Raimondo Fabbri (1978) è Dottorando di Ricerca in Scienze Giuridiche e Politiche presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Coordinatore Desk Infrastrutture del Centro Studi Geopolitica.info. Autore per il mensile OpinioJuris e per la rivista Il Pensiero Storico.Ultime pubblicazioni: Pnrr e dibattito pubblico. Prospettive di applicazione per uno strumento di democrazia deliberativa,in Rivista Giuridica del Mezzogiorno n.1/2022 a. XXXVI pp. 99-113, (ISSN 1120-9542); Il mare come la terra: le Zone Economiche Esclusive come nuove frontiere nel Mediterraneo, M. Durante (a cura di) in Al di là dei confini. Ripensare il paradigma della frontiera in una prospettiva interculturale, pp.224-247, in Quaderni di OCSM 1/2022, (ISBN 978-88-3121-629-6); L’esperimento di Dalmine. Lo sciopero produttivo alla Franchi Gregorini del 1919in Progressus n.2/2020 pp.27-43, (ISSN 2532-7186)
Recensione a: L. Mencacci, Dirty politics. Diffamazione e disinformazione nelle campagne presidenziali americane, Rubbettino, Soveria Mannelli 2024, pp. 246, € 18,00.
Coloro che pensassero ai toni accesi e agli insulti come elementi caratteristici delle ultime campagne elettorali per la conquista della Casa Bianca, potrebbero meravigliarsi leggendo il pregevole saggio di Luca Mencacci, autore di una storia delle elezioni presidenziali statunitensi, in cui la chiave di lettura utilizzata è proprio quella che vede nelle campagne denigratorie, una consuetudine dei concorrenti per mettere in cattiva luce gli avversari agli occhi dell’elettore.
Solo una volta abbiamo avuto elezioni rispettabili e il vincitore è stato George Washington […]. Ma già a partire dalla successiva tutti si erano tolti i guanti da gentiluomini e avevano incominciato a riempire i secchi di catrame (p. 11).
Le parole del premio Pulitzer, Jack Anderson, in un suo celebre articolo del 1976 dal titolo emblematico The Dirtiest Campaign Tricks in History indicano con precisione quanto diffamazione e disinformazione abbiano rappresentato la cifra del dibattito fra i candidati alla presidenza, in uno stillicidio di astuzie impiegate per il raggiungimento dell’obiettivo tanto ambito. Che i colpi bassi non sarebbero mancati, lo si poté intuire già al principio, allorché fu necessario trovare il sostituto di George Washington, il leader carismatico, l’eroe nazionale per eccellenza, alla cui candidatura nessuno avrebbe potuto muovere critiche o montare un’opposizione. Washington poteva vantare infatti sia l’esperienza militare di chi aveva servito come comandante in capo dell’esercito continentale durante la rivoluzione e quella politica di chi aveva presieduto i lavori della Convenzione costituzionale del 1787 a Filadelfia.
Chiaramente non avrebbe dovuto fare alcuna campagna elettorale. Non ne aveva certo bisogno. La sua statura morale era ancora immutata, quanto inavvicinabile e comunque non si addiceva, per la cultura politica dell’epoca, che un candidato si impegnasse in prima persona in una attività così volgare come la questua dei voti elettorali (pp. 18-19).
A dispetto delle signorili narrazioni e dell’eleganza formale di quelli che allora più che partiti politici organizzati in maniera strutturata erano dei comitati elettorali, un ambiente che l’autore non esita a definire infido e paludoso, un personaggio politico del calibro di Thomas Jefferson, nella campagna del 1800, giunse addirittura ad assumere un commediografo per attaccare i suoi avversari. Del resto, lo stesso Jefferson si rese protagonista anche di un altro episodio in cui l’uso a fini politici delle scappatelle amorose di un politico famoso, provocò la rovina di Alexander Hamilton. Per uno dei padri costituenti che era stato segretario al Tesoro con Washington, che aveva unificato il debito pubblico dell’Unione e dei singoli stati e creato la Banca federale, fu fatale la relazione con Maria Reynolds. Ben prima di Bill Clinton, come nota Mencacci, Hamilton dovette rinunciare alla candidatura a presidente per una liaison che lo costrinse addirittura alla pubblicazione di un libello, The Reynolds Pamphlet, in cui decise di dimostrare la propria completa innocenza verso quanti avevano osato mettere in dubbio che al di là dei suoi sentimenti verso una moglie infelice, egli avesse fatto uso di denaro pubblico per pagare il silenzio del marito tradito.
Fu proprio il suo narcisistico quanto il suo mal celato senso di superiorità che finì per tradirlo. Venne certo scagionato dalle accuse di aver commesso degli illeciti legati ai suoi incarichi pubblici, ma quello che mise nero su bianco lo avrebbe perseguitato per sempre in ogni discussione privata. La descrizione dell’incontro con quella giovane ragazza, smarrita e in preda alla condotta violenta del marito, divenne ben presto la storia preferita nelle allegre serate dei salotti dell’epoca (pp. 35-36).
Nella disamina delle campagne elettorali per la corsa alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America presenti nel libro di Mencacci, merita di essere citata anche la contestata elezione del 1824 in cui fra i quattro pretendenti alla poltrona presidenziale, John Quincy Adams, politico e diplomatico di lungo corso e figlio di quel John che fu il secondo presidente americano, Henry Clay, statista conservatore tra i futuri fondatori del partito Whig, considerato il principale partito predecessore dei Repubblicani moderni, e William Harris Crawford, già Segretario alla Guerra e del Tesoro sotto il presidente James Monroe, si inserì la candidatura del generale Andrew Jackson. Eroe della guerra contro gli inglesi del 1815, un vero e proprio outsider poco allineato al clima politico diffusosi durante i due mandati di James Monroe (1817-1825), definita come “l’era dei buoni sentimenti”. Jackson, infatti, era un miliare tutto d’un pezzo, nel 1806 aveva ucciso in duello un certo Charles Dickinson che, su un giornale locale, lo aveva definito «farabutto da niente». Era ammantato da un carisma invidiabile ma non aveva alcuna esperienza politica, né a livello di incarichi né tantomeno di capacità relazionali. Il risultato delle urne vide prevalere Andrew Jackson, con circa 151 mila voti popolari e 99 elettorali. John Quincy Adams, si classificò secondo e a seguire si classificarono William Crawford e quindi Henry Clay. Dopo lo spoglio dei voti, nessun candidato aveva ricevuto la maggioranza necessaria dei voti elettorali. Allora il collegio elettorale era composto da 261 membri e per vincere erano necessari 131 voti. Il risultato sarebbe stato rimesso ad una elezione contingente della Camera dei Rappresentanti. Dei quattro candidati al ballottaggio, però, solo i primi tre classificati vennero ammessi all’elezione contingente del 9 febbraio 1825 e la candidatura di Henry Clay venne così accantonata. Non potendo contare sulle solide relazioni politiche degli avversari e soprattutto a causa del suo temperamento che lo aveva trasformato per la stampa in una sorta di Napoleone americano, Old Hickory, Vecchio Albero di Noce, come veniva chiamato Jackson, dovette soccombere nell’arena del voto alla Camera, in cui Clay, seppur rimasto fuori dalla corsa, aveva fatto pesare la sua influenza a favore di Quincy Adams in cambio di un tornaconto politico. Lo sconfitto gridò al complotto (dovrebbe suonare qualcosa di famigliare nel lettore) per il risultato delle urne stravolto e la volontà popolare tradita da quello che il generale aveva definito come il frutto di un corrupt bargain, un accordo sottobanco. Questa retorica gli permise quattro anni dopo di prendersi una sonora rivincita nelle elezioni, da tutti i commentatori additate come una delle più sporche e aggressive della storia americana. Tra l’altro Andrew Jackson fu anche il primo protagonista di un fallito attentato alla sua vita nel 1835:
Il suo attentatore, Richard Lawrence si era nascosto dietro a un pilastro sul portico orientale del Campidoglio, dove Jackson sarebbe dovuto necessariamente passare. Non appena vide il presidente, Lawrence cercò di sparargli con una pistola, ma questa fece cilecca. Cercò allora di fare un altro tentativo con una seconda pistola, ma anche quella non funzionò. Nel frattempo, Jackson, che si era reso conto del pericolo, si era avventato su di lui e lo aveva affrontato con il suo bastone da passeggio, colpendolo ripetutamente (p. 69).
Mencacci ha anche il merito di considerare nel suo volume il ruolo della stampa e dei media nelle campagne diffamatorie e nella disinformazione. Sotto questo aspetto invece di attenuare le tendenze alla polarizzazione e al diluvio di invettive che hanno riguardato le campagne presidenziali, i mezzi di informazione hanno nella maggior parte dei casi prestato la propria cassa di risonanza, anche perché allettati dalla possibilità di affossare la candidatura dell’avversario politico di turno e, corollario non certo secondario, dall’evidente ritorno economico dell’aumento della tiratura come dell’audience. In questo senso la narrazione diacronica dell’autore, oltreché ricostruire la trama normativa delle campagne elettorali, indaga l’evoluzione delle strategie di comunicazione che ne hanno determinato l’esito, mettendone in luce le modalità di funzionamento e le malizie più spregiudicate. La questione legata alle tecniche di persuasione torna nel libro allorquando si analizza la campagna del 1952: in quell’occasione Eisenhower, il vincitore repubblicano, si avvalse del famoso slogan “I like Ike” dimostrando in tal modo che anche la politica stava subendo il fascino della pubblicità e che i candidati erano diventati molto simili ai detersivi, ai prodotti di consumo.
In quegli anni, precisamente nel 1957, usciva un libro molto importante, I persuasori occulti di Vance Packard, citato opportunamente dall’autore per comprendere l’importanza delle manipolazioni psicologiche usate dai pubblicitari nell’indurre i consumatori a comprare i diversi prodotti, poi prontamente riprese dagli spin doctor, una nuova categoria di professionisti che avrebbero cambiato per sempre il rapporto tra candidati e cittadini. Il protagonismo di questa pletora di comunicatori si è concretizzato vieppiù nella capacità di spingere gli elettori al voto verso determinati candidati grazie ad una costruzione simbolica in grado di coinvolgere e attrarre il maggior numero di persone, sostituendo de facto, la relazione dialogica. Seduttori che agendo sul linguaggio e sull’immaginario collettivo hanno acquisto una fondamentale importanza, accompagnando la politica nel suo processo di evoluzione (o involuzione?). Nella sua indagine sulla lunga ed incompleta lista di calunnie e sporchi trucchi, inganni e manipolazioni attuate per raggiungere la presidenza, il libro non intende mettere in dubbio il profilo etico dei presidenti che via via si sono seduti dietro la scrivania dello Studio Ovale, né tantomeno il prestigio di un’istituzione, che comunque la si possa pensare, rappresenta un punto di riferimento simbolico della novità democratica offerta dagli Stati Uniti d’America al mondo.
Piuttosto, in un contesto elettorale nel quale lo scontro fra personalità ha finito con il superare ed esautorare il dibattitto sulle politiche pubbliche, l’aneddotica diviene un utile strumento per comprendere la teoria e le dinamiche politiche di un paese come gli USA in cui, ricorda correttamente l’Autore in un capitolo, le modalità di elezione del presidente sono rimaste pressoché invariate sin dagli albori, allorquando uno sconfortato George Washington si sfogava con Alexander Hamilton, insultando i giornalisti e definendoli infamous scribblers. Ben 220 anni prima di Donald Trump.