Stefano Baruzzo (1960), laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.
Recensione a: N. Ben-Horin, Le relazioni tra Israele e Vaticano 1904-2005. Questioni teologiche e politiche, Panozzo Editore, Rimini 20222, pp. 327, € 18,00.
Il libro di Nathan Ben-Horin, oltre alla ricostruzione storiografica dei rapporti tra Vaticano e Israele fino al pontificato di Giovanni Paolo II, aggiunge il vantaggio della testimonianza diretta dell’autore, funzionario dell’ambasciata di Israele in Italia agli inizi degli anni Sessanta, in concomitanza con il Concilio Vaticano II, poi dal 1980 al 1985 ministro plenipotenziario della stessa ambasciata per i rapporti con la Santa Sede.
L’autore sottolinea sin dall’inizio la peculiarità dei rapporti tra le due parti: Israele è uno Stato “tradizionale”, non teocratico, ma con uno stretto legame identitario con la storia, la cultura e la religione del popolo ebraico; la Santa Sede è governo di un piccolo Stato, ma anche della Chiesa cattolica, una comunità di fedeli sparsi nel mondo e presenti anche nelle terre dello Stato di Israele. La Santa Sede ha sempre sostenuto il principio di distinzione tra le dimensioni politica e religiosa, ma i rapporti tra le due parti hanno spesso intrecciato questioni religiose e questioni politiche.
Questo intreccio apparve dal primo incontro del Vaticano con il sionismo. Nell’udienza che Pio X volle concedere a Theodor Herzl nel gennaio del 1904, il pontefice rifiutò risolutamente l’appoggio all’idea di una “casa” ebraica in Terra Santa, riaffermando «la dottrina cristiana antica nota come “teologia del rifiuto e della sostituzione”, secondo la quale Dio ha allontanato da sé il popolo ebraico, macchiatosi della crocifissione di Gesù, ovvero dell’orrendo crimine del deicidio» (p. 20).
La questione del “deicidio” condizionò l’atteggiamento vaticano verso il progetto di un’entità ebraica in Palestina per tutta la prima metà del Novecento. Ancora nel maggio del 1943, la Santa Sede ribadì alle potenze alleate, a favore delle quali volgeva la guerra, la ferma opposizione a un “focolare nazionale ebraico” in Terra Santa, che avrebbe offeso il sentimento dei cattolici (trasparente riferimento alla radicata accusa di “deicidio”). Nel settembre, anche il nunzio a Istanbul Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII che avvierà il superamento del “deicidio”, scriveva che giudicava una “mancanza di buon gusto” pretendere che la Santa Sede favorisse la ricostruzione del regno di Israele (pp. 24-25).
Sull’ostilità della Chiesa al progetto sionista non influiva solo la dottrina teologica. La Chiesa preconciliare era impegnata nella lotta alla modernità figlia dell’illuminismo, razionalista e scientista, che metteva in discussione il primato del sacro di cui essa era la custode. Il mondo ebraico era considerato portatore di molti “errori” della modernità, dal liberalismo al socialismo, sino al bolscevismo che contava non pochi capi e militanti di origine ebraica.
Ben-Horin individua tre momenti di svolta nelle relazioni tra ebrei e cristiani: la Shoah, la nascita dello Stato di Israele, il Concilio Vaticano II. La Shoah, avvenuta nell’Europa cristiana e già nota al Vaticano durante la guerra, aveva creato un momento internazionale favorevole al sogno sionista di una patria sicura per gli ebrei e aveva spinto massicce emigrazioni di ebrei europei verso la terra cui erano legati da storia e tradizione. La fine del mandato britannico portò all’adozione, da parte dell’ONU nel novembre del 1947, del piano di spartizione della Palestina tra ebrei e arabi. Il Vaticano rimase freddo verso questi piani, per la persistente diffidenza verso un’entità ebraica in Terra Santa, e non nascose la sua preferenza per uno Stato unitario arabo. La posizione vaticana era condizionata dalla dottrina teologica, ma rifletteva anche la preoccupazione che sarebbe rimasta centrale negli anni a venire: la tutela delle minoritarie comunità cattoliche medio-orientali, che garantivano la presenza della Chiesa nella regione, presenti anche tra gli arabi di Palestina. Il Vaticano è anche governo della Chiesa e assolve l’irrinunciabile funzione di protezione delle comunità cattoliche nei vari contesti in cui vivono. Sostenere apertamente o anche solo accettare l’idea di uno Stato ebraico avrebbe messo in difficoltà gli arabi cristiani isolandoli nelle comunità arabe, in cui peraltro erano integrati e delle quali condividevano le rivendicazioni. La preoccupazione per la loro posizione in contesti potenzialmente ostili rimase a condizionare il filo-arabismo vaticano sino ad oggi.
Influiva in quel momento anche la forte preoccupazione anticomunista della Chiesa di Pio XII. I rapporti con gli Stati arabi (nel 1947 furono istituiti rapporti diplomatici con Egitto e Libano) e quelli con il mondo mussulmano sembravano favorire un’alleanza con un mondo anch’esso ostile al materialismo comunista. Per contro, il Vaticano nutriva ancora diffidenza verso una creatura sionista dove prevalevano tendenze laiche e socialiste, per di più Israele ebbe inizialmente il sostegno, anche militare, di Urss e Cecoslovacchia. La diffidenza cambiò campo nel corso dei Cinquanta, quando la Santa Sede vide che il socialismo sionista non aveva nulla a che fare con quello burocratico e totalitario comunista e quando, dopo il colpo di stato che portò in Egitto al potere Nasser, crebbe l’influenza sovietica nella regione.
La proclamazione dello Stato di Israele nel maggio del 1948, ammesso all’ONU l’anno seguente, e il suo consolidamento dopo la vittoria nella guerra del 1948-49 con i paesi arabi, costrinsero il Vaticano a prendere atto della nuova realtà, evidenziando nel metodo un’altra costante della sua politica estera, il suo pragmatico realismo. Senza contestare apertamente lo “Stato degli ebrei”, la Santa Sede mantenne le distanze impugnando la questione dell’internazionalizzazione di Gerusalemme (Corpus Separatum previsto dalla risoluzione ONU del 1947), su parte della quale lo Stato ebraico aveva esteso il suo controllo. La questione rimase a lungo il pegno cui venne legata l’istituzione di relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele.
Il Concilio Vaticano II, indetto da Giovanni XXIII, svoltosi tra il 1962 e il 1965, adottò il 28 ottobre 1965 la dichiarazione Nostra Aetate che trattava dei rapporti tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, al paragrafo 4 quelli con l’ebraismo. Essa affermava che «gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. […] E se autorità ebraiche con i loro seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (testo del paragrafo 4 pp. 291-293).
La dichiarazione ebbe l’impulso di Giovanni XXIII, che aveva disposto che il Concilio affrontasse anche i rapporti con l’ebraismo. Fu adottata sotto Paolo VI dopo un iter travagliato del quale Ben-Horin dà un resoconto dettagliato. Nostra Aetate cancellò la millenaria accusa del deicidio, sgombrando il campo dal macigno teologico nel rapporto tra i due mondi, ma non toccò il tema del legame dell’ebraismo con la Terra di Israele (quindi il tema dello Stato ebraico).
Sulla svolta nei rapporti con il mondo ebraico credo tuttavia si debba ricordare anche la lunga ombra della Shoah. Il dibattito sul genocidio ebraico, riacceso dal processo Eichmann, esplose proprio negli anni del Concilio, innescato dal dramma teatrale Il Vicario di Rolf Hochhuth, un atto di accusa del “silenzio” di Pio XII sul genocidio che generò polemiche mediatiche sconfinate in scontri in diverse piazze europee. Montini, già stretto collaboratore di Pio XII, mostrò sulla questione un’inconsueta suscettibilità.
Appena sei mesi dopo l’elezione, Paolo VI si recò in Terra Santa, tra grandi aspettative presto deluse. Si definì pellegrino senza intenti politici, rimase in terra israeliana per poche ore senza menzionare Israele né la Shoah, ma pronunciando una vigorosa difesa di Pio XII. L’impressione di freddezza ricavata dagli ebrei fu scioccante, mentre il governo israeliano mantenne un aplomb diplomatico. Le aperture del Vaticano mostravano già i loro limiti e tensioni, che Nostra Aetate contribuirà a bilanciare.
La guerra dei Sei giorni portò al controllo israeliano dell’intera Gerusalemme e di territori destinati nel 1947 agli arabi di Palestina, ma fino al ‘67 occupati dagli Stati arabi (la Cisgiordania dalla Giordania e Gaza dall’Egitto). Il Vaticano prese atto della nuova realtà e prestò crescente attenzione alla questione mediorientale. Su Gerusalemme parlò meno di internazionalizzazione, ripiegando sulla richiesta di uno status speciale della città che assicurasse garanzie internazionali alle tre religioni della Terra Santa, accantonando pragmaticamente il progetto di Corpus Separatum e la questione della sovranità. I contatti con Israele si intensificarono, da informali divennero più istituzionali, culminando nell’incontro di Paolo VI con il primo ministro Golda Meir nel gennaio del 1973. Il motivo era ancora la tutela delle minoranze cristiane arabe in Palestina, con l’attenzione di non discriminare la maggioranza islamica.
Dall’altro lato, Ben-Horin richiama l’importanza crescente del Terzo Mondo nelle relazioni internazionali e all’interno della Chiesa, dove la questione palestinese veniva legata alle istanze terzomondiste e cresceva l’attenzione al problema dei profughi palestinesi. Inoltre, il dialogo interreligioso aperto da Nostra Aetate aveva incluso anche l’Islam. Esso era anche frutto di un mondo nuovo, dove la decolonizzazione aveva creato nuovi Stati, tra cui quelli arabi, il cui peso internazionale aumentò negli anni Settanta. Il dialogo interreligioso diveniva funzionale anche ai rapporti politici con paesi dove persistevano comunità cattoliche minoritarie, inserite in un contesto islamico predominante, privo di garanzie della libertà religiosa come quelle vigenti in Israele.
Infine, la crescita del nazionalismo palestinese trascinava il problema dal piano umanitario e religioso su quello politico. Nel dicembre del 1972, Paolo VI invocò un «equo riconoscimento» delle aspirazioni del popolo palestinese e dalla metà degli anni Settanta la Santa Sede avviò contatti con l’OLP, pur ribadendo costantemente la legittimità dello Stato di Israele. Emergeva un’altra costante della diplomazia vaticana: un’equidistanza basata sul riconoscimento dei diritti di entrambi i popoli, benché sbilanciata a favore dei palestinesi. Anche la condanna del terrorismo arabo era accompagnata dal richiamo alle sue motivazioni politiche, mentre le risposte israeliane erano tout court assimilate al terrorismo senza altre spiegazioni.
Ben-Horin richiama il contesto internazionale che assecondava questo sbilanciamento: la «crescente armonia tra le posizioni del Vaticano e quelle della Comunità Europea sul conflitto arabo-israeliano» e le «interazioni con la politica italiana» (pp. 96-97), approdata in quegli anni, ricordiamo, su posizioni filoarabe per ragioni strategiche e interessi energetici.
Il sostegno alla causa palestinese, le influenze terzomondiste, la questione di Gerusalemme, mantenevano un «sostanziale distacco» verso Israele e l’indisponibilità vaticana alla piena normalizzazione dei rapporti. Per questo traguardo occorse attendere un nuovo pontefice.
Ben-Horin evidenzia la sensibilità di Karol Wojtyla nei confronti della Shoah, esperienza che aveva conosciuto direttamente in Polonia. Giovanni Paolo II mantenne la linea di equidistanza, tra stop and go dovuti a eventi come la prima guerra del Libano nel 1982, il terrorismo arabo-palestinese, che colpì anche Roma con l’attentato alla sinagoga nello stesso anno, la prima Intifada nel 1987, la guerra del Golfo nel 1991, la questione irrisolta dello status di Gerusalemme. L’intreccio tra questioni religiose e politiche si ripresentò nel 1985 quando un documento vaticano integrò implicitamente la Nostra Aetate riconoscendo il legame religioso dell’ebraismo moderno con la Terra di Israele, la cui storia «non si conclude nel 70». Ben-Horin individua in esso «un ulteriore passo teologico verso la Stato di Israele» (pp. 145-146). Tuttavia, fu ancora una volta la nuova realtà internazionale a rilanciare la normalizzazione dei rapporti.
Il crollo dell’Unione Sovietica, l’espansione dei rapporti diplomatici israeliani, l’avvio dei negoziati di Oslo tra Israele e OLP, spinsero la Santa Sede a non isolarsi dai processi internazionali e dai negoziati di pace, dati gli interessi religiosi della presenza cattolica in Medio Oriente. L’accidentato percorso di normalizzazione raggiunse il traguardo nel dicembre del 1993 con la sigla dell’Accordo Fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele e l’istituzione di relazioni diplomatiche ufficiali. Nel 1994 l’accordo tra Vaticano e OLP — riconosciuta come interlocutore legittimo sulla questione palestinese — e accordi diplomatici con altri paesi arabi ribadivano l’equidistanza vaticana.
Gli ultimi capitoli del libro, relativi al pontificato di Giovanni Paolo II, assumono una dimensione più cronachistica che storiografica, a causa della limitata disponibilità di fonti documentarie al di là delle dichiarazioni pubbliche. Essi riflettono il rapporto di stima tra l’autore e il pontefice che aveva guidato il Vaticano a quella normalizzazione cercata da Israele e per la quale l’autore aveva a lungo lavorato. Il resoconto degli eventi, che alternano momenti di consolidamento delle relazioni a episodi di tensione e diffidenza, si avvale di ricordi personali e della conoscenza dell’articolata struttura di governo della Santa Sede. Esso riesce a trasmettere la sensibilità della delicatezza dei rapporti tra Israele e Vaticano e delle loro ricadute su quelli tra mondo cattolico e mondo ebraico, poiché le due parti rappresentano molto più di due Stati.
Le relazioni tra i due mondi sono una cristalleria, dove una parola nel posto o nel momento sbagliato, una dichiarazione più assertiva, talvolta anche un silenzio, possono creare acute tensioni. È con questa sensibilità che oggi il nuovo pontefice Leone XIV sembra chiamato a muoversi in una cristalleria dove il predecessore ha introdotto ben più di un elefante.
![]()
