Federico Leonardi (1973) ha svolto attività di ricerca e insegnamento a Milano, Firenze e Londra ed è docente ordinario di Filosofia e Storia nei Licei. Oltre a vari saggi in italiano e in inglese, ha scritto le seguenti monografie: Tragedia e Storia (Aracne, 2014); World History (con Luca Maggioni; Rubbettino, 2015), Aristotele: sapere storico e scienza politica, saggio introduttivo ad Aristotele, Scritti politici (Rubbettino, 2020), prima edizione italiana integrale degli scritti politici dello Stagirita, di cui è anche il curatore; Nel cuore dell'Eurasia. Storia di Russia e Ucraina (Aracne, 2022); Le pietre di Roma(Ensemble, 2024). Collabora con RAI Cultura-Filosofia.

Quel che segue è il resoconto di alcune interviste realizzate in Iran. Le interviste sono state decine, ne riportiamo soltanto alcune. Tutte le testimonianze riportate sono trascrizioni di quei colloqui, di cui, per comprensibili motivi di sicurezza, abbiamo omesso nomi, cognomi e luoghi.

In Iran nessuno teme davvero lo scoppio di una guerra contro Israele. Qui tutto è calmo, ovviamente ascoltiamo quanto e più di voi le minacce di guerra, ma non gli diamo credito alcuno, sappiamo che sono menzogne. Ogni anno da dieci anni mio padre fa le scorte, perché si aspetta una guerra con Israele. Che, regolarmente, non avviene mai. È una guerra che può interessare Israele ma non l’Iran. Anzi, non più l’Iran.

La Rivoluzione del ’79, origine del regime attuale, aveva lo scopo di riportare giustizia sociale in una sistema dove la ricchezza ricadeva nelle mani di pochi e la sovranità nazionale in un Paese fantoccio nelle mani degli USA, sui quali pendeva l’accusa di usare Israele per le proprie manovre neo-colonialiste nel Medio Oriente.

La guerra contro Israele era questione di sostanza e di immagine, poiché liberarsi di Israele significava porre le basi per un Iran più libero e forte e di un Medio Oriente capace di rompere il giogo americano. E poi era questione di immagine e prestigio, dato che un suo eventuale successo avrebbe garantito un risorgimento di tutti i popoli islamici.

Tuttavia, oggi realizzare quelle promesse è impossibile. La stragrande maggioranza dei governi arabi ha accettato la presenza americana, per cui le popolazioni nutrono ancora odio profondo. Ma non qui in Iran: la maggior parte di noi non è né anti-americana né è anti-sionista. Anzi, noi siamo favorevoli al diritto di esistere di Israele, laddove il nostro governo continua, invece, a proclamarne l’eliminazione. È una minoranza agguerrita che veramente vuole la guerra

Com’è stato possibile che il 7 ottobre 2023 Israele, dotato dei servizi segreti più organizzati al mondo, non sapesse del piano di Hamas? Mesi dopo gli stessi servizi segreti sono riusciti a colpire Haniyeh proprio a Teheran, quando era sotto protezione iraniana, e tutti i capi di Hezbollah, forza militare nata e prosperata grazie all’Iran.

La risposta iraniana è consistita in una pioggia di missili, ma annunciata da tempo, sicché la contraerea israeliana l’ha sventata integralmente. A sua volta, la risposta israeliana è già annunciata da tempo, così l’Iran potrà sventarla. Se non ci riuscirà, saranno colpiti siti industriali e militari, senza provocare morto alcuno. Perciò, la vita qui procede come al solito, in Iran nessuno davvero teme lo scoppio di una guerra.

Nella mia mente son ben presenti, come in quella di molti occidentali, le parate oceaniche contro Israele, che contrastano con il quadro che mi va tratteggiando. Non posso negare che mi sarei aspettato, dato un regime così ideologico, una selva di immagini sui cartelloni o sui muri, che, invece, sono poche e sparute.

Non è difficile per un regime riempire qualche piazza. Qualche scenario grandioso può fare effetto ma non rappresenta un Paese, è teatro, non la realtà: infatti, si può stipare le piazze di persone e bandiere, ma qualche centinaio di migliaia di individui non può essere indicativo per una nazione che ne conta quasi novanta milioni.

Abbiamo l’occasione di dialogare con una ragazza che vive e lavora in Italia, rientrata per una vacanza di qualche settimana, per rivedere la famiglia. È attorniata da molte sue amiche, alcune come lei ormai stabilmente migrate all’estero, altre che, invece, vivono ancora in patria.

Tu non sai la sensazione di sollievo che provo appena tocco il suolo italiano. Qui in Iran io non voglio mettere il velo, come posso fare in Italia, ma ogni volta che esco di casa e mi muovo per la città, vivo nel terrore costante di un controllo della polizia morale. E così alcune delle mie amiche che coraggiosamente rifiutano l’imposizione del velo.

Tuttavia, l’Iran non è l’Afghanistan, gli ayatollah non sono i talebani. Ci sono più donne laureate o che studiano all’università rispetto agli uomini. La stragrande maggioranza degli iraniani studia ingegneria e lo stesso facciamo noi donne. Sin dall’epoca degli ultimi Scià la crescita del Paese è stata intelligentemente ricercata prima di tutto con la crescita delle competenze tecniche e scientifiche interne. Tanti sono ingegneri, medici, fisici e quando migrano trova facilmente lavoro ovunque nel mondo. Meno intelligentemente, anzi più ottusamente, i nostri governi sono dittatoriali, vivono nell’ossessione del controllo. I miei genitori mi raccontano che anche l’ultimo Scià, dopo un momento di grande libertà, aveva cominciato a usare la polizia segreta, la Savak, per stroncare ogni ideologia politica non allineata con la monarchia, come il partito comunista.

Hai visto l’immenso blocco di cemento appoggiato all’entrata di questo caffè?

Ovviamente me ne ero accorto, l’accesso al locale è possibile soltanto aggirandolo, a destra o a sinistra, quello diretto è impossibile.

È stato lasciato dalla polizia, un sinistro avviso per il futuro. Il caffè è stato chiuso mesi fa per reato morale, cioè perché alcune donne qui non indossavano il velo. Alla riapertura non tutti i blocchi sono stati rimossi, a futura memoria per ogni elemento femminile non si volesse allineare. Tuttavia, come vedi, qui non sono l’unica a non voler indossare il velo, molte altre ragazze volutamente ne sono prive. Noi donne siamo un’avanguardia di una protesta ormai generalizzata contro il regime: insieme a noi c’erano le varie minoranze etniche oppresse, come i curdi, molti uomini, tutti uniti in nome della libertà.

È ormai giunta ora di spostarci in una discoteca, ma la musica è iraniana o, al massimo, araba. Soprattutto, nessuno si alza in piedi o non c’è una pista preposta al ballo, una miriade di tavoli e sedie, come fosse un immenso bar. La musica si fa sempre più ballabile, i cantanti sul palco spronano al movimento.

Ballare è proibito; là dove si è ballato, i locali sono stati chiusi della polizia. Perciò, balliamo da seduti o sedute, seguiamo la musica muovendoci, senza poterci alzare in piedi.

Volto lo sguardo attorno, vedo come delle onde invisibili che qua e là passano tra le persone: soltanto qualche gruppo, come il nostro, si muove, gli altri, sorridenti, seguono la musica, senza muoversi, come in un normale bar. Dopo il ballo da seduti, viene il momento del Dor-Dor. Usciamo dall’improbabile discoteca, nel parcheggio si assiepano le auto.

In persiano dor-dor significa giro-giro. Le discoteche sono anche grandi spazi dove ritrovarsi e conoscersi, ma a noi non è dato poterlo fare. Allora lo facciamo per le strade in auto. Si stabiliscono alcune vie di ritrovo e lì si procede lentamente, le auto si affiancano, i finestrini sono aperti: si parla, si scambiano battute, a volte, se ci si piace, si può anche cambiare auto, più spesso finisce lì, qualche volta ci si scambia il numero di telefono. Tutto avviene in movimento, girando, da qui la denominazione Dor-dor.

Dopo una mezz’ora abbondante, improvvisamente il giro di auto si disperde: è arrivata la polizia a disperdere quell’aggregazione così divertente. La trovata è sagace e funziona, ma è bastata qualche ragazza non velata a fornire il pretesto sufficiente per la repressione. Nessuno si perde d’animo, raggiungiamo l’abitazione di un ragazzo che la mette a disposizione. Parla un ottimo inglese, lavora alla reception in un hotel: mi viene spontaneo chiedergli se il suo livello di conoscenza della lingua non gli permetterebbe qualcosa di meglio retribuito.

Il mio sogno sarebbe stato studiare Giurisprudenza, ma qui significherebbe applicare la Sharia e il Corano, che tipo di diritto è? E poi io non sono nemmeno musulmano, i miei genitori lo sono, io no. Io non volevo avere niente a che vedere con questo governo. Qui il controllo comincia con i posti di lavoro, poiché non ci sono imprese private. L’economia iraniana è abbastanza florida, ma l’iniziativa è interamente nelle mani dello Stato. Le nostre industrie sono diversificate, ingegneri e tecnici non mancano, mancano due elementi, tra loro interconnessi: una reale distribuzione della ricchezza e l’impresa privata. Fin dalle origini, il regime controlla la maggioranza della società grazie a una minoranza ben organizzata di famiglie tra loro collegate. Molti di loro, neanche tanto segretamente, fanno affari con l’Occidente, mentre il resto è vincolato ai blocchi e alle sanzioni. In tal modo, facevano in modo di godere la maggior parte della ricchezza, lasciando al resto il sufficiente per vivere. Una sorta di distribuzione minima della ricchezza generale: la fetta maggiore per pochi, quella minore per molti. Non che manchino le industrie, ma gli industriali dipendono da loro. E poi ufficialmente, la Costituzione islamica impedisce gli investimenti stranieri. La via d’uscita che hanno tentato è di stampare sempre più moneta ma l’inflazione la deprezza sempre più. Perciò la via d’uscita non porta da nessuna parte, l’uscita dalla crisi non si vede più. L’unico prodotto a costar poco è la benzina, in certi casi costa meno del pane. Possiamo circolare indefinitamente in auto, ma facciamo fatica a procurarci una casa e il sostentamento, se non cambia qualcosa.

Naturalmente, anche con lui parliamo del futuro.

Tu non sai quanti qui fanno lavori statali, anche se non vorrebbero. Io ho cercato di evitarlo, avrei dovuto fare l’avvocato o il giudice in un sistema giuridico di cui non condivido nulla. Come vedi, qui in Iran ci divertiamo, con poco, facciamo tanto. Non è quello che ci manca. Sono le prospettive di carriera o, ancor di più, di poter contribuire con qualcosa di più elevato alla crescita del nostro Paese o del mondo. Quando mi guardo indietro, posso dire di essere felice, ma non vorrei alla fine della mia vita guardarmi indietro, e pensare di essere stato soltanto felice. Vorrei lasciare qualche cosa dopo di me, per me stesso e per gli altri.

La guerra contro Israele sembra talmente lontana che preferisco non parlarne più e finiamo la nostra nottata mentre provo a spiegargli quanta infelicità si nasconda in Occidente, nonostante ogni carriera sia possibile, e insieme ragioniamo sulla loro che, invece, cerca di farsi strada tra la repressione politica e la crisi economica. Loro che sono così aperti, ospitali, amichevoli. Com’era l’Italia non più di qualche decennio fa, quando ancora Pasolini e tanti altri scrittori ne cantavano la mentalità popolare, prima della sua imminente corrosione. Dove stia l’equilibrio chissà, ma la guerra Iran-Israele per ora sembra introvabile, almeno in Iran, almeno tra la sua gente.

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