Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).
Iago, il malefico personaggio dell’Otello di Shakespeare, è il tipico esempio di un invidioso che inscena una serie di azioni delegittimanti nei confronti dei propri amici. Accecato dall’invidia, mette in cattiva luce sia Cassio sia Otello fino a condurli al ferimento del primo e alla morte del secondo. Iago ha sviluppato un forte rancore verso i due che reputa più fortunati di lui ma non più bravi. Non sempre l’invidioso crede che la sua insoddisfazione dipenda da un dato oggettivo ma potrebbe pensare che dipenda da atteggiamenti più o meno inconsapevoli del suo amico rivale. Per esempio, l’invidioso, non solo può essere oggettivamente meno bello del suo rivale in amore, ma deduce che, se non lo avesse incontrato, avrebbe potuto raggiungere l’oggetto del suo desiderio. Da ciò potrebbe sviluppare una specie di rabbia nei confronti dell’altro.
La struttura della personalità dell’invidioso è, nei termini freudiani, di tipo sadico-anale, pertanto soffre di un complesso di inferiorità e spesso accetta il verdetto, riconoscendo che il rivale è migliore di lui. Vi è, in questa personalità, ancora un barlume di giustizia, che permette di riconoscere la grandezza dell’altro, sentire la sua felicità ma anche la propria sofferenza.
Come si reagisce all’invidia? Quali conseguenze comporta per l’invidiato? Se l’invidioso soffre rispetto all’amico più fortunato, quest’ultimo solitamente prova un certo piacere per essere ammirato e emulato dall’amico; ma se l’invidioso preparasse una serie di azioni tali da ostacolare direttamente e indirettamente la vita dell’amico, come, appunto, nel caso di Iago nei confronti di Cassio e Otello, questi come avrebbero reagito, se avessero scoperto il comportamento disonesto di Iago?
Anche l’invidiato, accorgendosi dell’invidioso che lo ostacola, potrebbe reagire negativamente, arrabbiandosi o vendicandosi di fronte ad un eventuale torto subito. Finché l’invidioso non osteggia l’invidiato, anzi lo lusinga con la sua gelosia, l’invidiato non ha niente da temere dall’amico se non una certa possessività. Anzi, è lusingato dalla sua invidia provando la propria superiorità. L’invidioso, più o meno inconsciamente, ammira, stima e apprezza l’invidiato. Altre volte lo disprezza ma solo perché soffre di gelosia o lo teme. Ma se l’invidioso mette in atto delle dinamiche che offendono o ostacolano l’azione dell’invidiato, potrebbe scatenare una reazione violenta. Michele Cassio ‒ non a caso un aristocratico del Rinascimento fiorentino, la cui signorilità, superiorità e forza sono palesi ‒ se avesse scoperto le tresche di Iago, avrebbe certamente potuto adirarsi, sfidarlo a duello e ucciderlo.
Ma, oggi, nella nostra società borghese, piccoli e grandi soprusi sono spesso tollerati, e a lungo andare si è sviluppata, sia nell’invidioso sia nell’invidiato, una personalità mediocre, risentita, frustrata, nevrotica: è il risentimento, un tipico atteggiamento già intravisto e descritto da Nietzsche. Proprio perché dalla struttura sadico-anale si è regrediti in una fase narcisistica, anche molti invidiati accentuano e rafforzano il proprio io narcisistico e, se ostacolati da uno Iago qualsiasi, non reagiscono più con durezza. Di fronte all’“invidia maligna” tesa a offendere o a mettere in difficoltà, i soggetti non sanno più come difendersi.
Se prima fra due personalità nevrotiche lo scontro era asimmetrico, e l’invidioso, nei termini di Rawls, pensava di poter riparare ad un’ingiustizia, anche se «l’appello alla giustizia è spesso un mascheramento dell’invidia»[1]; e la riparazione del torto avveniva più facilmente e rapidamente attraverso la vendetta: «essa appaga l’ira producendo piacere al posto del dolore»[2]; oggi, lo scontro avviene tra due personalità narcisistiche tra le quali è meno facile che esploda l’ira, benché entrambi si sentano offesi, e permane come un sentimento che dura nel tempo e che non si risolve: «l’azione è negata e essi si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria… una vendetta dell’impotente»[3]. È ciò che Nietzsche definisce appunto col termine di risentimento.
Il narcisista ha sempre bisogno di un mondo esterno a sé, che lo guardi, lo valuti, lo riconosca. Tuttavia, contro le ingiustizie o i soprusi, lui non agisce. Semmai, più che una vera e propria azione, la sua è una semplice “reazione” rispetto a qualcuno che lo deride, lo mette in difficoltà o gli procura un danno. Spesso non interviene, non si vendica dell’avversario, accetta l’offesa con benevolenza, con nonchalance. Così le personalità narcisistiche “si intossicano”, soffrono, si lamentano, sviluppando, appunto, il risentimento. Esso è una specie di rancore, ma più basso di tono, monotono, che quasi non si avverte, si fa fatica a provarlo, appare come una ferita che si deve tollerare, medicare, accettare.
L’uomo narcisista è un uomo mediocre, che soffre, ma con la sua patologia triste secerne veleno anche contro coloro che sono migliori, mettendoli in cattiva luce, ma in modo obliquo, meschino, senza avere il coraggio di apparire se non con brevi parole appena sussurrate, instillando il dubbio dell’altrui reputazione. Da questo punto di vista il risentito non va però confuso con l’invidioso, non tanto perché, come scrive Rawls[4], il risentito avverte un’ingiustizia sociale e politica alla quale vuole reagire, ma al contrario proprio perché il risentito ormai, almeno nei termini di Nietzsche, non interviene più, neanche politicamente.
Il risentito oggi è il narcisista, che non vuole cambiare la società, anzi è il frutto maturo di questa società capitalistica e consumistica; quindi ciò che invidia appartiene esso stesso al conformismo sociale nel quale tutti siamo immersi. Ciò che vedono Nussbaum e Rawls è una nuance, una piccola differenza tra l’invidia e il risentimento: per loro il risentimento permane entro la stessa cornice dell’invidia, è un sottoprodotto dell’invidia. Invece il risentimento è da considerarsi ontologicamente e psicologicamente diverso dall’invidia, perché, seppure gli somiglia nell’azione, il soggetto invidioso è assai diverso dal soggetto risentito. Il primo apparteneva ad un tipo di società ancora solida (nel senso di Bauman), morale, legata al senso di colpa, ma oggi la società è cambiata e il risentito è spinto, nella società postmoderna, da cause assai diverse da quelle dell’invidioso. Il primo voleva migliorarsi, competere con l’altro, il risentito invece vuole omologarsi all’altro e identificarsi. Il primo dava la colpa a sé stesso, sviluppando il rimorso, il secondo dà la colpa agli altri del proprio fallimento sviluppando una specie di vergogna. Il primo voleva distinguersi e prendere le distanze dall’altro, il secondo vuole assomigliare all’altro. Il primo è un nevrotico il secondo è uno psicotico. Il primo ha problemi con il padre, il secondo con la madre. Il primo soffre dell’invidia del pene, il secondo della paura della castrazione. Il primo appartiene ad un tipo di società patriarcale, il secondo ad una società che ha subito un processo di femminilizzazione. Il primo entra in conflitto ed è consapevole della sua condizione e quindi, nei termini hegeliani e freudiani, potrebbe forse prendere coscienza di sé, il secondo è quasi come un bambino che reagisce istintivamente e dunque privo di quella minima consapevolezza che lo porterebbe a criticare la società. Il primo potrebbe scatenare la violenza soprattutto nei confronti degli amici, il secondo soprattutto nei confronti di sé.
In conclusione, diversamente da quello che scrivono Rawls e Nussbaum, non è il risentito ma l’invidioso che soffre del fatto che la società e la politica non abbiano permesso anche a lui di raggiungere certi beni o posizioni sociali. Il risentito invece è colui che si adatta a tutto pur di sopravvivere: è ormai una specie di conformista, così ben descritto da Alberto Moravia nel romanzo omonimo: «Per lui non c’è amore e per questo egli continua ad essere quello che è stato finora… questa è la sua normalità: questo ripiego, questa forma vuota… al di fuori di essa, tutto è confusione e arbitrio»[5].
[1] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2002, p. 434; M. Nussbaum, Emozioni politiche, il Mulino, Bologna 2014, pp. 409-415.
[2] Aristotele, Etica nicomachea, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 155.
[3] F. Nietzsche, La genealogia della morale, Mondadori, Milano 1968, p. 24-25.
[4] J. Rawls, op. cit.: «Se ci risentiamo del fatto di avere meno degli altri, deve essere perché pensiamo che il loro stare meglio è il risultato di istituzioni ingiuste» (p. 440).
[5] A. Moravia, Il conformista, Bompiani, Milano 1951.