Valentina Meliadò, giornalista e storica. Nel 2006 ha pubblicato Il Manifesto dei 101. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, libro dedicato alla frattura tra partito comunista e intellettuali all'alba della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956; nel 2009, per la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, il saggio Ugo Spirito il rivoluzionario: dall'attualismo al comunismo, dedicato al viaggio intrapreso dal filosofo del problematicismo in Unione Sovietica nel 1956. Già redattrice della trasmissione radiofonica Rai Radioanch'io, e giornalista del quotidiano “Liberal”, collabora attualmente con il quotidiano “L’Opinione” e con la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”.

Occidente senza bandolo: scenari distopici reali

L’Occidente ha perso il bandolo della matassa. Non che la Storia tracci il suo cammino in modo lineare e sempre intelligibile, ma la sensazione è quella di una grave contrazione della capacità di lettura generale dei fenomeni, complice il progressivo abbandono del metodo critico e la riduzione del concetto stesso di cultura ad uno sterile e astratto nozionismo. Si sono ridotti, in sintesi, i più importanti ambiti della vita umana – dalla formazione personale all’espressione dei diritti civili – ad un puro esercizio di metodo, accantonando del tutto la sostanza. E lo si è fatto attuando una regressione scientifica del dibattito storico e culturale che ci ha riportati a livelli nettamente precedenti la caduta del muro di Berlino, sprecando così tre decenni di storia. Vediamo perché.

La pandemia di Covid-19 ha inesorabilmente portato al pettine tutti i nodi di una unificazione basata su una serie di trattati e procedure burocratiche, prive di qualcosa di più solido di una generale spinta ideale al processo europeo; è mancata sempre una definizione valoriale, un’idea condivisa delle fondamenta e delle ambizioni che dovevano scolpire la fisionomia di un grande progetto in cui tutti i cittadini europei potessero identificarsi, con la conseguenza che le consistenti limitazioni di sovranità e la compressione degli interessi nazionali sono stati percepiti come una vessazione ed una ingiustizia dai cittadini dei paesi economicamente più fragili. Basterebbe d’altronde ricordare che, quando il tentativo della ratifica di una Costituzione europea si scontrò con il rifiuto in particolare dei francesi (referendum del 2005), l’idea venne semplicemente accantonata, con la conseguenza che la UE è diventata sì un mercato unico a libera circolazione, ma senza anima e senza ampie vedute, e tutti i temi a rilevanza internazionale – dall’immigrazione alla politica estera – non hanno fatto che riprodurre le differenze dei singoli interessi e delle relative scelte.

Nessuno stupore, di conseguenza, rispetto alle divisioni e agli “egoismi” dei singoli paesi nel confronto e nella gestione della pandemia, che anzi ha avuto il merito, se così si può dire, di portare infine l’Europa a tentare una sintesi dal punto di vista del sostegno economico agli stati membri, e a porsi come soggetto unico per l’acquisizione e la distribuzione dei vaccini, questioni tuttavia rivelatrici di asimmetrie e ipocrisie oramai datate all’interno della UE, ed anche di carenze politiche e strutturali della burocrazia europea. Dal numero di dosi acquistate alle procedure di distribuzione; dalle presunte (ma probabili) pressioni francesi per avvantaggiare la parigina Sanofi (che ha dato poi forfait) alla tempistica delle autorizzazioni Ema, fino all’acquisto individuale da parte della Germania di ulteriori 30 milioni di dosi Pfizer Biontech, per non parlare della segretezza dei contratti stipulati con le società produttrici e della distribuzione a singhiozzo del vaccino stesso, è del tutto evidente che di fronte alle necessità esistenziali la facciata di una Europa solida e solidale è venuta meno, lasciando trasparire la realtà di una tenuta sociale e politica soltanto a livello nazionale, e solo nei paesi tradizionalmente e storicamente più coesi e consapevoli di se stessi, in cui anche le procedure democratiche e la prassi parlamentare non è stata sacrificata oltre i limiti fissati dalle relative costituzioni.

Un discorso a parte, in questo senso, merita l’Italia. Non ci sarebbe stato bisogno di ulteriori conferme per sapere che gli italiani barattano facilmente i propri diritti fondamentali con la promessa di soluzioni radicali all’emergenza del momento, attitudine questa che può essere considerata la vera eredità del fascismo, da una parte, e dell’egemonia culturale del Pci nel secondo dopoguerra, dall’altra. Il partito comunista italiano, infatti, ha sempre contrastato la formazione di una coscienza nazionale condivisa, estrapolando il fascismo dal suo contesto storico ed elevandolo a categoria metapolitica, ad epigone concettuale di ogni male, con il risultato di aver svuotato la parola stessa di ogni significato. Per questo agli italiani in fondo la figura del ducetto di turno piace, a patto che non gli si possano imputare simpatie fasciste, o meglio, a patto che non sia di destra, che viene associata inesorabilmente, in modo piuttosto arbitrario, al fascismo. Eppure il dibattito storico e culturale sul fascismo stesso, sulla seconda guerra mondiale, sulla Resistenza e persino sul comunismo, soprattutto grazie al lavoro di storici come Renzo De Felice e Francois Furet – e ad avvenimenti epocali come la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica –, aveva fatto passi da gigante sia a destra che a sinistra, ma la sensazione è che nel giro di poco tempo l’area socialista, orfana della casa madre e della sua ideologia, abbia scelto nuovi alleati e nuove prospettive, riconvertendo la vecchia equazione di fascismo come male assoluto in una scala ben più vasta, nella quale è finito per rientrare tutto ciò che è sgradito all’area progressista.

Ma come si è arrivati ad una simile regressione delle categorie e del giudizio politico? Da un lato, quantomeno in Italia, ha certamente pesato il percorso, tutt’altro che lineare, di affermazione di una destra cosiddetta “normale”, moderna e liberale; dall’altro è stato determinante il rifiuto categorico che questa avesse anche solo il diritto di esistere da parte della sinistra postcomunista, la quale, tuttavia, a livello internazionale è stata il vero soggetto della storia dopo la caduta dell’Unione Sovietica, e dunque la maggiore responsabile dell’affermazione della nuova ideologia universalista del terzo millennio, il globalismo.

Significa che nei primi anni Novanta la sinistra occidentale si è riposizionata, finendo per abbandonare anche l’interpretazione marxista del fascismo come forma di espressione del capitalismo, e agitandolo solo come manifestazione di ignoranza e brutalità. Forte di una solida egemonia culturale, ma sempre più orfana di una base proletaria e operaia, si è resa protagonista del processo di unificazione europea sancendo un connubio definitivo con il capitale finanziario e con la burocrazia amministrativa, determinando, però, nel tempo, un grave sbilanciamento democratico di cui forse non ci sarebbe oggi evidenza se nel frattempo le multinazionali high tech non avessero cambiato radicalmente le manifestazioni della vita civile. L’equilibrio politico delle democrazie liberali si è incrinato da quando le oligarchie dell’alta tecnologia si sono schierate di fatto con l’area cosiddetta progressista in tutto il mondo occidentale, veicolando, attraverso i parametri etici dei social network, le teorie politicamente corrette.

Nulla di male per delle compagnie private che esercitano il diritto di stabilire la propria policy, ma non si può negare che ciò minacci la fine della libertà d’opinione e della differenziazione politica e culturale se, come è, tali società costituiscono un gruppo molto ristretto il cui potere economico supera di gran lunga i bilanci di molti Stati, e le cui piattaforme hanno inglobato o sostituito le maggiori forme di comunicazione esistenti. La politica mondiale, dalle campagne elettorali alle crisi di governo, va in scena sui social, il che ha un impatto pratico sulla vita di milioni di persone; chi si oppone a determinate idee o esprime opinioni controcorrenti può subire una punizione molto più grave del dileggio o dell’attacco personale: la censura, l’oscurità digitale, la riduzione al silenzio con la sospensione del proprio profilo.

Sembrava fantascienza anche solo dirlo qualche mese fa, ora è una realtà sbattutaci in faccia da quanto accaduto dopo l’irruzione al Parlamento americano di alcuni sostenitori di Trump. I fatti sono noti, e seppure ancora poco chiari, è inutile tornarci sopra, se non per ribadire che la violenza in democrazia è inaccettabile, al punto che anche fosse vero che il risultato delle elezioni è stato determinato da brogli, il fatto di non essere riusciti a dimostrarlo nelle sedi opportune fa del broglio stesso un fatto mai accaduto, oppure un’azione magistralmente portata a termine. Non importa. In entrambi i casi, chi ha perso si deve arrendere. Male ha fatto dunque Donald Trump a soffiare sulla brace della rabbia e della delusione dei suoi sostenitori, ma questo non può esimerci da una serie di considerazioni. La censura, la negazione della parola e del diritto di esprimersi riservata dalle maggiori piattaforme social non solo all’ex presidente, ma a collaboratori, estimatori e semplici cittadini di area repubblicana e conservatrice – e non solo in Usa – è un obbrobrio che certifica il passaggio dal materialismo storico a quello tecnologico, costituisce un precedente inaudito, una ferita che corre lungo la schiena di tutto l’Occidente. Apre la strada per una sorta di governance del pensiero che sembra fare proseliti al di qua e al di là dell’Atlantico.

Se il mondo è globale, infatti, e la libertà di espressione su larga scala è arbitrio dei gestori e proprietari dei maggiori social network, a cui in linea di massima la grande stampa si allinea, la differenza politica e culturale è destinata ad assottigliarsi fino a scomparire. E infatti, come in una moderna dittatura del pensiero unico, l’avversario politico, le sue idee, il suo contesto sociale e persino privato diventano nemici da abbattere, cose cui non è dovuto né rispetto né considerazione, soggetti relativizzati ad oggetti che è lecito insultare, dileggiare, zittire. Ci sono milioni di persone che dopo la vittoria e la presidenza di Trump, quattro anni fa, sono state costantemente escluse e disprezzate dal pensiero dominante e dai suoi esponenti, ed oggi non sono sul piede di guerra per motivi antropologici, ma pratici e ideali. Stanchi di essere definiti ignoranti, bifolchi, populisti e razzisti, gli elettori e gli estimatori della presidenza Trump sono persone normalissime le cui attività economiche sono solitamente radicate nel territorio, a cui si sentono legati anche emotivamente e culturalmente con l’orgoglio delle proprie radici e della propria identità nazionale. Per anni si sono sentiti dire che il proprio modo di pensare e di sentire è abietto e ignorante, ma nessun altro si è speso in difesa della cultura occidentale e dei suoi simboli, vilipesi, imbrattati e abbattuti nell’ambito di manifestazioni anche molto violente e in piena pandemia; non si può spiegare a questa “massa incolta” che l’affezione alla propria storia ed alle proprie origini è un sentimento fascista (aggettivo – e sostantivo – sempre comodo nella sua accezione storicamente inesistente di male assoluto), quando l’impalcatura stessa della civiltà che ha inventato la democrazia e lo stato di diritto è costantemente minata e insultata.

È dunque piuttosto curioso ricorrere, come ha fatto Biden durante l’assalto a Capitol Hill, alle radici della democrazia americana, ai padri fondatori e a Lincoln in particolare, quando solo qualche giorno prima la statua dello stesso presidente che ha abolito la schiavitù dopo una sanguinosa guerra civile, è stata abbattuta con l’accusa di razzismo. E fa amaramente sorridere l’appello all’unità nazionale, pronunciato durante il discorso di insediamento, mentre si prepara l’impeachment per Trump e si continua a dipingere i suoi sostenitori come figli di un Dio minore. Non si può ridurre il concetto di democrazia ad un rito materiale, portando avanti nel contempo una sorta di persecuzione antropologica sulla base dell’appartenenza ad un nuovo gruppo sociale: i bifolchi, i populisti, i sovranisti.

Lo scenario in cui potremmo trovarci a vivere in un prossimo futuro è piuttosto inquietante: un mondo in cui novelli dittatori in maniche di camicia, senza mitra e mimetica ma con uno smartphone e una piattaforma social, dettano le linee guida delle idee e dei comportamenti socialmente accettati ad una massa di internauti schiavi della propria futilità, oppressa dai sensi di colpa per un passato che deve essere cancellato, finalmente immersa in una realtà priva di caratteri specifici, evanescente, malleabile, tenuta insieme da una vuota retorica su valori e obiettivi generici e generali. Ma è un’operazione impossibile senza la riduzione della storia ad un giudizio moralistico e del senso di identità ad una macchia indelebile. Nessuna ideologia universalista può imporsi senza spegnere la consapevolezza individuale, soprattutto quando questa si fa collettività. Sarebbe tuttavia un processo lento se il Covid-19 non avesse agito da acceleratore storico in modo impressionante, fungendo da detonatore per alcune delle enormità dette e scritte in questi mesi, come la teoria secondo cui la pandemia sarebbe figlia del capitalismo, o l’associazione della parola “proletario” agli assalitori del Parlamento americano. In una società liquida tutto fa brodo, e ai pesci che non intendono nuotarvi spetta una battaglia culturale durissima, all’interno di un’arena a loro ostile e dall’accesso potenzialmente riservato.

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