Valentina Meliadò, giornalista e storica. Nel 2006 ha pubblicatoIl Manifesto dei 101. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, libro dedicato alla frattura tra partito comunista e intellettuali all'alba della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956; nel 2009, per la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, il saggio Ugo Spirito il rivoluzionario: dall'attualismo al comunismo, dedicato al viaggio intrapreso dal filosofo del problematicismo in Unione Sovietica nel 1956. Già redattrice della trasmissione radiofonica Rai Radioanch'io, e giornalista del quotidiano “Liberal”, collabora attualmente con il quotidiano “L’Opinione” e con la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”.

Recensione a
P. Battista, Libri al rogo. La cultura e la guerra all’intolleranza
La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 135, €8,00.

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Ci sono libri che vengono scritti perché sanno che c’è bisogno di loro. Libri al rogo. La cultura e la guerra all’intolleranza, di Pierluigi Battista, noto editorialista del “Corriere della Sera”, è uno di questi. Pubblicato soltanto pochi mesi prima che una furia iconoclasta senza precedenti si abbattesse sui simboli storici e culturali della civiltà occidentale, il testo è quasi un manifesto, un appello alla difesa della tolleranza e del pluralismo culturale tipico delle società occidentali contro l’oscurantismo della versione moderna dei roghi e dei falò, la censura. Una scure che la civiltà occidentale sta imponendo a se stessa ad un ritmo esponenziale proprio in nome di quei valori di libertà e di tolleranza che ritiene così di affermare e tutelare.

Il libro è ricco di esempi di macelleria censoria che va dai classici alle favole per bambini, spaziando per quadri ed opere d’arte ritenute in qualche modo offensive o retrograde, mentre altri capisaldi della produzione letteraria occidentale hanno subìto l’umiliazione di purghe e mutilazioni. Roba da bifolchi, verrebbe da pensare. E invece no.  «I libri vengono bruciati dai fanatici, non dagli ignoranti», spiega l’autore, e i fanatici sono gli abitanti di un mondo in bianco e nero cui spetta il compito di sostituire tale mondo malvagio con uno nuovo fatto tutto di bene, il mondo a venire, la cui costruzione non può che passare attraverso la precedente fase di distruzione di ciò che è stato ed è. Ma questo, come si vedrà, è uno dei presupposti filosofici di tutte le utopie e le dittature rivoluzionarie che sono alla base delle ideologie del XX secolo, che si fondano su una sorta di disconoscimento della stessa natura umana, ricchissima di sfumature e irriducibile agli estremi del Bene e del Male assoluti, o sull’attribuzione ad essa di prerogative che nella realtà non le appartengono. Ciò detto, il viaggio per comprendere il paradosso in cui può precipitare una intera civiltà in oggettiva crisi di identità, piacevolmente annichilita in una resa culturale che sbandiera come simbolo di tolleranza e affrancamento dalle proprie colpe storiche, è un esercizio intellettuale lungo e complesso cui il libro di Battista si offre da guida, aiutandoci innanzitutto a capire le ragioni per cui i roghi dei libri esercitano da sempre un fascino irresistibile, persino in un’epoca smaliziata e disincantata come questa, in cui si vive nella convinzione (di fatto errata) della piena libertà e possibilità di espressione, soprattutto grazie all’avvento dei social che hanno ampliato a dismisura il campo non solo delle opinioni, ma anche delle informazioni, delle notizie e della produzione culturale. Tutti ambiti sensibili alla manipolazione, alla superficialità e alla falsità, divenuti in breve tempo alla portata di tutti e campo di battaglia prediletto dei “colti”, i quali, con una buona dose di arbitrio, si sentono in diritto di giudicare gli “ignoranti”, bollati come sprezzanti e intolleranti. Peccato che il fanatismo, storicamente parlando, è una prerogativa dei colti – e degli intellettuali in particolare –, la cui compiacenza e soggezione è stata troppo spesso a servizio delle dittature più sanguinarie e biblioclaste della Storia, perché i libri vengono bruciati da coloro che ne conoscono e ne capiscono l’insita pericolosità: la diffusione della conoscenza e della libertà ad essa connessa, in tutte le sue forme: politica, religiosa, culturale e sessuale. Una vasta cultura non rende dunque migliori, ma consapevoli, e il censore se ne vuole fare custode esclusivo e filtro necessario con le masse in quanto convinto di essere depositario unico di un’unica Verità.

È questo il nocciolo del problema e Battista lo evidenzia molto bene. Lo è stato per la Chiesa cattolica, che pure, attraverso il lavoro di amanuensi e monaci incisori, ha permesso alle opere classiche di sopravvivere ed essere tramandate fino a noi. Un gesto tutt’altro che oscurantista compiuto da gerarchie ecclesiastiche tutt’altro che ignoranti, trasformatesi successivamente in spietati inquisitori a causa della rivoluzione provocata dalla invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg: quale livello di panico deve aver pervaso le gerarchie ecclesiastiche di fronte alla mutata realtà di masse di fedeli in grado di accedere ai libri sacri senza l’intermediazione degli uomini di Chiesa? La minaccia del disordine e del caos è un potente incentivo al rogo dei libri da parte di chi ritiene di dover preservare, attraverso l’appartenenza ad una cerchia di eletti, gerarchie e sistemi sociali considerati immutabili. E un trauma analogo ha indubbiamente travolto la società borghese, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, con l’industria culturale di massa e la nascita del romanzo moderno, che ha determinato un ampliamento sostanziale del numero di lettori, ma soprattutto di lettrici. La letteratura scatena l’immaginazione, mette ali alla fantasia, «destabilizza, crea insoddisfazione per la vita che si fa, vuole scardinare i ruoli sociali in cui ci si sente inchiodati senza scampo. È pericolosa». E dunque si trova sempre una buona ragione per bruciare i libri. In ogni epoca. Ma se i roghi del passato si presentano più come una forma di controllo sociale, di conservazione dello status quo, di battaglia contro l’eresia politica o religiosa, o come atto di conquista e sottomissione del nemico, quelli consumati nel XX secolo a molti di questi elementi associano una meticolosità distruttiva orientata a obiettivi specificamente ideologici: la costruzione dell’uomo nuovo e della società ideale.

È opinione diffusa che le dittature di stampo fascista e nazista, o comunque di destra, si siano distinte per ignoranza, barbarie, vandalismo, disprezzo e odio cieco verso i libri e la cultura in generale, ma non è la realtà. Né Hitler né Mussolini erano uomini ignoranti, tutt’altro. Amavano i libri e ne conoscevano la pericolosità, tanto che neanche l’archetipo dell’intolleranza, il gigantesco falò appiccato sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio 1933, fu una manifestazione di cieca brutalità culturale. Né la scelta dei libri da bruciare né le modalità del rogo furono casuali. Tutto era stato preparato con cura e con degli obiettivi precisi: la fidelizzazione del popolo tedesco al fanatismo razziale ariano, e la distruzione simbolica (prima che fisica) dei maggiori ostacoli al progetto di dominio nazista: primo fra tutti il mondo ebraico e la sua forte identità. Di fatto, la lezione gramsciana sul controllo della cultura e della società era stata ben compresa dalle dittature del ‘900, soprattutto da quelle comuniste, meno cerimoniose ma altrettanto efferate e imbattute, dal punto di vista numerico, nella distruzione fisica e culturale di opere e autori, il cui apice è stato raggiunto con la Rivoluzione culturale di Mao e l’ascesa al potere di Pol Pot; entrambi uomini avvezzi ai libri e alla cultura, essi indirizzarono il proprio furore ideologico su qualsiasi cosa o essere umano esulasse dal verbo del leader supremo. Si toccarono livelli di repressione che sfiorano il ridicolo, come lo sterminio di coloro che portavano gli occhiali, in Cina, mentre in Cambogia si arrivò ad abolire la carta e ad essere condannati a morte per il semplice possesso di una fotografia. Non si trattava dell’eliminazione fisica e simbolica di un nemico, ma di tutto ciò che era stato prima, della storia, della cultura, dell’arte, della musica, tutto. E degli esseri umani espressione di conoscenze e differenze che andavano azzerate per edificare il mondo nuovo. Ma il libro di Battista dedica ampio spazio anche a fanatismi più recenti, come l’integralismo islamista, composto da un insieme di odio verso l’Occidente laico e democratico e di rifiuto della modernità, per cui nel mondo islamico non è stato ancora risolto il problema della separazione dei poteri tra Stato e Chiesa, e forse per questo è più riconducibile ad un fanatismo politico-religioso di stampo conservativo, ma non per questo si può affermare che i suoi leader e promotori siano ignoranti.

L’autore ricorda, ad esempio, come anche Khomeini fosse un uomo colto, che aveva vissuto il suo esilio nella ricca e poliedrica Parigi, e forse proprio per questo, una volta conquistato il potere, la persecuzione verso i libri considerati blasfemi e lo stile di vita occidentale fu particolarmente feroce. Gli ultimi trent’anni di storia sono costellati di manifestazioni di tale ossessione contro ogni forma di libertà intellettuale: dalla fatwa di Khomeini del 1989 contro Salman Rushdie, autore de I versetti satanici, che ha condannato l’autore a doversi guardare le spalle per sempre ed è costata la vita al traduttore giapponese dell’opera, al parossismo raggiunto dai talebani, che nella loro furia distruttiva arrivarono, assicura Pierluigi Battista, ad impiccare i televisori, «simbolo della depravazione occidentale». Per non parlare del fanatismo sperimentato dentro i confini occidentali: la strage di “Charlie Hebdo” o l’uccisione del regista olandese Theo Van Gogh, in particolare, furono crimini perpetrati in nome dell’odio per la libera circolazione delle idee e della opinioni. Ma come ha reagito l’Occidente, così fiero dei suoi valori di rispetto e tolleranza, alle aggressioni a questi stessi valori?

Ha chinato la testa, sentenzia Battista, ha accettato la logica dei roghi, e i primi a distinguersi per servilismo, di nuovo, sono stati gli intellettuali, ancora una volta pronti a schierarsi dalla parte dei tiranni e dei censori, come hanno fatto tanti nomi eccellenti prima di loro. Solo che oggi lo si fa in nome dei principi liberali, invocati – ricorda l’autore, solo quando servono a difendere la libertà di espressione di chi ci è affine, mentre la scure della censura può tranquillamente cadere sul collo dei nostri nemici culturali, politici o religiosi.

Come reagire dunque al dilagare dei nuovi falò? Come fermare la furia che si è abbattuta sui simboli della civiltà occidentale, nel tentativo sempre più evidente di minarne l’identità e la storia giudicandola in base a criteri e sensibilità contemporanee, ma sempre in nome di nobili valori quali la giustizia e l’uguaglianza? È facile «ergersi a giudici del Tribunale del Bene» pensando che basti epurare il passato e la produzione culturale ad essa connessa da tutti gli elementi che offendono le sensibilità odierne, le quali, peraltro, sono piene di sfumature, di luci ed ombre, e non possono, al di là di una scontata aderenza alle ragioni dell’antirazzismo, essere condivise a livello globale. La crisi iconoclasta seguita all’omicidio di George Floyd è la prova del paradosso cui ho accennato: l’idea che attraverso l’autocensura, le purghe e la sottomissione alle sensibilità delle minoranze l’Occidente laverà le sue colpe storiche e potrà finalmente ergersi una nuova società tutta improntata al buono e al bello. Ma siamo davvero una società così marcia? O siamo la civiltà che, nell’arco dei secoli della sua burrascosa storia, tra orrori e meraviglie, ha codificato e garantito valori quali la libertà di espressione e la democrazia politica anche a coloro che hanno tifato per distruggere tali conquiste? Questi valori meritano o no di essere difesi da coloro che vorrebbero imporre la censura e la sorveglianza su ciò che diciamo o addirittura pensiamo?

Battista deve esserselo chiesto se ritiene che la più importante strategia difensiva consista nel «contrapporre al fanatismo dell’intolleranza un oltranzismo della tolleranza. Una difesa intransigente e testarda della libertà d’espressione, senza eccezioni», che includa anche la giungla del web, il cui merito è comunque quello di costituire una biblioteca illimitata; e per fare questo è necessario «che una società libera ostinatamente difenda la trincea di demarcazione che divide le parole dagli atti, le cose dette dalle cose fatte, i proclami dalle azioni». E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito che è presumibilmente uno degli obiettivi principali del libro. Stabilire il confine giuridico tra il pensiero e l’azione è difficilissimo, soprattutto oggi, perché la maggior parte dei pensieri e l’organizzazione di molte azioni passa dai social, da Facebook in particolare, che resta un soggetto privato ma detiene una sorta di monopolio della libertà di espressione e può esercitare arbitrariamente un livello di censura pericolosissimo. Accettare l’idea che le cose più nefande possano essere dette in tutta libertà è davvero difficile, ma alle menzogne degli intolleranti bisogna rispondere con gli argomenti, non con la censura. La questione è complessa, e come tutte le vicende umane non ci sono ricette preconfezionate, non ci sono verità assolute. C’è la necessità di un dibattito serrato, di un confronto anche duro, aspro, cattivo – per usare gli aggettivi citati nel libro – e di non essere indifferenti accettando tante deroghe alla libertà d’opinione. Non saranno né i nuovi censori né la magistratura a proteggerci dall’intolleranza o dalle fake news, ma una battaglia culturale senza tentennamenti e forse senza precedenti a favore delle più grandi conquiste occidentali, e il senso del libro di Battista è indubbiamente un preciso invito a non tirarsi indietro, prima che sia troppo tardi.

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