Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Tale of tales
Unanimemente considerato il più grande film di animazione della storia del cinema, Tale of tales del genio russo è un sogno, un viaggio nel quale le coordinate del tempo si fondono, in cui la Storia, intrecciandosi alla memoria personale dell’autore, si assolve dalla sua lontananza per diventare, negli occhi degli spettatori, vissuto, carne da toccare. Le immagini, accompagnate dall’uso sapiente del suono (senza avvalersi dell’ausilio della parola, la quale sarebbe solo d’intralcio), in questo effluvio di ricordi e frammenti onirici, riescono a restituirci l’idea della simultaneità, della compresenza miracolosa degli istanti. Jurij Norštejn non guarda dal e nel tempo, ma dal e nell’eternità, in quel punto in cui il tempo non è solo tempo, ossia successione coatta e meccanicistica di momenti sprovvisti di significato, ma rivelazione, presagio, segno di un’alterità immanente al suo stesso transitare.
Per essere attuali in ogni tempo – lo scriveva Simone Weil – bisogna parlare dell’eternità, di ciò che illumina dall’interno la finitezza che intride di sé ogni tempo. Da ciò deriva l’attualità sconcertante di Norštejn, il quale, come il connazionale Tarkovskij, crede che l’arte sia arte allorché riesce ad esprimere, senza tradirlo, l’indicibile che, come un’ombra, insegue ogni immagine ed ogni suono. A riguardo bisogna dire che lo stesso Norštejn ha affermato che la sua opera non scaturisce soltanto da quel serbatoio d’eternità ch’è l’infanzia, ma da qualcosa di ancora più originario, uno sfondo trascendentale del vissuto che egli chiama «pre-memoria». Forse ogni bambino sente di essere sempre esistito, di venire da un Altrove che sembra più reale del reale stesso. Il bambino possiede una memoria senza lingua, una memoria che viene a coincidere con un sentire eccedente che fatica a tradursi in parola e che pure costituisce la chōra di ogni parola. Solo l’immagine può colmare questa assenza originaria, quest’assenza presente. Solo l’immagine-tempo, come la chiama Deleuze, può farsi segno del senza-tempo. Tales of Tales, come Lo Specchio di Tarkovskij, non si limita ad apprendere il proprio tempo con l’immagine. Esso non cerca di far affiorare i relitti magici dell’infanzia, per indugiare nella nostalgia di ciò che si è perduto. Vuole di più, vuole l’eterno da cui nasce ogni infanzia dello spirito.
La relazione con Tarkovskij è evidente anche da un punto di vista simbolico. Una scena, da questo punto di vista, risulta più eloquente delle altre: una foglia gialla galleggia sul fiume. È la stessa immagine che ritroviamo nel capolavoro di Tarkovskij dello stesso anno, Stalker. Essa rende visivamente la coesistenza del divenire (il fiume che scorre) con l’atomo di eternità (la foglia) che di quel divenire non è negazione, ma luce, trasfigurazione.
Un altro elemento accomuna i due autori. La scelta di utilizzare la musica di Bach (Norštejn si avvale anche di Mozart e della musica popolare russa) per accompagnare le immagini del proprio sogno. La musica di Bach è la musica dell’eternità, dell’eternità che decide di abitare il tempo. Per questo è stata inviata nello spazio. Affinché una civiltà aliena, ascoltando quella musica, capisca che noi siamo la civiltà che ha saputo pensare la coesistenza del tempo e dell’eternità, la compresenza miracolosa del finito e dell’infinito.
Il riccio nella nebbia
Sarebbe ingiusto vedere ll riccio nella nebbia soltanto come l’opera che prepara, da un punto vista estetico e concettuale, Tale of tales, il mediometraggio che, come illustrato, consegnerà il regista russo all’immortalità artistica. Il riccio nella nebbia è più di un racconto di formazione. È la storia di un’anima che per ritrovarsi ha bisogno di perdersi. Perché soltanto perdendosi nella nebbia del nulla è possibile, alla fine, ritrovare, quasi per miracolo, la luce di un essere.
Antonio Machado, forse il più grande poeta di lingua spagnola, sosteneva che il viaggiatore, il pellegrino dell’anima, non ha un cammino, una via prestabilita dal destino, ma il cammino, la via da seguire, la via che noi stessi siamo si fa camminando. Ossia, la verità dell’esistenza appartiene a chi ha il coraggio di esporsi al rischio della perdita e della sofferenza. Chi, per paura di perdersi, per paura di soffrire, decide di non intraprendere il proprio viaggio interiore, è come se avesse già posto fine alla sua esistenza. Non è un caso che Alexander Lowen, allievo di Wilhelm Reich, e padre della psicologia bioenergetica, definisse la depressione come irrecusabile “paura della vita”. La paura della vita si traduce nell’ostinata difesa del proprio guscio identitario, della propria monadica egoità. Il nevrotico, spiega Lowen, paralizzato dal timore di perdere l’immagine che egli ha fabbricato di sé, perde ciò che egli veramente è. Così facendo, sacrifica, in nome della sicurezza, la propria libertà; in nome di un’angusta razionalizzazione dell’esperienza, la verità primigenia del sentire. Chi vuole sentire la vita in tutta la sua profondità, deve esporsi al rischio di sentire il «nulla» della caduta e della sconfitta. Deve cimentarsi con l’angoscia che sembra spazzare via ogni fondamento del mondo. Il riccio rappresenta, per dirla con Tillich, «il coraggio di esistere». Un coraggio che non rimuove la paura, ma la trasfigura nella fede nel senso e nella bontà immarcescibile che abita l’animo di chi è diverso da noi.
La figura salvifica della cavalla ammantata del suo nobile silenzio, indica il valore e il frutto più puro di ogni cammino esistenziale: la compassione. Nessuno si salva da solo, perché nessuno, per citare John Donne, è un’isola, ma ognuno è un’infinità di isole; ognuno è sé stesso solo nella misura in cui riesce ad aprirsi all’altro, al suo vissuto, per accogliere la singolarità della sua verità. L’ideogramma sino-giapponese 道, che vuole dire “ciò che conduce”, “via”, “cammino”, è la miniatura ideografica di questa verità esistenziale. Difatti, è composto da un piede e da un volto. Ciò sembrerebbe indicare sia il soggetto del cammino, ma anche ciò verso cui questo cammino tende: l’altro uomo. La verità, la via, è tale solo se unisce in un “sentire” comune, in un sentire che affratella.
Il riccio si inoltra nella nebbia per raggiungere il suo amico orso. Decide di sfidare quel nulla in cui lo sguardo si smarrisce perché desidera contemplare, insieme all’amico, la volta celeste. Il dialogo tra l’orso e il riccio, i quali finalmente si possono abbracciare dopo infinite traverse suggella di bellezza etica la fiaba. L’orso spiega al riccio che lo attendeva non solo per il piacere di essere con qualcuno, di non essere solo, ma perché nessuno sa contare le stelle come sa fare il riccio. La vera amicizia, così come il vero amore, si misura dal riconoscimento dell’insostituibilità e irripetibilità dell’altro. L’orso e il riccio scoprono la meraviglia di essere uno e due, di essere estranei ed intimi. Eppure, un dubbio attanaglia la coscienza del riccio: la cavalla sarà riuscita a salvarsi?
La compassione è questo pungolo nella carne che rende vicina la sorte di chi ci è prossimo e di chi ci è distante.