Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Il regista coreano, Kim Ki-duk, faro del cinema asiatico degli ultimi decenni, con la sua nona opera, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, riesce a delineare (pur dichiarando a più riprese che il suo intento fondamentale non è stato certamente quello di trasmettere un messaggio spirituale identificabile con i pensieri buddhisti), attraverso una storia che si dipana in un orizzonte temporale circolare, e non lineare, alcuni tratti tipici del buddhismo Sōtō Zen di Dōgen.
La storia che il regista racconta è la storia di un bambino che diventa uomo attraverso l’apprendistato del dolore. Inizialmente, il bambino, nella primavera della sua vita, riceve dal suo maestro, interpretato magistralmente da Oh Yeong-su, gli insegna- menti fondamentali del buddhismo. Egli impara, innanzitutto, attraverso la punizione dell’anziano mona co, la prima nobile verità concernente il dolore. Non solo tutti soffrono (tutti gli esseri capaci di sentire, animali compresi), ma quel dolore ci accomuna, ci affratella, facendoci capire che, tutti, uomini e animali, siamo sulla stessa barca esistenziale. La crudeltà del bambino è un difetto dello sguardo che può tramutare in compassione non attraverso la mera adesione a una dottrina esteriore, ma sperimentando, in prima per- sona, la realtà del patire. È il dolore (il maestro lo punisce infliggendogli le stesse torture che egli infliggeva agli animali), un’esperienza vissuta che penetra non solo la mente, ma la carne, a trasfondere nel cuore del bambino un insegnamento che deve diventare pensiero, azione, abitudine, e infine pratica di vita. Qui ritroviamo, in questa elegia della formazione del bambino, l’essenza dello zen, il quale, come afferma Bodhidharma, è un insegnamento che, prescindendo dalle scritture, punta direttamente alla mente-cuore dell’uomo.
L’afflato Zen sembra spirare non solo dai fatti concreti che tessono la trama della narrazione, ma, soprattutto, dallo stesso sguardo del regista, il quale, mettendo da parte quella felice commistione di erotismo e violenza che aveva caratterizzato le prime opere, fa della macchina da presa uno strumento atto ad esercitare quell’áskēsis ch’è il centro propulsivo di ogni autentica pratica spirituale. È cinema, quello che Kim Ki-duk costruisce con questa pellicola, nel quale l’occhio/macchina da presa sembra quasi non esserci. Re stando, impalpabile, sullo sfondo, come a testimoniare una presa di distanza non solo fisica, ma soprattutto morale, lascia che le cose emergano per quello che sono, nella loro innominabile nudità. I fatti narrati non vogliono, come lui stesso raccomanda, impartire un messaggio morale, ma mostrare, senza giudizio, l’eterno ciclo di un’esistenza che, nella sua concreta singolarità, riflette l’esistenza nella sua universalità. Ciò che interessa il coreano è far immergere lo spettatore nel magma emotivo che lacera da dentro ogni uomo che s’incammina sul sentiero della vita, la quale, come ogni artista ben sa, non si compone mai in una sintesi superiore, ma vive di lotte, di scissioni, di contraddizioni brucianti e irrisolvibili.
Nella seconda scena, l’estate, il bambino è ormai un adolescente. In questa stagione della sua esistenza egli scopre il desiderio. Scoprendo il desiderio, si soggettivizza, dice “io” attraverso lo sguardo di una ragazza dai capelli e gli occhi scuri. Quando il monaco la allontana dal tempio, il giovane scopre uno dei volti di dukkha: la perdita di ciò che si ama. L’amore, la passione ardente del desiderio, generano l’illusione della permanenza. Ma tutto ciò che vive è irrimediabilmente transeunte, destinato inevitabilmente alla consunzione. Il giovane, sgomento per la separazione dalla donna amata, scappa via dal tempio. L’idea che tutto, compreso il nostro caro io, è insostanziale, è, ancora, irricevibile per il giovane.
Nella terza scena, l’autunno, mentre le foglie, ormai brune, sprofondano nelle acque che circondano il tempio, l’adolescente è ormai diventato adulto. Egli, tradito dalla moglie, la uccide brutalmente a coltellate e inizia a scappare dalla polizia. A questo punto decide di fare ritorno al tempio, dal maestro che gli ha impartito il Buddhadharma. Devastato dal senso di colpa, decide di porre fine ai suoi giorni, facendo esperienza, così, del volto più scarno e truculento di dukkha: il desiderio della morte, della non-esistenza. Il maestro lo rimprovera perché sa che il dolore non si estingue con il suicidio, il quale condurrebbe soltanto a un’altra esistenza allucinata, segnata ugualmente da quei residui karmici che nella vita presente hanno portato il soggetto a patire la sofferenza del non-senso.
La fine della sofferenza, per il giovane, passa attraverso l’esperienza illuminante della vacuità. Il maestro, infatti, ancora una volta, come quando egli era solo un bambino, non gli impartisce un insegnamento puramente dottrinale, ma un insegnamento esperienziale. Ordina al giovane di prendere il coltello col quale ha ucciso la moglie, di intingerlo e di incidere, come lui ha fatto usando la coda del gatto, i versi del Sutra del Cuore sul portico del tempio. È una delle scene più potenti del film, sia da un punto di vista visivo che narrativo. La parola è estromessa, v’è soltanto il potere evocativo e catartico dell’immagine cinematografica: un rito di purificazione che rappresenta un altro rito di purificazione. Nel sesto capitolo di Busshō, Dōgen prende in esame la proposizione più famosa del Sutra del Cuore, quella che il maestro e il giovane incidono sul portico: «le forme altro non sono dal vuoto; il vuoto altro non è dalle forme». Affermare che le forme non sono altro dal vuoto non significa affermare che le forme non sono; parimenti, dire che il vuoto non è altro non significa ipostatizzarlo.
Significa, piuttosto, affermare che solo riconoscendo le forme come vuote (come vuote d’essenza), allora le forme sono davvero forme e il vuoto è davvero vuoto. Ciò che Dōgen tenta di dirci, e che il giovane del film esperisce nell’atto rituale dell’incisione, è che ogni fenomeno, ogni forma, dolore compreso, non è assoluto. Anche la sofferenza (la colpa, la malattia, il dolore fisico ed esistenziale, la morte), è un sasso sospeso nel vuoto. È infondata, priva di sé. È questa visione a liberare, in vita, dal giogo del patire. Il giova- ne infatti si consegna alla polizia perché ha visto, perché ha compreso profondamente il mistero di una realtà senza «lo spadroneggiare dell’io». Il maestro, a quel punto, esaurito il suo compito, si dà alle fiamme. Un simbolo, questo, che, rimandando ai celeberrimi suicidi rituali dei monaci vietnamiti durante la guerra in Vietnam, testimonia la verità dell’anātman: ciò che brucia non è l’io, che non c’è, ma l’illusione di un io sostanziale.
Giunge l’inverno. Il tempio è ricoperto dalla neve. Il giovane, scontata la pena, vi si è stabilito per darsi anima e corpo alla Via, praticando la meditazione e le arti marziali. Nel frattempo, una donna, dal volto velato, accompagna in fasce un bambino per affidarlo al monaco. Il giovane, divenuto ora monaco, ha consacrato la sua esistenza alla Via. Ma questa consacrazione passa per il gelo dell’inverno, della rinuncia ai desideri del mondo.
Il cerchio si chiude. Arriva ancora la primavera. Scorgiamo di nuovo un monaco anziano che si occupa di un bambino nel tempio sul lago. Il bambino, come quello della primavera che apre il film, ignaro del bene e del male, infligge dolore ai piccoli animali che incontra sul suo cammino. Ciò fa intuire che la storia si ripeterà, che il tempo in cui si svolge è ciclico. Ma, soprattutto, suggerisce che l’eterno ritorno della primavera è l’eterno ritorno della verità dell’illuminazione. Una poesia di Dōgen esprime, nell’apparente semplicità delle sue immagini, la profondità abissale di questa verità:
La mente misteriosa del nirvāna
I fiori del mio paese natale
mai cambiano il loro colore, anche quando
la primavera è passata.
Il colore che impregna di sé i fiori, nonostante sui loro petali appaiano i segni dell’impermanenza per la primavera ormai trascorsa, è busshō, la realtà dell’illuminazione che intride di sé ogni ente. In questa primavera dello spirito, che mai passa, anche quando la primavera è ormai trascorsa, ci si accorge che non v’è differenza fra l’essere, nella sua pienezza, e il tempo, quel tempo che Kim Ki-duk, con la sua opera, ha saputo immortalare con potenza lirica inusitata. L’opera del coreano, infatti, sembra inverare quel superamento del dualismo di tempo ed eternità che rifulge nel pensiero del maestro giapponese.
Ogni fenomeno, egli sostiene, non è nel tempo, ma è uji 有時, essere-tempo. Essere e tempo non sono due termini separati, indipendenti, che solo in un secondo momento si relazionano fra loro: essere è tempo; tempo è essere. In ogni filo d’erba, in ogni petalo, si manifesta tutto il tempo. In ogni stagione della nostra esistenza, seppur fugace, risplende la natura-di-buddha.