Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Considerati meri simboli, rappresentazioni, entità fittizie, considerati in definitiva come poco più di atti intellettuali, i personaggi letterari vengono raramente tenuti in considerazione dalle scienze umane. Eppure, sono numerosi gli autori che hanno messo in luce la densità di significati che questi “esseri” sono in grado di infondere, ad esempio, nei campi della pedagogia e della psicologia. Tra questi autori si possono ricordare Italo Calvino, Peter Brooks, Michele Cometa, ma anche Jerome Seymour Bruner, Maria Teresa Levorato, Carole Fleisher Feldman.
In termini educativi, dunque, cos’è un personaggio letterario? Evidentemente non esiste una risposta definitiva, tuttavia, per gli obiettivi del presente contributo, si possono azzardare almeno due risposte: un personaggio letterario è un congegno di trasmissione di conoscenze, modi d’essere, stili e allo stesso tempo funziona come immagine-guida, capace di orientare gli schemi riflessivi e di azione nella vita quotidiana, capace altresì di offrire un nuovo punto di vista rispetto ad una o un insieme di dinamiche dell’attualità.
Nel grande insieme di cui fanno parte le entità fittizie nate dalla penna di autrici e autori, qui di seguito verranno presentati due personaggi, mai esistiti, nati dalla fantasia (e dalla relazione professionale e amicale) di Jorge Luis Borges e di Adolfo Bioy Casares.
Perché proprio questi due personaggi? Perché, in termini educativi, essi sembrano detenere una certa capacità di indurre riflessioni, interpretazioni, esegesi, utili a “frequentare” un certo punto di vista nei confronti della conoscenza e del modo con cui ci si relaziona ad essa. In definitiva, i due personaggi, attraverso le descrizioni di Borges e Casares, non forniscono nuove nozioni ma ulteriori vie per arrivare ad esse (ed interpretarle).
Il primo, Funes el Memorioso. Il 7 giugno 1942 il quotidiano argentino La Naciòn pubblicava questo breve racconto; il contadino Ireneo Funes, dopo essersi procurato un trauma cranico a causa di una caduta, sviluppa una insolita capacità mnemonica: ricorda tutto, «tutti i rami e i grappoli di un pergolato, la forma delle nuvole australi dell’alba del 30 aprile 1882, il tracciato della schiuma che un remo sollevò dal Rio Negro alla vigilia dell’impresa di Quebracho». Verso la metà del racconto el memorioso afferma: «Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da quando il mondo è mondo».
Il nuovo fenomeno può sembrare motivo di orgoglio, tuttavia questa facoltà può trasformarsi molto in fretta in una maledizione, fino ad essere schiacciati dal peso dei ricordi; ricordare tutto, infatti, significa essere costretti ad un disallineamento temporale permanente: Funes interagisce nel tempo presente solo cognitivamente, di dettaglio in dettaglio, senza mai essere in contatto con sé, con le proprie emozioni e con i propri sentimenti. Tant’è che, a distanza di tempo, quando intende ricordare un certo momento della sua vita, non può che portare alla luce dettagli di dettagli, e mai stati d’animo e risonanze interpersonali.
Questa condizione conduce Ireneo Funes all’isolamento e in seguito all’incomunicabilità. Sorte paradossale, visto che Funes, afferma Borges, «Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati».
Il secondo, César Paladión. Nel 1967, in un volume dedicato a moderni e stravaganti artisti immaginari, intitolato Cronache di Bustos Domecq, scritto a quattro mani con Adolfo Bioy Casares, compare per la prima volta questo artista del plagio. Di origine sudamericana e di lingua spagnola, vive a Ginevra e lavora come console argentino. Siamo agli inizi del XX secolo.
Che cosa rappresenta Paladión? Ci sono pochi dubbi: egli rappresenta l’estremo limite dell’idea di plagio. Egli dà alle stampe romanzi interi, sostituendo il nome dell’autore con il suo, a tutti gli effetti appropriandosene. Tra i romanzi in questione ci sono: La Capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, Il Mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle, fino ai classici latini come Le Georgiche di Virgilio e il De divinatione di Cicerone.
Si è al cospetto esclusivamente di un ladro, un artista del plagio, è questa la via interpretativa su cui Borges e Bioy Casares vogliono far soffermare il lettore? Può darsi, anche se la figura di Paladión è decisamente più complessa. Innanzitutto, egli non si appropria sempre delle opere più importanti: infatti, “rinuncia alla Divina Commedia e alle Mille e una notte e accondiscende, umano e affabile, a Thebussiane (seconda serie)!” Come dire, questo artista opera una selezione, filtra la conoscenza e sembra agire delle scelte ponderate.
L’interpretazione di questa seconda figura, dunque, è poco utile se ci si limita al lavoro di «pennello, bulino, sfumino» dell’artista; di diverso valore invece è riconoscere a Paladión almeno due qualità: la prima, quella del gran lettore e la seconda quella del gran scrutatore (di se stesso). Naturalmente vige una certa interdipendenza tra le due qualità, poiché la prima implica una certa disponibilità a mettersi in discussione, a rilevare il punto di vista dei personaggi incontrati nelle innumerevoli letture, facendo interagire i modi d’essere e gli stili di questi con le pregresse esperienze psicologiche che in questo caso sono quelle di Paladión. È questo il processo che porta l’artista a scegliere un libro piuttosto che un altro, ad operare dunque un filtraggio della conoscenza che si risolve nell’appropriazione. Egli fa sua l’opera quando questa si dimostra in grado di esprimere la sua anima. Allo stesso tempo, si può dire che non gli è sufficiente una appropriazione simbolica, interiore, ma necessità di portare alle stampe il “nuovo” prodotto con il suo nome. In questo senso, non sente differenza tra lo scandaglio in profondità della sua anima e la pubblicazione di parole nate dalla penna altrui ma che rispecchiano esattamente le sue emozioni.
Da un lato, dunque, Funes el Memorioso come esempio di acquisizione di informazioni ma incapacità di stabilire un sistema di conoscenza entro il quale orientarsi, prendere decisioni e sentire i vari livelli dei significati. Dall’altro, César Paladión, la cui anima fa tutt’uno con i personaggi incontrati durante l’infinito centellinare pagine.
Essi non si risolvono in una sintesi: sono figure-guida per l’educazione del terzo decennio del XXI secolo. In questo senso, Funes el Memorioso offre degli spunti divergenti per riflettere in merito al rapporto tra memorie artificiali e memorie organiche (somiglianze e differenze, qualità e mediocrità che contribuiscono agli incontri e agli scontri tra queste due); César Paladión, invece, è un ottimo “congegno” per frequentare da un angolo visuale inattuale il rapporto con le entità fittizie, come queste possono essere oggetto di dense identificazioni proiettive e sul significato (estesissimo) di possesso di una narrazione.
Non solo, per concludere è indispensabile notare come entrambi contribuiscono a portare alla luce tutta una serie di modi di percepire il tempo passato: Funes è condannato a fare i conti con questo tempo solo attraverso minuziosi atti cognitivi e per questo arriverà a dire che la sua memoria è esattamente come uno scarico di immondizia (non differenziata); Paladión, trovando nelle parole degli altri la massima espressione verbale capace di tradurre gli afflati della propria anima, decide di «non appesantire il già schiacciante corpus bibliografico o cadere nella facile vanità di scrivere una sola riga». In sostanza, due figure utili alle riflessioni su apprendimento e conoscenza ma allo stesso modo utili per illuminare una sorta di volontà di sostenibilità interiore.