Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a M. Avigliano, M. Palmieri, Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943, il Mulino, Bologna 2022, pp. 560, € 30,00.
Dopo esserci occupati della “follia antifascista” in una precedente recensione, presentiamo ora un recente volume dedicato alla storia del dissenso durante il regime mussoliniano, volume firmato da Mario Avagliano e Marco Palmieri, già autori di altri saggi importanti sul Novecento italiano. Il libro mette assieme una massa davvero significativa di fonti per cercare di penetrare nei pensieri e nei sentimenti degli italiani davanti ai trionfi e alla rovina del fascismo e, in particolare, ai pensieri e ai sentimenti di coloro che, per le più diverse ragioni, vi si sono opposti, a parole o nei fatti. Per far questo, gli autori non si sono limitati allo studio delle carte di polizia, delle memorie e della corrispondenza di uomini celebri o sconosciuti, ma hanno attinto al vero patrimonio rappresentato dai diari e, in primo luogo, da quelli conservati nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano.
Anzitutto, occorre dire che ripercorrere le tormentose e, per certi versi, disperate vicende dell’opposizione al fascismo significa inevitabilmente affrontare questioni essenziali di quello che potremmo chiamare per brevità il “carattere degli italiani”. Pur cercando di stare lontani dai luoghi comuni, è indubbio che l’epoca fascista abbia mostrato in tutta la loro forza aspetti che caratterizzano tuttora la vita pubblica del nostro complicato Paese.
È a tutti nota la pervasività – dai tratti inevitabilmente paranoici – della sorveglianza e della repressione messe in atto dal regime per difendersi da tutti i potenziali sovversivi. Così, in queste pagine ritroviamo la potenza tentacolare della polizia politica, la diffusione delle delazioni e l’efficacia della censura, tutti fattori che congelarono una intera nazione per venti anni nel terrore di parlare, nel sospetto di essere traditi. Eppure, proprio per questo, tanti italiani vissero combattuti fra la ribellione e la paura, combattuti fra lo slancio “eroico” di un momento e la vigliaccheria che fa rimanere in silenzio per anni. È questo un primo elemento – questa contraddizione, questa scissione fra diversi atteggiamenti (essere antifascisti in privato, fascisti in pubblico) – che ha contrassegnato l’esistenza di tantissimi e, non ultimi, di molti intellettuali. Forse il caso più noto è quello di Norberto Bobbio, che con queste parole cercò di scusarsi molti anni dopo per una sua supplica deferente a Mussolini:
La lettera di Bobbio a Mussolini sarà pubblicata dalla rivista “Panorama” il 21 giugno 1992, accompagnata da un’intervista all’autore in cui dichiara: “chi ha vissuto l’esperienza dello Stato di dittatura sa che è uno Stato diverso da tutti gli altri. E anche questa mia lettera, che adesso mi pare vergognosa, lo dimostra. […] La dittatura corrompe l’animo delle persone. Costringe all’ipocrisia, alla menzogna, al servilismo. E questa è una lettera servile”. […] “Ero immerso – spiegherà in un’altra intervista – nella doppiezza, perché era comodo fare così. Fare il fascista fra i fascisti e l’antifascista con gli antifascisti. Oppure, e lo dico per dare un’interpretazione più benevola, era solo uno sdoppiamento quasi consapevole tra il mondo quotidiano della mia famiglia fascista e il mondo culturale antifascista” (pp. 142-143).
D’altra parte, l’indubbia efficacia della propaganda e della violenza fasciste non devono farci credere che essere siano riuscite a cambiare nel profondo la mentalità degli italiani. Si tratta di riprendere in un certo senso ciò che, ad esempio, Pasolini ha sostenuto della pervasività del vecchio fascismo mussoliniano, del tutto superficiale rispetto a quella del nuovo fascismo (quello sì totalitario), rappresentato dalla società dei consumi. Prove ne sono non tanto le critiche, le satire, le lamentele che, comunque, in qualche modo gli italiani si permettevano, fra mille cautele, e neppure la scelta ideale di quelli che scelsero la via dell’esilio o che, per aver detto o scritto qualcosa di sovversivo, finirono in prigione e o al confino. Ciò lo si vede, invece, innanzitutto dalla rapidità con cui, nel giro di una notte, l’Italia del 25 luglio 1943 si scoprì antifascista. E le cronache di questa “rinascita”, raccolte da Avagliano e Palmieri sono, a volte, persino comiche. Ricordiamo invece qui soltanto alcune parole di Pietro Nenni su quel momento cruciale: «Mussolini è un vinto, è l’eroe dannunziano che, ruzzolato dal suo trono di cartapesta, morde la polvere e non c’è attorno a lui che gente che lo rinnega per volgersi verso altre mangiatoie» (p. 465). È persino banale ricordare quanto gli errori nella strategia militare, così come la stessa scelta di entrare in guerra con i nazisti, siano stati determinanti nel determinare o, almeno, nell’accelerare la caduta del regime. Il malcontento per la miseria e la fame intollerabile, per i soldati al fronte e per i bombardamenti, ha fatto repentinamente mutare l’idolatria per Mussolini in una avversione incontenibile. Ciò conta molto, soprattutto per tenere sempre presente come l’antifascismo sia stato un fenomeno molto variegato e non limitabile alla sola opposizione ideologica, la quale, anzi, ha rappresentato per molti anni una scelta assolutamente disperata appunto perché l’Italia sembrava inamovibile nella sua devozione o, almeno, nella sua acquiescenza verso il regime. A fianco dell’antifascismo politico, quello dei partiti e dei sindacati, c’è stata tutta una serie di altre forme, più o meno “convinte” di dissenso – un “antifascismo popolare” che si esprimeva talvolta anche in modo velleitario, “naif” persino. È il caso, solo per fare un esempio, della miriade di “offese al duce”, previste come reato dalle leggi fasciste e puntualmente registrare negli atti giudiziari. Spesso si trattava soltanto di proteste dovute all’alcol (un “antifascismo da osteria”, si potrebbe dire) e che, però, valevano comunque anni di confino.
A partire dalla fine degli anni Trenta, dopo l’avvio, con la guerra di Spagna, della “guerra civile europea” che avrebbe condotto alla catastrofe del 1945, e dopo l’avvio della fase imperiale del fascismo (il famoso “impero di cartone”), il consenso al regime cominciò a traballare, non potendo più la propaganda colmare i vuoti della realtà concreta, soddisfare le aspettative deluse. In particolare, per la generazione nata e crescita sotto il regime, il crollo di quest’ultimo fu una specie di risveglio, tanto liberante quanto doloroso. Tutto il mondo in cui erano vissuti non era che finzione, illusione e violenza.