Simone Rapaccini (1975), docente di Filosofia e Storia, ha pubblicato in riviste di settore, on-line e tradizionali, studi che concernono in particolare la Filosofia politica. Gli argomenti trattati riguardano autori come Aristotele, Agostino, Machiavelli, John Stuart Mill, Leopardi e tematiche più generiche come il rapporto tra l’etica e la politica, la relazione tra la legge e la giustizia, il liberalismo contemporaneo, la coppia politica destra e sinistra. Recentemente ha pubblicato Fenomenologia di destra e sinistra(Solfanelli, Chieti 2025).
Il 4 dicembre 1975, esattamente cinquant’anni fa, moriva Hannah Arendt, filosofa e teorica della politica – fu lei stessa a definirsi con questo secondo appellativo. Tedesca di origini ebraiche, fuggita dalla persecuzione nazista, aveva sperimentato per quattordici anni la condizione di apolide, prima di ricevere la cittadinanza americana, un’esperienza che ritornerà nelle sue riflessioni, fino al momento in cui definirà il possesso della cittadinanza non come un diritto tra i tanti, ma come il diritto di possedere diritti. La sua privazione segna l’esclusione da una comunità politica, eppure non è elencato tra i diritti umani.
Vissuta per alcuni anni a Königsberg, dove risiedeva la famiglia della mamma, riferì di aver provato il «il bisogno di comprendere» proprio dopo la lettura di Kant, alla quale si dedicò all’età di 14 anni. Da quel momento sorse in lei l’interesse per la filosofia e di conseguenza per la scrittura, motivata – come ebbe a dire – sempre dalla medesima esigenza e non dalla volontà di influenzare in qualche modo i lettori. La scrittura sgorgava dalla sua penna in maniera naturale non appena la comprensione si faceva in lei più nitida e maturava il desiderio di condividerla per continuare insieme ad altri questo cammino.
A proposito di Kant, che rimarrà un punto di riferimento nel suo percorso di studi, ricordiamo l’originale interpretazione dell’autrice che, scavando tra le sue opere, ritenne di aver individuato i tasselli di una filosofia politica che Kant non ha mai scritto. Centrale a questo proposito è la lettura della Critica del giudizio, che «contiene forse l’aspetto più notevole e più originale della filosofia politica di Kant» (The crisis in education, 1958). Da questa lettura deriva la determinazione del giudizio come qualità politica, poiché la facoltà di giudicare è una «facoltà specificatamente politica». Infatti, quando si esercita il pensiero non è sufficiente essere d’accordo con se stessi, ma bisogna anche imparare a pensare dal punto di vista di qualcun altro, cosa che ella ravvede in ciò che Kant chiama «mentalità allargata». Il largo modo di pensare consiste nell’elevarsi al di sopra delle condizioni soggettive per riflettere da un punto di vista universale, che si può determinare soltanto quando si guarda il mondo secondo la prospettiva altrui. Anche se Kant non ne ha riconosciuto le implicazioni politiche – sostiene Arendt – è proprio la capacità di avere una mentalità allargata che rende gli uomini capaci di giudicare e quindi di orientarsi nello spazio pubblico e nel mondo comune. Nel tentativo di prendere in esame punti di vista diversi dal proprio, il giudizio richiama il senso comune – a cui Kant fa riferimento – come esperienza intersoggettiva e quindi politica. Estetica e politica hanno in comune il fatto di essere fenomeni del mondo pubblico. E il mondo comune, quello che si crea tra gli uomini quando entrano in contatto tra loro, è la politica. Il senso comune esprime l’apertura della nostra facoltà di giudizio al senso che condividiamo con gli altri, portandoci a considerare il modo in cui gli altri si rappresentano le cose. È «la facoltà del giudizio, che potremmo anche definire, con qualche ragione, la più politica delle capacità umane» (Il pensiero e le considerazioni morali, p. 163). Questa peculiare lettura è un invito ad aprirsi alla pluralità, necessaria al funzionamento del pensiero. Infatti, come l’autrice ripete più volte, esistono gli uomini al plurale, soggetti dell’agire politico e della storia, e non l’Uomo. Proprio la parte che stava dedicando al giudicare, l’ultima delle tre sezioni della sua Life of the Mind, è rimasta una pagina bianca, che il destino ha voluto non venisse mai scritta.
Tra le sue letture giovanili, oltre a Kant, vi fu anche Jaspers, che poi sarà il relatore della sua tesi sull’amore in Agostino e nei confronti del quale si espresse con parole di profondo apprezzamento: «dove Jaspers giunge e prende la parola, tutto diventa luminoso. Egli possiede una franchezza, una fiducia, una incondizionata capacità di parola che non ho conosciuto in nessun altro. Ciò ha avuto molta influenza su di me, quando ero molto giovane» (La lingua materna, p. 58). Prima ancora di Jaspers, conobbe Martin Heidegger, di cui seguì le lezioni, all’Università di Marburg. In diverse lettere Arendt gli riconoscerà un debito teorico per la composizione della sua opera politica più rilevante, The Human Condition (1958), in particolare per la distinzione, ivi ampiamente esplicata, tra lavorare, produrre e agire, le tre forme della vita activa. Il lavoro è legato allo sviluppo biologico dell’essere umano, il produrre trasforma il mondo in cui poniamo la nostra dimora e nel quale si costituisce quell’infra che rende possibile l’azione, l’atto tipicamente politico. L’azione – come si diceva per il pensiero – necessita della pluralità, che è la conditio sine qua non della forma politica, la più alta che l’uomo possa vivere. Nella pluralità gli esseri umani si riconoscono reciprocamente in quanto uguali e in quanto diversi. L’eguaglianza è la base della reciproca comprensione e della comunione d’intenti, la diversità, invece, è il motivo per cui il discorso e l’azione sono necessari per comprendersi. Abitare lo spazio pubblico è come nascere ad una seconda vita, che consente a tutti e a ciascuno di mostrarsi agli altri, di farsi conoscere e apprezzare. Siamo riconoscibili solo nell’infra del mondo, il prodotto di un amore, l’amor mundi, «un deserto che ha bisogno di iniziatori per dar vita al nuovo». Solo l’uomo è capace di dare vita ad un inizio, attraverso l’agire politico, e ogni azione politica è un atto di libertà. L’insegnamento di Hannah Arendt richiama a cercare la libertà nella politica e non al di fuori di essa e in sua opposizione oppure per difendersene. La libertà è l’altra faccia della politica nonostante l’esperienza totalitaria, anzi, Arendt lo ribadisce, proprio in risposta a quella orribile esperienza, che ha segnato prima la sua vita e poi la sua ricerca intellettuale.
La nostra filosofa, infatti, acquisì notorietà proprio in seguito al suo monumentale lavoro, The Origins of the Totalitarianism, pubblicato nel 1951, nel quale si era proposta l’obiettivo di capire come tutto questo fosse potuto accadere. La scrittura, in questo caso – ma come in ogni altra circostanza –, era l’occasione per inserirsi nello spazio pubblico, in quell’infra in cui far valere il proprio punto di vista, per contribuire alla costruzione di una visione collettiva e di un pensiero pubblico. Per prima cosa, con il totalitarismo bisogna aggiornare le categorie filosofiche della politica con un nuovo termine che rappresenta un fenomeno mai visto prima, una forma di governo apparsa all’orizzonte della storia soltanto nel secolo XX, che non può essere accostata né compresa facendo parallelismi con altre tipologie del passato, quali la dittatura, la tirannide o il dispotismo. Cercando di rintracciarne le radici, Arendt avverte che la vicenda storica dell’antisemitismo si interseca con quella dell’imperialismo, il quale ha utilizzato l’idea della superiorità di una razza sulle altre per farne la propria «arma ideologica»: il razzismo infatti «salì alla ribalta della politica attiva nel momento stesso in cui i popoli europei si organizzavano secondo i criteri dello stato-nazione» (Le origini del totalitarismo, pp. 224-225). Il razzismo fu utile all’imperialismo da un lato per giustificare che alcuni individui umani dovessero essere ritenuti inferiori, dall’altro per spiegare che il declino della civiltà si poteva scongiurare solo evitando una mescolanza che avrebbe fatto degenerare la razza. E questa pretesa, sottolineava Arendt, si scontrava con la concezione ebraica del popolo eletto, nella quale trovava una «seria rivale». L’ingrediente principale dell’abiezione totalitaria, il suo locus naturalis, fu comunque la società di massa, invero una società atomizzata, all’interno della quale gli individui vengono attratti dalla forza sobillatrice dell’ideologia che, con la pretesa di detenere le leggi della natura o della storia, induce a seguire un capo carismatico e a esaltarsi nel compiere una serie di pratiche rituali che uniscono e rendono partecipi di un destino collettivo. Il totalitarismo ha negato recisamente lo spazio pubblico, ma nonostante questo i regimi totalitari si sono giovati sino alla fine dell’appoggio popolare. È un aspetto da tenere in considerazione nel valutare questa particolare forma politica: mentre le tirannie tradizionali non cercano il consenso ma solo il rispetto e il timore dei sudditi (il celebre governo fondato sulla paura, di Montesquieu), i totalitarismi lo pretendono e se i dispotismi utilizzano il terrore contro i nemici, i totalitarismi ne fanno uno strumento per governare:
La differenza fondamentale tra le forme totalitarie e quelle tiranniche tradizionali è che il terrore non viene più usato principalmente come un mezzo per intimidire e liquidare gli avversari, ma come uno strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti. Il terrore moderno non aspetta, per colpire, la provocazione degli oppositori, e le sue vittime sono perfettamente innocenti anche dal punto di vista del persecutore (Le origini del totalitarismo, p. 8).
Lo stato del terrore è mantenuto costantemente attivo, contro gli oppositori per reprimerli, ma anche per gestire la massa sottomessa. Possiamo rilevare che in questo caso il terrore non è suscitato dal regime in sé, che cerca l’approvazione e l’adesione fattiva, ma si tratta di un artificio psicologico per tenere continuamente sotto controllo le menti obbedienti, trasferendo questo sentimento verso un presunto nemico che mette a repentaglio il destino collettivo o che sfida l’oggettività della narrazione ideologica. Il terrore è quindi indotto dalla prospettiva di un pericolo imminente e potenzialmente distruttivo.
Un altro episodio assai noto della vita intellettuale di Hannah Arendt è quello legato al processo celebrato a Gerusalemme nel 1961 contro il gerarca nazista Adolf Eichmann, che l’autrice seguì come reporter per un periodico e da cui trasse origine l’altra sua grande opera Eichmann in Jerusalem. L’eco che questo testo suscitò fu amplissima ed è stato detto che oggi non è possibile parlare di quell’evento senza citare e ricordare l’interpretazione che ella ne diede. L’imputato si era difeso asserendo di aver solamente eseguito degli ordini e che ciò lo metteva al riparo da ogni dubbio di carattere morale, anzi avrebbe avuto rimorsi di coscienza se non avesse obbedito a quanto lo Stato gli chiedeva. La spiegazione offerta da Arendt, o meglio la lezione che ella ne trasse, suscitò discussioni e polemiche. Eichmann, a suo dire, non era un criminale né un perverso né un sadico, ma semplicemente una persona con un difetto capitale: l’assenza di pensiero. Non era cioè in grado di rendersi conto del portato delle proprie azioni. Accecato dal senso del dovere e dalla venerazione del Füher, le cui disposizioni erano per lui legge, agiva senza pensare a quello che faceva e alle conseguenze morali del suo operato, senza rendersi conto delle possibili ripercussioni umane. Siamo di fronte alla «spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male». La regressione delle sue capacità mentali, l’impossibilità di giudicare con autonomia intellettuale quanto accade davanti ai propri occhi conduce all’automatismo cieco e questo è più grave della malvagità, che pure talvolta alberga nell’animo umano.
Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” […] per fredda determinazione. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. E se questo è “banale” e anche grottesco, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la situazione e il suo atteggiamento fossero comuni. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa è la lezione di Gerusalemme (La banalità del male, pp. 290-291).
Queste considerazioni, unitamente al severissimo giudizio espresso nei confronti di quei capi ebrei che, su incarico dei nazisti, compilavano le liste dei deportati, costò ad Arendt la perdita di molte amicizie e la sofferenza di sentirsi indebitamente attaccata come nemica degli ebrei e, in quanto ebrea, di se stessa. Sfogandosi con l’amica Mary McCarthy scriveva: «Com’è rischioso dire la verità sui fatti, senza fronzoli teorici e accademici». L’insegnamento che ne trasse è che il male può essere commesso banalmente da persone che non hanno mai deciso se essere buone o cattive. Per fare del male non è necessario compiere un’opzione etica a favore di un atteggiamento scorretto, ma è sufficiente essere persone “normali”, che agiscono in assenza di senso critico, seguendo il cliché di un presunto perbenismo esteriore o formale.
Proprio in seguito a queste polemiche mise mano ad un nuovo saggio Truth and politics, che inizia così: «Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra». Un tratto molto interessante e attuale di questo scritto è la denuncia del fatto che una della principali tecniche per negare la verità è affermare che essa sia solo un’opinione, il che può creare un mondo di fatti alternativi, che possono arrivare, come è successo, anche a riscrivere la storia. Sembra che queste parole siano state scritte oggi, descrivendo un pericolo particolarmente pressante in un’epoca in cui la proliferazione di informazioni può determinare senza difficoltà i processi politici, economici, sociali. Qualche anno dopo, l’autrice ebbe modo di esplicitare, con un fatto concreto di cronaca, quanto proponeva alla nostra attenzione. Si tratta di una conferenza tenuta nel 1971, che poi fu pubblicata con il titolo di Lying in politics, in cui faceva riferimento alla divulgazione dei documenti segreti noti come The Pentagon Papers. Parlando dell’uso politico della menzogna, l’autrice afferma che quanto emerge da queste carte non attiene alla semplice segretezza che a volte il potere si riserva per alcune operazioni delicate, ma vi si scorge la volontà conclamata di mentire. La questione, allora, è comprendere perché l’inganno sia così facile e nello stesso tempo appaia così attraente, ossia come si possa istituire un intero sistema sulla menzogna. La verità fattuale è fragile e in costante pericolo, perennemente minacciata da bugie singole o da falsità preparate ad arte da gruppi e organizzazioni. Essa può essere negata spudoratamente o distorta, la si può seppellire sotto una coltre di menzogne oppure può essere ignorata e lasciata cadere nell’oblio. Chi inganna gli altri, come nel caso degli esperti del Pentagono, lo fa con tecniche raffinate che costruiscono immagini di una realtà parallela, immagini che poi diventano criteri di riferimento. L’ingannatore inganna prima di tutto se stesso, convinto dalla «stupefacente sicurezza di sé» e del sicuro successo della sua manipolazione. Quando si divulga una falsità solitamente lo scopo è quello di nascondere la verità, ma con cancella la distinzione tra verità e menzogna. In questa situazione, invece, non è stata raccontata una deliberata bugia, ma è stata innalzata una realtà fittizia tale da far perdere la nozione stessa della distinzione tra vero e falso, anche mediante un gioco di luci e ombre che contribuiva ad oscurarne la percezione. Tale analisi risente chiaramente degli studi sul totalitarismo, il quale costruisce una realtà alternativa impastata di ideologia, e del timore che qualche aspetto si possa ripresentare anche in regimi non oppressivi come quelli conosciuti nel secolo scorso. Infatti, costruire un’immagine distorta della realtà è il modus operandi del totalitarismo, ma può essere utilizzata da chiunque per qualsiasi scopo.
Nel corso di questo mezzo secolo gli studi su Hannah Arendt si sono moltiplicati e la sua figura sta diventando un punto di riferimento tra i grandi del Novecento, per la sua capacità di combinare l’analisi acuta della realtà con l’abilità di intercettare questioni che per molti aspetti anticipano i tempi. Il suo carisma intellettuale ci invita a presenziare lo spazio pubblico, anche in momenti, come il nostro, in cui la democrazia sta attraversando una crisi di sfiducia, aprendoci alla comprensione dell’altro con «mentalità allargata» per individuare quel mondo comune che è il luogo in cui pensare insieme e agire politicamente. L’esigenza della verità, che ritorna più volte leggendo i suoi scritti, è un richiamo ad esercitare sempre l’autonomia di giudizio per districarsi in questo mondo attuale, che qualcuno ha descritto come un “regime dell’informazione”, per non fermarsi mai all’accettazione passiva di quelle «immagini fabbricate» che si sostituiscono all’oggettività dei fatti e respingono tutto ciò che ad esse non si adegua, ricorrendo non di rado all’ostracismo o alla contrapposizione manichea. L’anelito alla verità ci illumina inoltre nel difenderci da ogni possibile recrudescenza totalitaria, sempre possibile, in forme diverse e più subdole. Il pericolo totalitario è plausibile ogni qualvolta si paventi o si arrivi a sostenere che l’uomo è superfluo, ogni volta che si vuole comprimere la sua spontaneità sia di pensiero che di azione, riconducendo la sua esistenza alle norme di un’attività del tutto prevedibile. Infine, la lezione di Eichmann che «non capì mai che cosa stava facendo», perché era intrappolato nella spirale dei suoi stereotipi, annichilito dall’incapacità di pensare e di vedere le cose dal punto di vista delle sue vittime, ci richiama alla vigilanza costante per evitare, nella trama del vivere, la perdita di sé e del mondo, affinché non ci sfugga che un «governo della maggioranza […] può essere […] molto efficace nel soffocare il dissenso senza fare alcun ricorso alla violenza» (Sulla violenza, p. 44).
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