “realismo strutturale”). A tutto questo aggiungiamo una seconda premessa, ovvero il potere materiale di uno Stato. Anch’esso è facilmente misurabile attraverso indicatori oggettivi, che possono andare, ad esempio, dal suo Pil al numero di testate nucleari che possiede. Ebbene, secondo Waltz, grazie a questi due semplici punti di partenza – l’anarchia internazionale e il potere relativo di uno Stato – saremo in grado di prevedere l’andamento delle relazioni internazionali in modo quasi scientifico.

Un esempio? Un dualismo molto adottato nel mondo della teoria dei rapporti tra Stati è quello tra balancing e bandwagoning. Questi due concetti indicano, rispettivamente, il cercare di controbilanciare un rivale troppo forte o, al contrario, l’unirsi ad esso “saltando sul carro del vincitore”.  Quando una nazione diventa troppo potente e minaccia la sopravvivenza dei suoi vicini, questi potranno o formare un’alleanza per contrastarla oppure cercare di coalizzarsi con essa per sopravvivere. Ebbene, l’esperienza ci dice che il comportamento più diffuso è, generalmente, il primo: unire le forze contro una minaccia alla pace internazionale. Accodarsi, invece, è una cosa che avviene solo in rari casi. Uno dei più comuni è che lo Stato in questione sia una piccola potenza che confina con l’aggressore e che, quindi, corra il serio rischio, in caso di attacco, di venire cancellato prima che un alleato possa arrivare in suo aiuto. Ebbene, il fatto di essere “una piccola potenza” è facilmente misurabile attraverso parametri oggettivi. Se ci aggiungiamo le nostre ipotesi di base sulla natura anarchica del sistema internazionale e sulla tendenza degli Stati a fare sempre il proprio interesse, non è difficile prevedere come andrà a finire. Da questa semplicità, se vogliamo pessimistica, trae la sua forza il realismo.

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