Pierpaolo Naso è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l'Università "Guglielmo Marconi" di Roma, dopo aver conseguito presso l'Università di Roma "La Sapienza" la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. Dal 2023 è iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Ha pubblicato due contributi presso la "Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale" e la "Rivista di Studi Politici", oltre che numerose recensioni presso diverse riviste scientifiche di storia, diritto, geografia, filosofia e scienza politica.

Recensione a: E. Jünger, La pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo (postfazione di Maurizio Guerri), Mimesis, Milano 2022, pp. 96, € 10,00.

Dopo aver letto Ernst Jünger romanziere, appartenente alla Konservative Revolution e teorico di una morfologia del tipo umano – milite, operaio, anarca – non si può non apprezzare il libretto La pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo pubblicato nel 1945 – ma scritto nel corso del conflitto –, ora riedito dalla casa editrice Mimesis.

Oltre che rivolgersi a tutte le generazioni colpite direttamente o indirettamente dalle guerre mondiali, Jünger ha dedicato in particolare questa orazione al figlio Ernstel, mobilitato anch’egli nell’esercito tedesco e caduto in circostanze poco chiare a Carrara. Lo scrittore difatti apparteneva ad una frangia di militari ed aristocratici antagonisti del regime nazionalsocialista. A seguito dell’attentato fallito di Claus von Stauffenberg contro Adolf Hitler, Jünger fu inserito nella lista degli accusati, per poi essere graziato dal Führer stesso, poiché in virtù della alta decorazione pour le mérite ricevuta da Jünger alla fine della prima guerra mondiale, doveva rimanere una figura stimata dai combattenti. Tuttavia venne congedato e rimase sempre più isolato nella cosiddetta «emigrazione interna», analogamente ad altri esponenti della Rivoluzione conservatrice.

Il testo in questione è suddiviso in due parti caratterizzati da titoli figurativi: La semina ed Il frutto. Lo stile di scrittura è difatti inconfondibile per la sua enfasi e per l’utilizzo copioso di metafore che riportano la descrizione della condizione umana in rapporto con la natura genitrice. A differenza dell’operatività estrema tra le Sturmtruppen del primo conflitto mondiale, Jünger si trovò arruolato nella Wehrmacht stanziata in Francia e, da testimone oculare, denunciava la progressiva recrudescenza di questa occupazione, che coinvolgeva civili e militari senza distinzioni. Con riferimento proprio alla seconda guerra mondiale in corso, l’Autore affermava: «Si può ben dire che questa guerra sia la prima opera collettiva dell’umanità. La pace che la conclude dovrà essere la seconda. […] un grande tesoro di sacrifici si è accumulato a fondamento della nuova costruzione del mondo». Inoltre, pose l’attenzione sul «grano cattivo» dell’odio «di cui vanno estirpate le tracce» in favore del «buon grano» della concordia che «per lungo tempo dovrà fornirci il pane» (pp. 11-14). Ed ancora, fece utilizzo riferenti alla fauna: «In certe zone ci si annientò come insetti e ci furono grandi foreste in cui si diede caccia agli uomini come se fossero lupi» (p. 16). Al contempo, le città, da luoghi ordinati di quotidianità, d’arte e di storia si trasformarono interamente in cumuli di macerie e paesaggi sconosciuti.

La pace per Jünger doveva realizzarsi non nella ennesima disgregazione di un mondo diviso in nuovi blocchi – come divenne in realtà –, ma in una svolta unitaria del mondo: una questione che fu in seguito ripresa ne Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione (1960). Tecnica e cosmopolitismo si dispiegavano così nel medesimo scopo. Nello specifico, egli scrisse: «è giunta l’ora dell’unificazione […] l’ora in cui l’Europa fonda sé stessa nel matrimonio dei suoi popoli, si dota di sovranità e costituzione» (p. 32). Secondo l’Autore, vi era la necessità di creare un «ordine superiore» e «planetario» come alternativa per evitare l’annientamento reciproco. I sistemi di comunicazione ed il commercio si affiancavano al progresso tecnologico in un comune processo globale che richiedevano un ampliamento se non proprio una eliminazione dei confini in senso stretto. Nel testo sono riscontrabili i temi inerenti alla totale Mobilmachung e al connesso Arbeiter, che avrebbero potuto rivelarsi elementi unitari verso la pace mondiale.

Jünger ha sottolineato il modo in cui l’umanità ragionava sempre più per differenti prospettive imperiali, nonostante i ripetuti fallimenti d’età moderna. In primis, non ha mancato critiche per le imposizioni del Trattato di Versailles (1919) che portarono ad un peggioramento delle relazioni franco-tedesche, oltre che ulteriori problematiche all’intero continente. Malgrado le divisioni, constatava che non tutto era perduto, poiché «i migliori di ciascun popolo si sono conosciuti» (p. 42), ponendo le basi per una futura riappacificazione post-bellica. Giustizia e diritto non potevano più essere sostituiti da strumenti di vendetta tra uomini che subivano la medesima sorte su fronti opposti: per lo scrittore-soldato l’avversario andava rispettato in combattimento così come durante la tregua. Pertanto rimaneva la problematica del modo in cui si dovesse applicare il giudizio su chi si stava macchiando di crimini: occorreva distinguere il reo dal «guerriero».

In questa orazione jüngeriana per la pace si rivela piuttosto un certo malumore di vivere la guerra detestandone il terrore, le ingiustizie gratuite ed i meccanicismi disumani operati da entrambi gli schieramenti, come già detto, al puro scopo di eliminarsi reciprocamente. Nella guerra «totale» non vi erano più codici cavallereschi da rispettare, ma solo ordini da eseguire ed obiettivi da raggiungere a qualsiasi costo: l’Autore provò qui tutto il suo disgusto per i campi di concentramento in cui degli innocenti venivano condannati per la loro stessa esistenza e per la loro appartenenza ad un popolo o ad una religione. Non si trattò tuttavia di uno scritto pacifista, poiché con ciò Jünger non aderiva al progressismo e non risparmiava nessuno dalla sua polemica. «La pace non può essere fondata solo sulla ragione umana» (p. 51), basata dunque soltanto su meri richiami utopici e trattati difficili da onorare: egli immaginava piuttosto una pace liberatoria dalla guerra, che partisse da un’emancipazione del singolo dall’odio interiormente covato e da una presa di coscienza di un comune destino tra i popoli.

Ad ogni evento storico andava indicato un simbolo di massa, dal «milite ignoto» si passò alla vittima inerme. Potrebbe sembrare strano ed incoerente, ma Jünger, come Nelle tempeste d’acciaio (1920) e ne La battaglia come esperienza interiore (1922), manifestò qui le sue emozioni seppur su termini opposti ma con il medesimo stile, lasciando intendere la presenza diretta sui fatti: egli ha delineato così un filo conduttore a partire da una guerra combattuta eroicamente ad un’altra vissuta con sofferenza, fino alla ricerca meritata della pace. Nel secondo dopoguerra, parallelamente a Martin Heidegger e Carl Schmitt, si confermò da conservatore-rivoluzionario equidistante dalle ideologie predominanti, intendendo superare in più passaggi il nichilismo e criticando le antinomie della modernità. Anche questo portò Jünger a concludere la sua longeva e travagliata vita con l’avvicinamento al cattolicesimo.

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