Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).
L’idea che la società capitalistica postfordista ha della scuola è ancora quella di una fabbrica che dovrebbe produrre a sua volta lavoratori e consumatori, sulla falsariga delle società giapponese, cinese e americana. E invece i giovani soffrono la costrizione del tempo: molte ore in classe seduti nei loro banchi; e dello spazio, angusto e claustrofobico. Soffrono dell’ansia della prestazione, degli attacchi di panico e cadono in depressione. Ecco allora che intervengono gli psicologici che normalizzano per raddrizzare i comportamenti patologici: questo è dislessico, quell’altro è depresso, è anoressico, è disgrafico, è turbato, non è intelligente, va facilitato, va aiutato, teniamolo ancora di più a scuola, tempo pieno! L’importante è proseguire e perseguire (altro che il merito) quello che occorre per la società capitalistica: il lavoro. Tanto poi, se non hai voglia, ti prescriveranno direttamente gli psicofarmaci, quelli sì che ti tranquillizzano, e puoi tornare a lavorare più contento di prima.
Ma perché il merito, in particolare quello relativo agli studenti e agli insegnanti, sta catturando l’attenzione di ogni governo degli ultimi anni? In una società familistica e clientelare come quella italiana sembra ironico pensare che il merito nella scuola sia l’unico valore imprescindibile per la nostra società, tanto che viene più di un sospetto che le indicazioni circa il merito provengano direttamente dalla comunità europea e filoamericana, esponente di una cultura molto più produttivistica e capitalistica della nostra, per tacere della componente religiosa che ci distingue culturalmente, nel bene e nel male. Ma allora perché questa morbosa attenzione della politica per il merito è rivolta solamente alla scuola e all’educazione dei giovani? Come se il merito non fosse invece una categoria così importante che dovrebbe riguardare più i professionisti, i politici e i lavoratori che i giovani in formazione.
Ogni regime, anche quello più democratico e liberale, si concentra sull’istruzione base dei più giovani per prepararli prima possibile al mondo del lavoro. La spasmodica ricerca di un presunto merito si focalizza solo sulla scuola, sugli studenti e anche sul corpo docente il quale dovrebbe essere la longa manus del potere. Ma perché invece non estendere il discorso a tutti i lavoratori? Il merito non dovrebbe essere usato piuttosto per valutare i medici, gli architetti, gli avvocati, i notai, i magistrati, i politici? Perché non chiamare: Ministero del lavoro, delle politiche sociali e del merito?
Ora alcune professioni sono valutate dalla competizione stessa della società liberale: se un notaio, un avvocato, un architetto sono bravi lo decide il mercato e la loro parcella. In questo modo però vi è il rischio che il cittadino più ricco possa affidarsi ai migliori, il povero invece debba affidarsi ai peggiori: il ricco va dal medico o dal chirurgo più bravo, il povero da quello più scarso. Si crea una discrepanza a causa della quale il più povero potrebbe trovarsi a ricorrere anche a scorciatoie illegali, con l’effetto di dover constatare un crescente aumento di illegalismi e microcriminalità, nonché di un’ingiustizia sociale. Anche in una società competitiva come la nostra, nella scuola non si dovrebbe mirare alla competizione come strumento per raggiungere il merito. Con un giovane ancora in formazione l’insegnante deve aiutare non tanto i più bravi o i superdotati, che sono spesso anche i più meritevoli e che di solito appartengono a famiglie colte e benestanti, ma proprio coloro che partono da situazioni più svantaggiate: alunni di famiglie povere e spesso poco alfabetizzate, studenti annoiati e poco motivati. Essi vanno il più possibile allenati e allineati al nastro di partenza che poi li inserirà nel mondo del lavoro.
Tra l’altro, innescare una logica meritocratica e individualistica in questa età giovanile fa perdere ancora di più la capacità di collaborare e socializzare, quest’ultima una competenza che nell’attuale società dei computer e dei cellulari è ridotta al lumicino. Se non accettiamo questa banalità non solo non rispettiamo l’articolo 3 comma 2, della Costituzione italiana ma finiamo per creare una società divisa in caste nelle quali ai livelli più alti si inseriranno i più avvantaggiati economicamente e socialmente; nei livelli più bassi le classi meno abbienti. Ancora più grave è stata l’idea di costituire scuole dell’obbligo autonome dove il merito non lo decide individualmente il docente, il quale possiede o dovrebbe possedere le competenze specifiche per riconoscere, selezionare e/o aiutare i singoli studenti, ma lo decide “la fama” della scuola che attira, selezionando, gli studenti più “volenterosi” rispetto a quelli meno volenterosi. Si ritorna ad una concezione classista della scuola dove i più fortunati per nascita avranno molta più possibilità di accedere alla cultura.
Se invece vogliamo giovani preparati e consapevoli (cittadini, prima ancora che lavoratori) dovremmo costruire una scuola che, almeno fino ai diciotto anni, prepari il giovane a studiare poche materie ma che rafforzino le competenze base: saper leggere (letteratura); saper scrivere (italiano); sapersi orientare nello spazio (geografia); sapersi orientare nel tempo (storia); far di conto, sapere misurare e calcolare (matematica); sapere osservare il mondo naturale (fisica, scienze e astronomia); saper parlare la lingua più universale in questo momento (inglese); imparare le regole morali e sociali (diritto, religione). Queste materie andrebbero insegnate a tutti i livelli da sei a sedici anni.
Lo dico perché oggi assistiamo ad un analfabetismo di ritorno proprio tra i giovani studenti: presi dalle tecnologie mediatiche, ma anche da una scuola eccessivamente nozionistica, soffrono di una sorta di “riduzione della complessità”. Infatti, eccessivamente stimolati da troppe informazioni e nozioni, i giovani decidono di non ascoltare più. Il rischio è che i contenuti fondamentali, come la conoscenza del proprio territorio, della cronologia degli avvenimenti o le basi della grammatica e della matematica, non si rinvengono più, neanche alle superiori. Pertanto sarebbe il caso di togliere materie inizialmente non “basilari”. Come avviene anche nello sport o in attività psico-fisiche, prima della “gara della vita” occorre lavorare sui fondamenti. E invece già all’inizio della formazione si vorrebbe selezionare gli studenti inserendo fra l’altro discipline di tutti i tipi, come se la scuola fosse l’unica agenzia di socializzazione. Solo dopo, dai sedici ai diciotto anni, si potrebbero promuovere materie facoltative come arte, filosofia, musica, teatro, chimica, economia, tecnologia ecc. E solo dopo i diciotto anni si potrà lasciare la scuola per iscriversi a dei corsi di specializzazione per l’avviamento professionale di uno o due anni, oppure andare all’università mantenendo la possibilità di passare da un percorso all’altro.
Gli studenti devono trovare qualcosa che li appassioni, che li incuriosisca: in questo periodo della loro vita, devono trovare la propria vocazione. Se arrivano alla maturità e hanno compreso chi sono, cosa vogliono veramente, quello che amano e vogliono fare, allora lo sapranno fare. In questa fase della scuola dove gli studenti si allenano per prepararsi alla vita lavorativa, il merito conta poco. Quello che conta è capire quello che si dovrà fare nella vita. Che fare? Si può respingere l’alunno per un anno, forse due (i tempi di maturazione non sono gli stessi per tutti, come la medicina anche l’apprendimento dovrebbe essere sartoriale), ma se lo studente eccelle in una disciplina e la studia perché appassionato, perché fermarlo per sempre? Hai distrutto la vita di quella persona.
Sospettiamo dello studente ligio al proprio dovere, che va bene in tutte le materie perché è orgoglioso o vuole compiacere la propria famiglia, ma non è appassionato a niente. Spesso questi soggetti abbandonano presto l’università perché non hanno ancora trovato la vocazione, rischiando di svolgere per tutta la vita un lavoro che non gli piace e alienante.
Negli anni ’70 e ’80 del Novecento la cultura era considerata da tutti un bene prezioso, che avrebbe elevato le persone non solo da un punto di vista economico e professionale ma anche morale. Invece oggi sono riusciti a far considerare la cultura come qualcosa che appartiene ad una stretta cerchia di persone e a cui non solo è impossibile accedere ma non deve più interessare. Col paradosso che anche persone mediamente ricche considerano ormai la cultura come un orpello poco appetibile.
La legge Berlinguer voleva andare incontro all’abbandono universitario per permettere alla maggior parte degli studenti di laurearsi per entrare prima possibile nel mondo del lavoro. L’errore maggiore è consistito nel mettere lo sbarramento in ingresso, a monte. In questo modo si agevolano i giovani che provengono da un background elevato e già pronti prima di altri. L’altro grave errore dell’autonomia scolastica e universitaria, all’americana, consiste nel fatto che le scuole e le università devono organizzarsi per procurarsi gli studenti: in base al numero di giovani che riescono a reclutare e soprattutto sul numero di lauree che riescono ad ottenere, potranno accedere ai fondi dello Stato. È un gioco perverso perché si tenderà a far laureare più persone possibili senza ormai nessun criterio di selezione e di merito. Oggi l’università è diventata una specie di liceo avanzato dopo il quale, se uno vuole davvero specializzarsi e migliorarsi, deve seguire master, dottorati, corsi post-universitari quasi tutti a pagamento. Pertanto è facile concludere che anche qui il merito conta poco. Se uno ha soldi, può specializzarsi, andare all’estero e proseguire negli studi.
Gli studenti universitari un tempo dovevano affrontare una dura selezione, dove contava davvero il merito, perché avveniva a valle ed era possibile che si laureassero medici, avvocati, ingegneri provenienti anche da classi sociali più basse. Constatiamo facilmente che i medici non siano più bravi come una volta; che gli avvocati e i magistrati non sappiano più scrivere; che ingegneri e architetti sbaglino i calcoli. Invece i più bravi decidono di andare a lavorare all’estero dove in questo momento pagano molto di più e riconoscono davvero il merito. Ma dove sta l’inganno? Che la vera selezione per merito inizia nel mondo del lavoro, dove le aziende richiedono di perfezionarsi con master e corsi di perfezionamento a pagamento. Pertanto una sana e regolare competizione in Italia non funziona, anche perché si innesta su una cultura familistica in cui trovano il lavoro solo le persone che conoscono “l’amico” o il parente; le altre saranno costrette a fuggire dall’Italia.
I docenti venivano, almeno fino a poco tempo fa, valutati a monte, in base ad esami e concorsi e al merito. Per accedere all’insegnamento, dovevano presentarsi ad un esame scritto, uno orale e un punteggio sulla base di titoli. Ma adesso si sta imponendo una logica secondo la quale occorre migliorarsi continuamente attraverso una formazione permanente, che riguarda soprattutto le competenze digitali e burocratico-amministrative, con l’effetto di obbligare e sorvegliare minuziosamente cosa e come debba insegnare il docente, costretto da una forma capillare di riorientamento, di convincimento e di addestramento continuo. Insomma, la missione vocativa (beruf) dell’insegnante è diventata a tutti gli effetti un lavoro impiegatizio il cui numero di ore aggiuntive è aumentato a dismisura.
Anche nell’università, per insegnare, come è noto e risaputo, si entra attraverso un (finto) concorso, quasi sempre pilotato. I pochi ricorsi o denunce finiscono sempre con il dimostrare quello che si sa già: alcuni notabili e baroni manovrano le scelte e indicano le cattedre. Di solito la cooptazione avviene sulla base dell’appartenenza ad un partito o di una conoscenza, per non parlare del nepotismo o della massoneria. Insomma, anche nell’università italiana dov’è il merito? Così, la maggior parte dei giovani studiosi, ben preparati dagli insegnanti tra i migliori al mondo delle nostre scuole pubbliche, non trovando in Italia terreno fertile per lo studio e la ricerca, è costretta ad andarsene. È la nota e tristamente famosa “fuga dei cervelli”. Tutti gli studiosi che hanno dovuto attraversare le Alpi sanno che nel resto del mondo basta una mail, l’invio di un curriculum, per ottenere una risposta. In Italia la mail, l’invio del curriculum, non servono a niente: non solo per ricevere una risposta positiva o una proposta di un colloquio, ma anche una risposta negativa. Il più assoluto e assordante silenzio. Come spiegare agli stranieri questa indifferenza al merito? Ma qui si aprirebbe un tema ben più ampio: l’antropologia dell’italiano e della sua cultura familistica.