Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Nel dibattito pubblico e accademico di questi anni, è diventato abbastanza di moda sancire la fine della tradizionale distinzione tra “sinistra” e “destra” in politica. L’annuncio di tale superamento trova evidentemente nella crisi delle democrazie liberali e nelle scosse geopolitiche attuali la sua causa immediata o il suo pretesto. L’enorme difficoltà che ogni schieramento politico sperimenta nel rispondere alla crescente domanda di sicurezza che sorge dai cittadini, alimenta la spirale della sfiducia generalizzata, le riflessioni decliniste e, non da ultimo, la determinazione dei «corteggiatori del caos» (così definiti da Giuliano Ferrara sul “Foglio” qualche giorno fa), che ripetono profezie di sventura, per interesse, per antiliberalismo ideologico o per tutte e due i motivi.

Destra e sinistra sarebbero categorie superate perché, in ultima istanza, entrambe non riescono a mettere davvero in discussione l’ordine vigente: da qui la loro solidarietà nell’inefficienza. In fondo, si ripete da più parti, progressisti e conservatori si mostrano tanto alternativi sul palcoscenico della politica, quanto sono omogenei e contigui nel retroscena del potere, zona d’ombra in cui, nella sostanza, non hanno né la forza né probabilmente la volontà di ridiscutere lo status quo. Sarebbe più proficuo, ripetono ancora gli stessi, sbarazzarsi di “destra” e “sinistra”, per abbracciare altre dualità, quali ad esempio “globalismo” vs “sovranismo” o “populismo” vs “radicalismo”.

Ora, i profondi cambiamenti in corso rendono senza dubbio necessaria una rivisitazione dell’arsenale concettuale della politica. Ciò che intendiamo sostenere, però, è che le categorie di “destra” e “sinistra” siano ancora utili  ̶  forse perfino necessarie  ̶  al pensiero politico. Dal fatto che a “destra” e “sinistra” possano non corrispondere più i tradizionali contenuti, non discende la necessità di superare i due concetti bensì, semmai, di riempirli con contenuti nuovi, di riaccordarli alla realtà. Ad esempio, per proporre un’analogia con la morale, dal fatto che in un certo periodo storico il termine “bontà” possa non avere più, nel sentire comune, lo stesso referente cui era abitualmente connesso fino ad allora, non deriva propriamente che la “bontà”, in quanto tale, debba essere superata. Potrebbe anche darsi che il valore goda di un’esistenza stabile e che stia mutando invece l’applicazione di quel valore agli oggetti della vita. È la correttezza o meno dell’applicazione che andrebbe dunque discussa, non l’assolutezza del valore. Questo fu a nostro avviso, sia detto di passaggio, l’errore di Nietzsche, che confuse la trasvalutazione della vita con la trasvalutazione dei valori.

Tale discorso vale ancora di più, per noi, se si considera che “sinistra” e “destra” ̶  questa è la nostra tesi  ̶  esprimono altrettante tendenze fondamentali della ragione umana. Attenzione: non vogliamo sostenere che sinistra e destra siano, per così dire, categorie dello spirito, ma che lo spirito (in particolare quello moderno) contiene in sé due orientamenti fondamentali che hanno trovato nei costrutti di sinistra e destra un’espressione assai congeniale e difficilmente sostituibile.

Quali sarebbero, allora, le due tendenze dello spirito umano cui si accennava? Possiamo adoperare diverse scelte lessicali: noi optiamo per “naturalismo” e “spiritualismo”. In primo luogo, la ragione umana mostra la volontà di conoscere la natura e le sue leggi, il comportamento della materia e la sua composizione, valorizzando i dati dell’esperienza empirica, e tutto ciò col fine di portare alla luce la causalità dei fenomeni e poterli, tramite questa conoscenza ed entro certi limiti, controllare e piegare ai nostri fini. Questa prima tendenza si focalizza perlopiù sui limiti della conoscenza, sulla sproporzione tra le cose conosciute e le cose su cui siamo ignoranti. Per dirla con Galileo, vuole sapere «come va il cielo». La seconda tendenza, invece, ci sospinge a trascendere il noto per illuminare l’ignoto, a indagare le cosiddette questioni ultime, a domandare non come posso utilizzare questa o quella conoscenza, ma qual è il senso stesso dell’impresa conoscitiva. Per dirla ancora con Galileo, vuole sapere «come si va in cielo». Possiamo trovare in diversi autori della tradizione tracce di questa doppia tendenza.

Ad esempio, nella terza sezione del capitolo sulle antinomie della ragion pura, Kant interrompe il filo del proprio pensiero con una riflessione sull’«interesse della ragione in questo suo conflitto». Si tratta, per Kant, del conflitto tra dogmatismo ed empirismo. Come a tal proposito ricorda il filosofo Robert Spaemann in Cos’è il naturale, «dietro al dogmatismo, cioè dietro all’idea di una cosmologia metafisica, vi è, come spiega Leibniz, l’interesse pratico (nel senso di praxis, cioè morale, ndr.) di ogni uomo retto, l’interesse alla religione e alla morale le quali sembrano venire defraudate dei propri fondamenti dalle antitesi empiristiche. L’interesse empiristico è, al contrario, speculativo. È l’interesse alle condizioni della ricerca scientifica, ricerca illimitata i cui progressi sono sempre controllabili dall’esperienza». Da una parte l’esigenza di essere libero incondizionatamente, dall’altra quella di trovare dimora e sicurezza. Da un lato la spinta all’assoluto, dall’altra la consapevolezza del limite, il radicamento sul terreno ristretto ma pur sempre solido dell’esperienza. Da una parte il limite estremo del misticismo, dall’altra quella del razionalismo, in mezzo una serie di gradi intermedi.

«Al principio di questi interessi  ̶  scrive ancora Spaemann  ̶  sta l’interesse dell’uomo ad affermare se stesso in una natura prevalentemente ostile. Quest’autoaffermazione avviene mediante un progressivo dominio della natura. Ma vi è anche l’interesse a prendere confidenza con le cose del mondo, ad avere dimora nell’essere, a comprendere sé stesso nel contesto dell’universo». Il già citato Kant può essere assunto come l’emblema del discorso che stiamo sviluppando: nella sua filosofia, infatti, si può contemplare proprio la lotta tra le tendenze e il tentativo quasi commovente, per la tenacia e l’impegno profusi, di trovare la chiave per cucirle insieme rispettando i diritti di entrambe, come testimonia la Critica del giudizio.

Nella modernità, le due tendenze, che possiamo ora sbrigativamente sintetizzare con “libertà” e “sicurezza”, hanno trovato in “sinistra” e “destra” due termini ombrello che hanno raccolto gran parte delle rispettive istanze. Naturalmente, si badi bene, parliamo di tendenze. Ciò vuol dire che, come anticipato, i termini vanno disposti lungo uno spettro che va dalla volontà fanatica di realizzare la libertà al punto tale da distruggere la libertà stessa (estrema sinistra), fino a una volontà di proteggere la libertà (il desiderio di sicurezza non è altro che questo) talmente assolutizzata da distruggere, anche qui, la libertà stessa. Gli estremi si toccano. Le due tendenze possono essere ravvisate anche nel pensiero di Henri Bergson, più precisamente nelle «società chiusa» e «società aperta» da lui teorizzate. La società chiusa, per il filosofo francese, rappresenta quello stadio dell’evoluzione umana, che ciclicamente si ripresenta, in cui una comunità solidifica i propri usi e costumi, le proprie istituzioni, per stabilizzarsi e salvaguardare sé stessa contro le forze dissolutrici. La società aperta, di contro, rappresenta quel momento in cui lo “slancio vitale”, che sta al fondo dell’evoluzione della vita, dona all’uomo l’energia sufficiente per spezzare il recinto precedentemente costituito dalla morale e dalla religione chiuse, e così proseguire la sua corsa verso l’universale.

È significativo il fatto che, per Bergson, il salto dal chiuso all’aperto sia possibile grazie alle vie aperte dalle personalità mistiche (quali ad esempio Paolo di Tarso, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Francesco d’Assisi, Giovanna d’Arco), che in diverse epoche storiche hanno permesso il progresso morale dell’umanità, dopo gli arresti e le pause delle società chiuse. È il già nominato misticismo, infatti, a dischiudere di volta in volta il sentiero verso il pieno dispiegamento dello slancio vitale, e con esso la strada che conduce all’affermazione dell’amore universale che abbatte le distinzioni tra persone e nazioni.

A questo punto servono almeno due chiarimenti. Anzitutto, nello schema proposto, abbiamo collocato la “libertà” a sinistra. Ciò potrebbe suscitare qualche perplessità. Il lettore attento, però, avrà anche notato che, nel nostro discorso, sia a sinistra che a destra è pur sempre la “libertà” a essere messa in questione. Si tratta evidentemente di intendersi sul significato che diamo a questo termine. L’obiettivo della dottrina socialista, ad esempio, a differenza di ciò che molti sono portati a credere, non è esattamente l’uguaglianza. Non a caso Carlo Rosselli ha scritto che «il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà» (Socialismo liberale, 1979). L’uguaglianza è necessaria per ottenere la libertà. Il marxismo si autocomprende come quel movimento che avrà completato la sua missione soltanto quando per tutti gli uomini del mondo esisterà un margine di libertà reale al di là della produzione e della sottomissione al mondo materiale. In questo senso, le pagine di Sartre della Critica della ragione dialettica risultano preziose: la lotta di classe è, o sarebbe, l’espressione storico-concreta della lotta della libertà ontologica dell’uomo che si esprime nella praxis (e dove, sennò?) facendosi largo nel pratico-inerte della storia. La libertà del Soggetto (scritto rigorosamente con la maiuscola) è ciò che si accresce attraverso il toglimento di ogni esternalità, di ogni limite, di ogni Gegestand (evidentemente pure dei detentori dei mezzi di produzione), fino a espellere dalla storia l’alienazione (da alius, altro). In ciò sta, anche, la diretta derivazione della “metafisica” di Marx da quella di Hegel. La filosofia di quest’ultimo vuole essere un pensiero della libertà: al termine del proprio cammino, quando finalmente lo Spirito arriva a sapersi come Dio, tutto inizia, non tutto finisce, come molti ancora dicono, misinterpretando il filosofo di Stoccarda.

Dunque, per tornare sul sentiero principale del nostro discorso, abbiamo collocato la “libertà” a sinistra, poiché, a nostro modo di vedere, come anticipato, l’uguaglianza ricercata a sinistra è funzionale al raggiungimento della libertà, o per meglio dire, della liberazione: in tale orizzonte, il Marx scienziato va compreso a partire dal Marx umanista (Michel Henry aveva ragione contro Louis Althusser, secondo noi). Tale libertà, però, e questo è un elemento essenziale, per il socialismo non può certo essere la libertà borghese. Questa sarebbe, come sappiamo, una libertà solo formale, dunque fasulla, poiché manca della premessa dell’uguaglianza materiale tra i soggetti.

Con tutta l’umiltà del caso, allora, affermiamo che la tesi espressa da Bobbio nel celebre saggio Destra e sinistra (1994), per il quale «il criterio della libertà serve a distinguere l’universo politico non tanto rispetto ai fini quanto rispetto ai mezzi, o al metodo, da impiegare per raggiungere i fini» andrebbe rovesciata. L’uguaglianza è il mezzo per il fine, che è la libertà. In ogni caso, insomma, a destra come a sinistra, il punto è la libertà. La libertà di ciascuno attraverso quella di tutti (sinistra), libertà di tutti attraverso quella di ciascuno (a destra). Dunque non l’idea di “uguaglianza” connota maggiormente la differenza tra sinistra e destra, ma il diverso modo di intendere e maneggiare la libertà.

Sulla base di questi chiarimenti, allora, sarà ora forse più semplice comprendere che associare “sicurezza” a “destra”, non vuole in nessun caso escludere il riferimento alla libertà, anzi. Si tratta qui, piuttosto, di una difesa della libertà dalle forze esterne che potrebbero minacciarla. Tali forze sono messe in moto sia dalla brama di dominio e sopraffazione insita nell’uomo (Hobbes), sia dall’esaltazione violenta di chi ritiene di poter conoscere l’Assoluto, travalicando i limiti della ragione pubblica. Il riferimento diventa inevitabilmente, ancora, Kant e la sua critica dell’eccitazione fanatica (Schwärmerei) sviluppata nel Saggio sulle malattie della mente. Qui il fanatico è definito come «un allucinato con una presunta ispirazione immediata e una grande confidenza con le potenze celesti. La natura umana non conosce nessuna illusione più pericolosa di questa». L’allucinazione deriva da un disordine nella facoltà cognitiva sensibile, da uno scambio e una sovrapposizione tra i dati della sensibilità («conoscenze provenienti dall’impressione dell’oggetto su di noi») e quelli dell’immaginazione («conoscenze sensibili che scaturiscono dalla spontaneità dell’animo»). Nella definizione di questo tipo di folle come «uno che sogna durante la veglia» fa capolino, in controluce, la polemica rivolta da Kant contro il filosofo e mistico svedese Swedenborg e – attraverso di lui – contro i metafisici «sognatori della ragione». I metafisici (Kant non era affatto antimetafisico, ma su questo non possiamo dilungarci) si allontanano «dall’umile terreno dell’esperienza», producendo perciò affermazioni del tutto incontrollabili, salvo contrabbandare poi l’inconfutabilità per sottrazione alla verificazione con la prova della verità. «Ma quale follia non potrebbe venir messa in armonia con una filosofia fondata sul vuoto?», si chiede retoricamente Kant. È il fanatismo della ragione che non riconosce i propri limiti, in ultima istanza, a favorire il dogmatismo, la mancanza di autentico dibattito pubblico, la sottomissione a un potere dispotico e incontrollato.

Per il nostro discorso è suggestivo notare la curiosa vicenda del termine Schwärmerei, che ha giocato un ruolo importante nel progetto critico di Kant. Nell’ambito delle rivolte contadine del 1524-25, avvenute principalmente in Germania in seguito alla Riforma protestante, infatti, Lutero definirà Schwärmer (fanatici) i contadini rivoltosi, per i quali non aveva alcuna simpatia, e Friedrich Engels, in un suo saggio del 1850, dedicato proprio alla guerra dei contadini tedeschi dell’inizio del XVI secolo, rivendicherà una continuità tra quelle lotte e la battaglia comunista da lui intrapresa al fianco dell’amico Marx.

Il criticismo kantiano, dunque, ponendo l’attenzione sui limiti della ragione e sulle pretese “totali” di quest’ultima, ha rappresentato non a caso un bersaglio polemico del pensiero marxista. Il concetto di “cosa in sé”, che segnala l’irrimediabile finitezza della conoscenza umana, è stato ad esempio fatto oggetto di critica da parte di György Lukács, in quanto, in fondo, figlio di una “filosofia borghese”. Il rifiuto kantiano della metafisica, chiarisce Lukács in Storia e coscienza di classe (1923), è una rinuncia alla comprensione unitaria del reale. L’unica conoscenza a noi accessibile rimane per Kant quella relativa ai fenomeni parziali, tematizzati dalle singole scienze nella loro differenziazione. In tal modo, la filosofia si riduce sostanzialmente a epistemologia. Tale esito del pensiero moderno, sancisce il filosofo ungherese, è il prodotto della struttura della società borghese: «infatti, se da un lato la società borghese domina sempre più i momenti particolari della sua esistenza sociale sottomettendoli alle forme dei suoi bisogni, dall’altro – ed anche qui in misura crescente – essa perde la possibilità di arrivare a dominare con il pensiero la società come totalità e quindi anche la destinazione a dirigerla». In altre parole, traducendo un po’ bruscamente: se la conoscenza della totalità degli oggetti (sociali) è impossibile  ̶ poiché la nostra conoscenza è confinata al di qua del limite invalicabile della “cosa in sé”  ̶  non si può pensare la rivoluzione, cosa che sta benissimo ai borghesi.

Volendo andare verso una conclusione provvisoria, sulla base di quanto detto fin qui, nel dibattito sui concetti di “destra” e “sinistra”, ci sentiamo più vicini alle tesi del filosofo e politologo Carlo Galli. In una qualche continuità con quanto affermato da quest’ultimo (se abbiamo compreso il suo discorso), possiamo sostenere che le categorie politiche di “destra” e “sinistra” vanno identificate non tanto in base ai contenuti quanto al modo in cui rispondono alla principale sfida dell’epoca moderna. Tale sfida si chiama “libertà”. Perduta la tutela religiosa, il soggetto moderno è stato chiamato a organizzare la città dell’uomo etsi Deus non daretur: senza lo stabile sostegno di Dio, la libertà è stata chiamata a giocarsi in un campo privo di premesse certe. Più precisamente, come insegna Hans Blumenberg, all’inizio della crisi di senso del Medioevo stanno il nominalismo occamista e il volontarismo scotista, che innervano di sé la modernità. Ora, «il Dio dei nominalisti – spiega Blumenberg ne La legittimità dell’età moderna  ̶  non è come il demiurgo platonico, l’esecutore di un piano del mondo consistente in se stesso, che comunica l’evidenza della propria unicità e la cui idealità significa precisamente che in esso ogni ragione deve riconoscere e ripercorrere i caratteri vincolanti di un mondo, cosicché conoscenza produttiva e teoretica convergono su questo modello». A quel Dio garante della razionalità del mondo, in quanto la creazione si rispecchia nella ragione che l’ha prodotta, subentra con il nominalismo tardo medioevale una concezione di Dio legata più alla potenza della volontà che alla razionalità. Per salvaguardare l’onnipotenza di Dio, che secondo la metafisica occamista non può essere vincolato da nulla, nemmeno alla razionalità, viene accentuata la sua potentia absoluta. Questo però implica l’infinità del possibile, svincolato dalla plausibilità logico-razionale. Tutto sussiste, le cose e il loro ordine, perché Dio lo mantiene direttamente nell’essere con un atto continuo e gratuito, che potrebbe revocare in qualunque momento, se lo volesse. Se Dio volesse, sostiene Occam, potrebbe produrre in me, immediatamente da sé solo, qualunque effetto che Egli causa con la mediazione di una causa seconda. Ad esempio, potrebbe farmi vedere una mela anche se là fuori non ci fosse alcuna mela. E Descartes, secoli dopo, in piena continuità, sosterrà che Dio non è affatto tenuto a seguire le leggi logiche (poiché Lui è il creatore anche di queste). Se Dio lo avesse voluto 2 + 2 avrebbe potuto fare tranquillamente anche 5 e una montagna avrebbe potuto esistere senza la valle. La volontà assoluta del principio metafisico dei nominalisti, chiarisce ancora Blumenberg, «è l’equivalente dell’affermazione secondo la quale l’affidabilità del mondo non può essere fondata ed è, quindi, un fatto soggetto alla riserva della revoca».

La Modernità comincia con questo smottamento della sensatezza del mondo. L’uomo moderno deve ricominciare faticosamente da capo a ricostruirla, se ci riesce, sotto la minaccia costante di una rinnovata anomia. Tutta l’avventura del moderno può essere vista come il percorso esaltante e drammatico del tentativo di far fronte a questo problema, attraverso la razionalizzazione filosofica (il Sistema filosofico è tipico prodotto del pensiero moderno, non a caso, mentre il Medioevo conosce la Summa) e la razionalizzazione scientifica. Si può superare una volta per tutte l’anomia (sinistra) o dobbiamo rassegnarci ad essa (destra)?

Entro questi estremi, si distende lo spettro molto ampio delle opzioni anche politiche. La democrazia dei moderni non può evidentemente porsi in nessuno dei due poli, pena la propria scomparsa. La democrazia è l’arte difficile di collocarsi in uno spazio, che non ha confini netti, tra gli estremi. Solo in questo caso, infatti, si potrà salvaguardare la libertà dell’uomo concreto, che è sempre nel medesimo tempo individuo e in relazione, unico e comunitario. Non si sta dicendo che la democrazia compiuta si trova al “centro”, ma che solo a partire dal riconoscimento della legittimità della tendenza opposta a quella cui ci si sente più vicini, può esserci democrazia. Visti i tempi di violenta polarizzazione del dibattito pubblico, che sembra trascinare le democrazie nei pressi di un pericoloso punto di non ritorno, ci sembra una lezione necessaria da riapprendere ma soprattutto da ripraticare. La posta in gioco è la libertà e nient’altro. Globalismo, sovranismo, popolo, élite, alto e basso ecc., a nostro avviso, non riescono a restituire neppure in minima parte la ricchezza che “sinistra” e “destra” ancora esprimono, almeno per il momento.

Loading