Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
L’attesissima pronuncia della corte Costituzionale sul “fine vita”, nella declinazione non dell’aiuto al suicidio (c.d. suicidio assistito) ma sulla sollevata questione della parziale illegittimità costituzionale dell’art. 579 del codice penale (“omicidio del consenziente”) ha deluso giuristi, operatori sanitari e in generale i cittadini più consapevoli della delicatezza etica delle questioni sottoposte alla Corte. Delusione qui significa elusione. La Corte infatti ha evitato di affrontare il cuore del problema, rinviando alla disciplina già vigente e a elementi fattuali quali la effettiva reperibilità/irreperibilità di dispositivi medici di somministrazione farmacologica, elementi importanti forse per il caso specifico, ma marginali per quel che concerne l’enunciazione di princìpi-guida. Ma entriamo brevemente nel dettaglio della sentenza della Corte Costituzionale n. 132 pubblicata il 25 luglio 2025.
Il Tribunale Civile di Firenze sollevava la questione della legittimità costituzionale dell’art. 579 c.p. Nel caso sottopostogli, il Tribunale rilevava infatti l’impossibilità fisica di una paziente, affetta da sclerosi multipla a decorso progressivo primario, di poter procedere all’autosomministrazione di farmaco letale. La paziente, aveva accertato il Tribunale, aveva già espresso una libera, medicalmente informata e consapevole scelta di porre termine alla propria vita; inoltre ricorrevano (perché accertati da struttura pubblica del servizio sanitario nazionale) i requisiti soggettivi e oggettivi ulteriori richiesti per il ricorso al suicidio assistito, e cioè una patologia irreversibile in corso, una grave sofferenza fisica o psicologica giudicata intollerabile, una dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. In base alla normativa vigente (legge 22 dicembre 2017 n. 219) e alle ulteriori indicazioni procedurali fornite dalla Corte Costituzionale (sentenza 22 novembre 2019 n. 242) la paziente avrebbe avuto dunque diritto di ricorrere al suicidio medicalmente assistito. Ma il punto è proprio qui: la dichiarata impossibilità di procedere autonomamente, pur con l’ausilio del personale sanitario, all’atto interruttivo della vita (la autosomministrazione del farmaco). E quindi la richiesta di un aiuto supplementare, cioè non più la sola collaborazione “ancillare” di un soggetto terzo, ma un suo ruolo attivo e primario nella somministrazione del farmaco al paziente o nella attuazione diretta di altre modalità di esecuzione della volontà del paziente di pervenire alla morte. In altri termini: l’omicidio del consenziente (reato punito dall’art. 579 c.p.) quale strumento, nella forma di somministrazione eteronoma del farmaco letale, per la realizzazione di un diritto al suicidio assistito di cui già ricorrano tutti i requisiti ma manchi al diretto interessato la capacità psico-fisica di tradurlo in atto.
È lecito l’intervento di un terzo (medico, ma non necessariamente) nella diretta esecuzione di un intento suicidario (elevato a rango di diritto) non altrimenti realizzabile? Una volontà individuale suicidaria che, per compiersi, deve passare – subendo una profonda mutazione giuridica – per una fattispecie di omicidio? Questa è la domanda alla quale la Corte Costituzionale avrebbe dovuto fornire una risposta decisiva e di immense implicazioni giuridiche ed etiche. Ma così non è stato.
La Corte infatti ha rilevato che nell’ordinanza il giudice rimettente aveva pur ammesso che l’autosomministrazione del farmaco per via orale fosse ancora teoricamente possibile, seppure rischiosa a causa di potenziali complicazioni in paziente disfagico (rischio di inefficacia e rischio di incremento di sofferenza); inoltre il giudice aveva frettolosamente dato per accertata l’impossibilità per l’azienda sanitaria locale di procurarsi «un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente che abbia perso l’uso degli arti». La Corte ha ritenuto non adeguatamente approfondita la questione della possibile reperibilità «di strumenti di autosomministrazione per persone con tetraparesi». In mancanza di idonea prova della effettiva irreperibilità, in atto o potenziale, di tale strumentistica presso l’Azienda sanitaria territoriale i giudici della Corte hanno ritenuto che non fosse stata dimostrata sino in fondo l’impossibilità in capo alla paziente di procedere con il suicidio medicalmente assistito. Quindi hanno ritenuto di non dover affrontare la diversa tematica della liceità o meno della commissione da parte di soggetti terzi dell’atto interruttivo di vita (id est: omicidio) di soggetto consenziente, dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 579 c.p. sollevate dal Tribunale di Firenze.
La Corte ha però anche concluso nel senso che il Servizio Sanitario Nazionale è gravato dell’obbligo giuridico di farsi parte attiva e solerte nel soddisfacimento del diritto del paziente terminale (ove ricorrano tutti i presupposti e requisiti di cui alla legge n. 219 del 2017 e alla sentenza Corte Cost. n. 242 del 2019) ad accedere al suicidio medicalmente assistito; tale collaborazione attiva «include il reperimento dei dispositivi [di autosomministrazione farmacologica] idonei, laddove esistenti, e l’ausilio del relativo impiego».
Dunque, viene da concludere, se fosse stata accertata in giudizio la effettiva irreperibilità del dispositivo o macchinario di autosomministrazione del farmaco letale la Corte avrebbe dovuto necessariamente entrare nel merito della questione cruciale e pronunciarsi sulla liceità o illiceità dell’omicidio del consenziente impossibilitato per disfunzioni pratiche ad accedere al suicidio medicalmente assistito. Conoscendo le inefficienze del Servizio Sanitario Nazionale e le oggettiva difficoltà di reperimento sul mercato dei costosi dispositivi di autosomministrazione farmacologica per pazienti affetti da sclerosi multipla progressiva, tutto fa ritenere che a breve la Corte sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 579 del codice penale.
Si è cercato con l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze di ampliare gli spazi di esecuzione del diritto al suicidio medicalmente assistito includendovi l’intervento attivo del terzo – non più collaboratore al suicidio altrui ma attore protagonista dell’atto commissivo sul consenziente – con ciò andando a scontrarsi con l’art. 579 c.p., cioè con una fattispecie oggettivamente diversa da quella rubricata sotto l’art. 580 («istigazione o aiuto al suicidio») e già fatta oggetto di una declaratoria di parziale illegittimità costituzionale. L’itinerario che si è cercato di percorrere, e che la Corte ha temporaneamente arrestato aggirando però la questione cruciale ed eludendo il merito, avrebbe dovuto condurre a un salto di qualità verso un più compiuto assetto eutanasico. La Corte stessa e il legislatore d’altronde hanno aperto all’eutanasia, pur con mille cautele e prescrizioni procedurali (le già richiamate legge 219 del 2017 e sentenza n. 242 del 2019, cui va aggiunta l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 207 del 2018); inoltre giace in parlamento il Disegno di legge n. 104 del 2022 (il c.d. ddl “Bazoli”), anch’esso contenente disposizioni procedurali atte a garantire l’esercizio del diritto al suicidio e quindi moventesi nell’ambito di un approccio eutanasico alla problematica del fine vita. Ma le discipline e le pronunzie giurisprudenziali richiamate si muovono ancora al di qua dell’omicidio del consenziente. Non si spingono a far evolvere la “collaborazione” del soggetto terzo al suicidio del paziente terminale sino a una sostituzione del paziente nella commissione del vero e proprio atto commissivo. Siamo sul delicatissimo crinale della differenza non solo giuridica ma anche etica e morale tra suicidio agevolato e omicidio realizzato su richiesta del malato terminale.
La Corte Costituzionale, con la più volte richiamata sentenza n. 242 del 2019 (che pure ha pienamente recepito nel nostro ordinamento e proceduralizzato il diritto al suicidio medicalmente assistito), ha ribadito che il diritto alla vita è bene primario e fondamentale e che non esiste un vero e proprio diritto a morire («dall’art. 2 Cost. discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello, diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire»). Questa nobile enunciazione di principio – a prescindere dalla contraddizione in cui ad avviso di molti interpreti la Corte è incorsa nella stessa sentenza del 2019 ammettendo il suicidio assistito – dovrebbe di per sé stessa salvaguardare la vita umana da eventuali legittimazioni di omicidio del consenziente e quindi mantenere intatta l’ampiezza della previsione dell’art. 579 c.p. e della tutela del bene giuridico tutelato dalla norma.
Tuttavia, si sa, il costume e la cultura diffusi incidono sul diritto e lo plasmano imprimendogli torsioni inaspettate. Nell’individualistica società post-moderna a elevata urbanizzazione, con accentuata prevalenza di famiglie monoparentali, i problemi logistici e i costi del fine vita ospedalizzato assumono sempre maggior rilievo. Un paziente terminale o un anziano solo e gravemente malato vengono percepiti come un costo sociale e uno scarto. Non si muore più (o si muore sempre meno) circondati dall’intimità degli affetti familiari. Si rifiuta inoltre la sofferenza intrinseca, in molti casi, nel naturale passaggio dalla vita alla morte. Il ricorso al suicidio medicalmente assistito sembra a molti la scelta più sbrigativa ed economica e logisticamente più razionale, per il paziente e per la società: una scelta utilitaristica prima ancora che di autodeterminazione. Cosicché la “cultura della morte” (per riprendere il magistero di Giovanni Paolo II, lettera enciclica Evangelium Vitae) nella quale egli è immerso predispone il paziente terminale o il malato grave alla scelta del suicidio. E il legislatore (o il giudice, o il servizio sanitario nazionale) si premura diligentemente di garantire l’effettività di questo diritto, magari anche a rischio di porre in ombra l’altro diritto, quello fondamentale alla vita e alle cure palliative nell’accompagnamento alla morte naturale.
La dilatazione del già consentito suicidio medicalmente assistito sino a includervi il sollecitato intervento attivo – omicida – di un soggetto terzo si tradurrebbe in un nuovo passo avanti verso la piena eutanasia. Con buona pace «del dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (Corte Cost., sentenza n. 242/2019).
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