Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).
Il punto di partenza e ritorno resta sempre Platone
Di cosa parla il dialogo ΠΟΛΙΤΕΙΑ[1]? Se avesse ragione A.N. Whitehead e la sua osservazione sul fatto che «the safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato»[2], allora questo dialogo parlerebbe di un crinale vertiginoso. Affacciandovisi, scorgeremmo tutta la storia della filosofia che sarebbe venuta poi, giungeremmo all’oggi, Anno Domini 2020, e ci renderemmo conto che non ci siamo mai mossi: vertigini, appunto.
Sappiamo che Giamblico, uno dei massimi commentatori neoplatonici, non inserì questo dialogo nel suo canone; e fino a Proclo esso, chissà perché[3], non fu oggetto di molta premura. Fu recuperato alle soglie dell’Umanesimo, elevato agli altari da Marsilio Ficino – che era più platonico di Platone quanto si può essere più realisti del Re; e, da allora, il dialogo ha goduto di attenzioni pressoché costanti, letto, commentato, sezionato, interpretato e travisato, adorato e bistrattato. Esso ha compiuto il destino che il suo autore gli aveva attribuito: diventare necessario.
Il destino delle cose sta nella loro natura. E, se necessario, tale destino lo è perché qualcosa della loro natura è imprescindibilmente legato a qualcos’altro, sicché prima o poi si ritorna sempre ad esse. Nel nostro caso il dialogo platonico ha questo destino perché il tema di cui tratta è necessario a qualsiasi riflessione filosofica. Per arrivarci, dobbiamo seguire il ritmo della forma letteraria adottata dall’autore. Ora, il bello dei dialoghi, filosofici quanto ordinari, così come di quelli fatti al bar, è che partono da un punto e possono arrivare lontano rispetto a dove sono cominciati[4].
Platone, come di consueto nei panni di Socrate, prende le mosse dal tema della Giustizia. Che cos’è la Giustizia? Il maieuta non può rispondere immediatamente; deve assecondare i tempi ed i modi dei suoi interlocutori. Conviene quindi incominciare da un’esperienza che sia nota a tutti: la convivenza sociale – che politicamente si manifesta nella forma «stato». Si descrive poi come si formerebbe uno stato, e si invita ad immaginare quali dovrebbero essere le caratteristiche di uno stato perfetto. E si dice che, in esso, «ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell’organismo statale, quella per cui la natura l’abbia meglio dotato» (IV, 433, a). In precedenza Socrate aveva già fatto convenire i suoi interlocutori che queste attività si riducono a tre: quelle intellettuali, quelle belliche e quelle economiche[5]. Ebbene, in uno stato perfetto la Giustizia consisterebbe nell’«esplicare i propri compiti» (IV, 433, b), sì da garantire l’ordine statuale.
Ma ecco, più avanti, l’inversione prospettica che condizionerà le sorti dell’Occidente: «Perché nello stato essi [gli aspetti e i caratteri dello stato] non sono venuti che dall’individuo» (IV, 435, e). Tra lo stato e l’individuo è stabilito un rapporto diretto, analogico senz’altro, del tipo individuo↔stato, ma si direbbe quasi “carnale”, tanto le inclinazioni dell’individuo condizionano l’organismo sociale. L’incarnazione avviene nel mondo sensibile, ma è un prodotto dell’intelligibile in sé disincarnato, cioè l’anima (ψυχή). Tre, come tre erano le attività dello stato, sono le parti dell’anima: quella concupiscente, quella irascibile e quella razionale. E tre sono i compiti ai quali adempiono. «Giusto» sarà detto quell’uomo le cui parti dell’anima saranno disposte secondo l’ordine corretto. Un ordine in cui anzitutto «[…] all’elemento razionale, che è sapiente e vigila su tutta l’anima, non toccherà governare?» (IV, 441, e).
L’elemento razionale è l’intelletto, che è sguardo capace di penetrare e andare oltre le forme sensibili, per scorgere la Verità delle cose. Questo sguardo non annulla il mondo sensibile, ma, come suggerisce il celebre “mito della caverna” (VII, 515 – 517), ne rivela la realtà, che si articola secondo una gerarchia ontologica[6]. Il vertice di questa gerarchia è nientemeno che il Bene. Esso viene illustrato da Socrate, oramai rivelatosi Platone[7], con accenti lirici: «Ciò che nel mondo intelligibile il Bene è rispetto all’intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili. […] Dirai, credo, che agli oggetti visibili il sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur senza essere esso stesso generazione. […] Puoi dire dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal Bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l’esistenza e l’essenza, anche se il Bene non è l’essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza» (VI, 508, c).
Non siamo che al sesto dei dieci libri del ΠΟΛΙΤΕΙΑ. Eppure la sua necessità è già stata mostrata tutta intera. Cosa c’è, infatti, di più necessario della Verità? Ed ecco allora che, dalla vertiginosa distanza dei duemilaquattrocento anni che ci separano – che separano l’Occidente contemporaneo e noi epigoni di quel che resta della sua civiltà – dalla stesura di questo dialogo, oltre il crinale della nostra miopia intellettuale, delle nostre convulsioni ideologiche e dei nostri rantoli mondani, si profila ancora lo stesso orizzonte: quello della Verità, che sola importa, perché solo essa è.
Note:
[1] Uso il titolo originale greco ΠΟΛΙΤΕΙΑ e non quello derivato dal latino, Repubblica, in quanto quest’ultimo perde la polisemanticità del concetto espresso dal primo.
[2] A. N. Whitehead, Process and Reality, Free Press, New York 1979, p. 39.
[3] M. Vegetti (Un paradigma in cielo, Carocci, Roma 2018, p. 34) resta sul vago: forse per l’ampiezza del dialogo e, forse per la tematica prevalentemente politica, esso non fu al centro degli interessi dei platonici (sia pagani che cristiani) di età imperiale. Se la prima ipotesi mi pare un po’ debole, per la seconda bisognerebbe intenderci sul valore propriamente «politico» che gli si attribuisce. Se diamo a questo termine un significato “elettorale”, “partitico” et similia, allora per forza coi neoplatonici saremmo fuori rotta. Ma esiste anche una «politica» in un senso diverso, quello di “arte regia”, molto prossimo, quando non intersecantesi, con la metafisica. Fu probabilmente questa accezione della «politica» che spinse Proclo a dedicarsi al dialogo ΠΟΛΙΤΕΙΑ. Egli, infatti, non era esattamente un intellettuale engagé, decisamente più impegnato con la teurgia che con il battage politico (cfr. Proclo, 2004).
[4] La fenomenologia del dialogo è straordinaria nella sua ordinarietà. Sorprende sempre come dalle conversazioni, anche quelle apparentemente più banali, possano talvolta emergere spunti di riflessione che possono cambiare una vita, o una civiltà. E questo senza scomodare Leo Strauss e la sua “ermeneutica della reticenza” (Strauss, 1941).
[5] Si tratta di attività legate alla produzione economica in senso lato: dal contadino al commerciante passando per l’artigiano.
[6] «Che cosa credi che risponderebbe [il prigioniero della caverna liberato dalle sue catene], se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio?» (VII, 515, d) [corsivo mio]
[7] M. Vegetti, Introduzione a Platone, BUR, Milano 2007, pp. 39-42.