Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Recensione a: G. Bachelard, La fiamma di una candela (1961), trad. it G. Alberti, SE, Milano 1996. pp. 102, € 17,50.
La flamme d’une chandelle venne pubblicato nel 1961, un anno prima della morte del suo autore, Gaston Bachelard. Il testo comparve per la prima volta in italiano nel 1981, grazie alla casa editrice Editori Riuniti di Roma, nella traduzione di Marina Beer. Oggi l’edizione più semplice da reperire è senz’altro la successiva, del 1996, pubblicata dalla casa editrice SE di Milano, nella traduzione di Guido Alberti.
La fiamma di una candela, un fenomeno chimico fisico, certo, ma anche un simbolo che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi. La fiamma, che in una certa misura ha protetto gli antenati dal buio, contribuendo a formare le rappresentazioni collettive – esecutive, iconiche, simboliche – che hanno arricchito i significati della vita di tutti i giorni, del buio e della luce, dei modi di stare al buio e alla luce. Ma non tutte le fiamme di candela sono uguali, infatti per provocare una buona fiamma c’è bisogno di buon materiale: uno stoppino di cotone di qualità, del buon olio e un portacandela adeguato per affrontare il tempo in cui la candela dovrà essere luce, dovrà essere fiamma. La fiamma di candela ha una caratteristica che poeticamente viene approfondita da Bachelard in alcuni passaggi del suo testo: essa cresce a vista d’occhio man mano che brucia, si verticalizza sempre più con lo scorrere del tempo. All’avvicinarsi della sua morte, la fiamma è alta, solo poi non resta che qualche zampillo arancio qua e là, prima di diventare fumo, niente altro che fumo e ricordo della luce che è stata. Non è tutto: il ricordo che rimane, per i primi secondi, sembra il prodotto di una allucinazione, come se il buio non fosse ancora del tutto buio, un poetico inganno oculare.
L’attenzione di Bachelard al fenomeno della fiamma di candela non si limita a riconoscere i significati nella filosofia, ma estende lo sguardo e le linee di forza anche alla letteratura, riportandone diversi esempi. Dal canto nostro, per non svelare il già breve (e prezioso) testo bachelardiano, non possiamo che ricordare le altre sensibili fiamme che hanno accompagnato i personaggi nei vascelli di Conrad, le soffuse luci della sera che si intravedono dai boschi limitrofi al Berghof, il sanatorio che ha ospitato Hans Castorp, il personaggio principale della Montagna incantata (o magica, a seconda della traduzione) di Thomas Mann. E che dire invece delle luci notturne provenienti dal comodino del piccolo Proust? Certo, si dirà, non si tratta di fiamme, ma è pur sempre calore che riscalda, che dona luce a pensieri ‘sotterranei’, a quella memoria involontaria che ha accompagnato Proust e Mann nella scrittura di capolavori che oggi si ritrovano nelle mani di noi lettori.
Se rimane un caso singolare il tentativo di Bachelard, poetico e allo stesso tempo rigoroso, diversi decenni prima un altro scrittore, Junichiro Tanizaki, segnalava il declino delle candele e delle lanterne, della luce calda, soffusa, pensosa, nel Giappone della prima metà del secolo XX. Un trauma, una apocalisse, questo emerge dalle righe del Libro d’ombra di Tanizaki; parole fredde e sensibilissime, che denunciano la progressiva scomparsa delle candele, accese con del buon olio, che consentivano di svelare a poco a poco le pitture nelle pareti dei templi, e che illuminavano mai del tutto i gabinetti che servivano alle geishe per le loro procedure di igiene e trucco. Le luci alogene, invece, si accendono e mostrano tutto simultaneamente. Nessuna sequenzialità, nessuna dilazione: solo istantaneità. Le riflessioni di Tanizaki portando alla memoria il primo racconto de Il Muro di Jean-Paul Sartre: una stanza completamente bianca, accecante, e per questo priva di ripari: è questo lo scenario di partenza in cui si ritrova il personaggio sartriano.
Il Novecento, dunque, come un problema di illuminazione. Da una parte, la tradizione di una illuminazione sequenziale, narrativa, dilazionata, che illumina gradualmente e rispetta la presenza del buio, assicurandone la presenza costante di una porzione (la qualità soffusa della luce); dall’altro verso, le luci alogene che scacciano il buio, illuminano ogni lato e ogni angolo, rendono visivo e visibile tutto. Porgendo l’attenzione alla fiamma della candela, Bachelard e Tanizaki, rendevano necessaria una riflessione forse mai tentata in precedenza: la riflessione sulla tendenza, della società moderna, a farsi pornografica, trasparente, irrimediabilmente consultabile. Non solo, seguendo Bachelard nel suo percorso di luci soffuse e peregrine, scopriamo una gamma larghissima di modi di vivere nell’attesa: la fiamma come elemento frontale che addolcisce e sensibilizza l’attesa, portandola oltre la noia, oltre il tedio e l’assenza di qualche cosa da fare. La fiamma, con il suo arancio che continuamente e talora illusoriamente si organizza verso nuove crome, stabilizza l’attenzione, allarga la visuale oltre se stessa, fino all’aptico e al propriocettivo.
Un alimento verticalizzante, un nutrimento aereo: avere frontalmente una fiamma significa per Bachelard concedersi la grande possibilità di una elevazione per riduzione di peso. Sembra una operazione calviniana, di sottrazione degli elementi a mano a mano che l’esperienza si spiralizza e si raffina. Già in Psicoanalisi del fuoco Bachelard aveva esplorato questa dimensione vicariante nel rapporto tra l’uomo e gli elementi terrestri. Lo scricchiolio della legna che arde, le fiamme che scaldano e ornano una situazione, scaldano e arricchiscono la singolarità del soggetto.
L’autore di questa opera, che nel nostro paese non ha avuto tutta la fortuna che meritava, era consapevole che la questione riguardante la luce e l’ombra sarebbe stata centrale negli anni tra il XX e il XXI secolo. «Siamo entrati nell’era della luce amministrata» e «il nostro unico ruolo è girare un interruttore»: sono solo alcune delle frasi che consentono al lettore di conoscere la posizione di Bachelard rispetto a questo tema. Non solo, forniscono una visuale differente per leggere e approfondire la questione foucaultiana dei regimi scopici, dei modi con e attraverso cui le società decidono che cosa mostrare e in quale modo. La questione dei dispositivi, ancora una volta foucaultiana, non può prescindere da una rigorosa analisi dei fenomeni luminosi e dei loro sviluppi. Le fonti di calore e le fonti luminose cambiano con l’avanzare delle scoperte tecnologiche, e di conseguenza modellano «la grammatica del vedere», per utilizzare una formula di Gaetano Kanizsa, figura centrale della gestalt triestina del Novecento.
Attraverso queste trasformazioni scopiche l’uomo guadagna e perde delle tradizioni, dei comportamenti, e in definitiva guadagna e perde modi di “navigare” dentro il reticolo della complessità. Perché, come ricorda Bachelard, è distante il tempo in cui «le vecchie domestiche di casa custodivano le lampade degli antenati» e «sapevano trovare per ogni grande evento della vita domestica la giusta lampada»; una complessità che oggi è stata dimenticata, per lasciare spazio ad una luminosità alogena che uniforma e appiattisce gli scenari, avvicinandoli all’appiattimento bidimensionale degli strumenti tecnologici.
La fiamma della candela era una compagna che non raramente attirava a sé lo sguardo: avviava un processo esegetico, una sosta attraverso il verbo indugiare. La verticalità della fiamma, è bene ribadirlo, non fungeva solo da ornamento, non se ne stava a lato della stanza: era una presenza centrale e silenziosa simile al fruscio del vento ma allo stesso tempo una presenza solida che consentiva la produzione della soggettività, invitando l’uomo a curvare l’attenzione nel frammezzo tra lui e la piccola fonte verticale. Nel buio, ma non totale.