Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio(Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

La stella cometa di Victor Serge splende nove anni prima della sua nascita, così afferma nelle sue memorie. Il 1° marzo (calendario giuliano) del 1881 a San Pietroburgo lo zar Alessandro II giace dilaniato da un attentato del partito “Volontà del Popolo”. Lo zar ha divulgato la legge che libera i servi della gleba, ha distribuito la terra a milioni di contadini. Quel giorno le campane della libertà avevano suonato a distesa. Questo non basta, non lo preserva dalle bombe. I giovani nihilisti preferiscono i detonatori ai libri. Nel complotto figura Sofia Perovskaia, figlia di un ex governatore di Pietroburgo. Condannata a morte non sarà impiccata, come i quattro uomini complici, perché incinta. Morirà in prigione. Sul luogo dell’assassinio sarà eretta la chiesa del Salvatore sul Sangue Versato. Alla ricorrenza il canale Griboedov, attiguo, si tinge di rosso. Di sicuro non miracolo, forse gioco di alghe.

Il padre di Victor faceva parte della Guardia Imperiale ma era per la terra e la libertà al popolo russo. La sua ribellione lo costringe a fuggire. Finisce a Verviers, in Belgio, dove nasce Victor. Poi la famiglia si sposta a Bruxelles.

Un’adolescenza irruente la sua, confessa Victor. Frequenta l’ambiente socialista, ma il quieto messianismo della compagine propensa a compromessi lo irrita. C’è una pletora di interessi che insudiciano il movimento operaio. Rompe con il partito e opta per ideali anarchici molto più risoluti contro lo stato.  Inoltre, mentre tutti chiudevano le porte ed erano guardiani dei beni, loro: «fa quello che vuoi, prendi quel che vuoi, metti quel che puoi». Clemenceau sparge sangue operaio a Draveil, i gendarmi uccidono scioperanti e altri alle esequie. Questi avvenimenti esasperano l’animo di Victor già trafitto dalla morte del fratello Raoul Albert per indigenza. La povertà della famiglia è radice della sua avversione per i possidenti. La poesia per lui e i compagni è preghiera, anche se usa grida rabbiose o indecenti: «In primavera c’è odore di merda e di lillà». L’individualismo libertario combatte la realtà meschina, quotidiana, una droga che li fa sentire vincenti. Naturalmente ci sono eccessi, una levatrice smette di curare le nascite perché è un delitto infliggere la vita a un essere umano.

Serge si sposta a Parigi intorno al 1908 e dirige “L’Anarchie”. Una rivista che non agogna società utopiche, invita soltanto alla ribellione. È contro il culto della carogna, cioè il vivere sociale con il dovuto asservimento. Voto, servizio militare, matrimonio ecc. Culto che però soddisfa milioni di esseri, è il loro traguardo auspicato, ricordiamolo. Professa anche l’amore libero, quindi la proprietà di sé. Tre anni dopo nel 1911 a qualche redattore e simpatizzante le parole scritte non bastano più, seguono Jules Bonnot. Il suo delirio: bisogna colpire la borghesia in quello che ama di più, il denaro. Nasce la Banda Bonnot. Rubano automobili di grossa cilindrata e rapinano le banche, con sparatorie e morti. I denari sottratti anche se odiati non vengono distrutti ma ripartiti. Le scorribande durano un paio di anni, sino a quando nel dicembre del 1912 Jules Bonnot viene ucciso in un conflitto a fuoco. Si era nascosto in casa di un amico e nell’assalto della gendarmeria trova la sua fine. Nel successivo processo ai complici, veri o supposti, vengono incriminati anche Serge e la sua donna, Rirette Maitrejean. Si rifiutano di collaborare con gli inquirenti e Victor si becca 5 anni di prigione, Rirette assolta malgrado il possesso di due revolver Browning. Per lui lavoro forzato in tipografia e identifica il carcere come una fabbrica di invertiti, matti, cinici malavitosi. Scoppia la guerra e dalle celle si sentono il canto della Marsigliese e le grida: “A Berlino!”.

 Nel 1917 è a Barcellona, scrive in “Tierra y Libertad”. Discute con i pessimisti: «La rivoluzione non serve, dopo c’è la reazione», dicono. Li contesta: «Siete la degenerazione di tutto, della borghesia, dell’operaismo, dell’anarchismo». Cerca altri compagni al barrio chino, nei suoi vicoli. Qui si controllano le armi per la prossima rivolta. Lo sciopero generale e l’insurrezione catalana ottengono solo la giornata lavorativa di otto ore, gli aderenti speravano di più. Il promotore Salvador Segui, il ragazzo dello zucchero, due anni dopo verrà assassinato. Diventerà il personaggio Dario di Serge.

Il deserto di neve riempie i suoi occhi, Victor Serge nell’aprile del 1919 è a Pietrogrado. La situazione è caotica. Sono due anni che Kerensky è dovuto fuggire per il colpo di Stato dei bolscevichi. Lo ha fatto vestito da donna, d’altronde la sua guardia era formata da un battaglione femminile detto della morte. Le poverette sono state catturate, violentate e uccise. L’ultimo baluardo militare di Kerensky  è stato  sconfitto a Pulkovo nell’ottobre. Con il trattato di Brest-Litovsk del 1918 la Russia è uscita dalla prima guerra mondiale ammettendo la sconfitta. Il 17 luglio dello stesso anno a Ekaterinburg comprano in drogheria 80 kg. di acido solforico per dissolvere i cadaveri dello Zar Nicola II e della famiglia, non devono rimanere reliquie. Jurovsky e le guardie che hanno compiuto l’eccidio credono di cancellare il passato. Non è così. Il passato, magari deturpato dalla sepoltura, riemerge sempre. Negli anni a seguire è stato un crescendo di violenze seppure per instaurare il nuovo ordine. Lenin sta creando il socialismo, i contadini gridano abbasso Lenin! Le guardie rosse presidiano le fabbriche, i commissari del popolo percepiscono 500 rubli al mese, come gli operai. Razioni minime di pane nero e pesce secco sono distribuite al popolo affamato. Il pane è composto di paglia e tritello d’avena, i negozi sono vuoti.

Serge sceglie i bolscevichi perché sono quelli che fanno, anche se Gor’kij gli confida che sono ubriachi di autorità. Sta rincominciando un dispotismo sanguinoso, ma sono soli nel caos. Per strada Esenin canta i suoi poemi.

Il 21 ottobre Trotsky salva la città sbaragliando l’armata bianca comandata dal generale Judenic. Lo chiamano il padre della vittoria, ha 40 anni. C’è un americano dell’età di Victor che come lui si agita, entrambi cannibali della storia di quei giorni. Si chiama John Reed, nel film Warren Beatty.   Il fato dileggia il loro entusiasmo tessendo un amaro futuro. È generoso a suo modo con Reed, lo toglie di mezzo molto presto con il tifo. E dalle mura del Cremlino sotto le quali è stato tumulato non potrà vedere la lotta per il potere, l’ascesa di Iosif Stalin, i processi apostatici. Serge prende a lavorare negli archivi dell’Ochrana, la polizia segreta degli zar, a individuare agenti provocatori. Negli anni 22 e 23 è in missione a Berlino e a Vienna, rientra in Russia alla morte di Lenin.

Serge è sconvolto dagli eccessi della Ceka, la polizia segreta. Gli omicidi, le sparizioni di menscevichi, generali, poeti. Chiunque si ritenga un oppositore e non solo. I tecnici stranieri per sabotaggio. Esenin scrive una poesia con il sangue e si impicca… aiutato da volenterosi agenti della Ghepeù subentrata nel 1925 alla Ceka. Sottocapitoli delle memorie di Serge: La provocazione poliziesca e lo strangolamento dell’opposizione. Capitolazioni delle coscienze. Nell’aria torrida all’ombra dei tigli compare Woland, il diavolo di Bulgakov, ma nulla cambia. Incombe, svolazza ma il sarcasmo e l’ironia nulla possono contro la feroce repressione del georgiano. Serge riconosce che il germe dello stalinismo, l’autoritarismo, fosse già presente nel bolscevismo. Ma aggiunge che il bolscevismo conteneva molti altri germi. «Non si può giudicare l’uomo vivo (la rivoluzione dell’inizio) dai germi che l’autopsia rivela sul suo corpo morto», spiega.

Si avvicina a Trotsky che ritiene il giusto erede di Lenin. Ne segue il dramma personale ed è convinto che Trotsky abbia rinunciato a prendere il potere perché avrebbe dovuto appoggiarsi alla sua Armata Rossa rischiando una dittatura. Trotsky sorprende per la fragilità, malgrado i proclami sembra che qualcosa dentro di lui sia morto. Come accade realmente ai suoi sostenitori ad opera dell’avversario Stalin. Forse comprende che l’assalto al cielo è fallito.

Serge è deluso, si rifugia nella letteratura che per lui  deve essere sociale e storica. Lo scrittore un intellettuale impegnato, anticipa così il famoso engagement sartriano. Sembra prendersela con la malinconia amorosa di Zivago, che ancora deve sgorgare. I suoi libri sono censurati, innumerevoli gli scritti dispersi. Un suo pamphlet pubblicato in Francia segna la sua condanna. Viene arrestato e deportato in Siberia, siamo nel 1933. Per fortuna la notizia arriva in Francia e gli scrittori, insieme alla sua compagna d’un tempo, Rirette, montano “l’affaire Victor Serge”.

Al congresso degli scrittori del 1935, a Reims, la delegazione russa è accolta dalle grida dei presenti a favore di Victor. Gli scrittori russi dicono di “ignorare” tutto di Victor Serge. André Gide, André Malraux chiedono chiarimenti, Salvemini si esprime contro le oppressioni e lo cita. Romain Rolland ne parla direttamente con Stalin e gli estorce la promessa che Serge sarà libero di partire.

Infatti nel 1936 è espulso e nel 1940 da Marsiglia riesce a riparare in Messico. Si salva per poco dalle truppe naziste. A Città del Messico, a Coyoacan, hanno picconato il Vecchio, Lev Trotsky. La rivoluzione come una vorace mantide ha divorato tutti i suoi artefici. Victor Serge trascorre lì in miseria pochi anni, scrivendo. Il diario di Serge è quasi un parlato per il ritmo, una appassionata memoria vivida come una fiamma. Gli argomenti si inseguono, si attorcigliano, quello nuovo toglie il respiro a quello del prima. Ha momenti di sconforto ripete: «Ho scorto subito nella rivoluzione russa i germi di mali profondi come l’intolleranza e l’inclinazione a perseguitare i dissidenti». E allora? Assolve tutti in maniera confusa: «Le masse avevano ricevuto dal dispotismo un’educazione troppo funesta». Ma da chi? Lo Zar o Lenin?

Victor Serge è un cavaliere appiedato dalla storia. I suoi mulini a vento sono il canale Mar Bianco Mar Baltico e le altre faraoniche opere edificate dagli schiavi dei gulag. Sull’altare un socialismo che non esiste. I piani quinquellani, la forzata industrializzazione nella folle rincorsa ad emulare l’Occidente.

Victor Serge per la sua morte che avviene nel 1947 ha due opzioni. Una lo mostra in un taxi colpito da infarto, l’altra prevede l’avvelenamento, come è accaduto ai Gor’kij, padre e figlio, e diversi altri. Noi scegliamo questa, la seconda, dovuta ai lunghi artigli di Stalin, ci sembra la giusta decorazione alla sua vita tumultuosa. E che dire dei pifferai del bene che combinano immani disastri? Possiamo affidarci alla perfidia di Lautréamont: «Spesso si fa del bene solo per poter fare impunemente del male».

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