Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Recensione a
D. Mencarelli, Tutto chiede Salvezza (Milano, Mondadori, 2020, pp. 204, € 19,00) e all’omonima serie tv: Tutto chiede salvezza (regia di F. Bruni).
Il 14 ottobre scorso, su Netflix, è uscita la serie tv Tutto chiede salvezza, ispirata al romanzo di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020. La serie, diretta da Francesco Bruni, racconta la storia del ventenne Daniele, che a seguito di una violenta esplosione di rabbia in casa, viene sottoposto al TSO. Sette giorni, raccontati in sette episodi: una vertiginosa discesa nelle profondità del dolore e della incomprensione. Una discesa collettiva, perché nel libro e nella serie tv, il protagonista non è solo Daniele, ma tutti i suoi compagni di reparto, ognuno a fare i conti con il proprio destino, momentaneamente segnato dalle sferzate della sofferenza mentale, e nondimeno ognuno impegnato a fare i conti con uno stigma sociale che non trova tregua nemmeno tra le mura del reparto di psichiatria.
Così l’autore Daniele Mencarelli a proposito dell’esperienza di TSO avvenuta nell’estate del 1994:
Le prima persone con cui ho parlato veramente di me, che mi hanno accolto senza riserve, sono quelli che all’inizio del libro giudico come pazzi, malati. I miei compagni di stanza, che diventeranno fratelli, uomini pronti a concedersi interamente all’esistenza, al punto da farsi male con tutto.
Daniele impiega qualche giorno per rendersi conto del potenziale di quell’esperienza, che pur sempre rimane un’esperienza a nervi scoperti, dove per la prima volta si deve incontrare se stessi, in un continuo movimento esegetico, di curvatura e di attenzione verso di sé. Il mondo, per una settimana, diventa il mondo interiore, fatto di tante singolarità, ognuno impegnato con le proprie catene umbratili del pensiero, e qualcun’altro invece preda di un’angoscia psicotica senza fine, che continua a propagarsi da tempi remoti (a causa di circostanze che hanno dato vita al trauma, alla fine del mondo, così come la chiama Eugenio Borgna nel suo libro sulla schizofrenia Come se finisse il mondo); un’angoscia che per molti compagni di Daniele sarà, ogni giorno e ogni notte, tempo presente e immobile.
Ancora Mencarelli:
Ai miei occhi, i primi giorni di TSO apparvero come il presagio di ciò che mi attendeva dalla vita. Erano i miei compagni di stanza a dar vita a quel presagio, dentro di me mi ripetevo “tu diventerai come loro”, ovvero un reietto,[…] che vive in una realtà e in un tempo diverso da quello degli altri. Poi li ho conosciuti davvero. E ho capito. La loro fragilità meravigliosa, l’incapacità di sottrarsi alle emozioni che governano il mondo, la ferocia disumana nel guardare se stessi.
Paura di impazzire, paura di perdere il controllo e di morire: i temi che vengono chiamati in causa dall’autore e dal regista Francesco Bruni sono temi di una profonda attualità: sono i temi centrali della sofferenza di milioni di adolescenti e adulti. Ma nel reparto succede qualcosa di più: queste paure si fanno corpo, espressione di tutti i compagni che sono di fronte al protagonista, ogni ora, e che sembrano agli occhi di un giovane Daniele dei soggetti indifesi, sfibrati, inconsistenti, ma che a poco a poco, conoscendoli e iniziando a sviluppare una cornice di senso comune, si dimostrano persone pur sempre inserite in una vasta gamma di crome sentimentali, impossibili da ridurre a diciture diagnostiche e a statistiche sintomatologiche; persone che si affidano alla fragilità, per qualche giorno o per qualche mese, e che cercano di strappare una briciola di senso al vuoto straziante che incalza ad ogni alba di nuovo giorno.
Certo, durante il ricovero ci sono medici, infermieri e altro personale sanitario pronto a donare del tempo di cura ad ognuno di loro; persone indispensabili che con le loro conoscenze e intuizioni sono in grado di fornire un nuovo modo di guardare e soprattutto un nuovo modo di stare nel mondo e nella relazionalità, nella singolarità. Ma nel libro, nella serie tv e purtroppo ancora nella realtà in questi reparti e in ogni luogo dove si teorizza e si rende operativa una certa psichiatria e una certa psicologia non tarda ad arrivare il riduzionismo, lo stigma che sottrae ad ogni persona la propria dignità, ferendola. Ecco che i soggetti si trasformano in aggregati funzionali che quando non rientrano nella norma statistico-sanitaria, diventano portatori di coscienza alterata, disfunzionale o morfo-disfunzionale. Termini come periodo di osservazione, ricaptazione, serotonina, feedback, iniziano a circolare nelle bocche di chi dovrebbe garantire una certa sicurezza e una certa accoglienza a chi sta soffrendo, indipendentemente dal modo in cui questa pleiade di emozioni va esprimendosi.
Tra questi fenomeni paradossali, nella serie tv, ci sono nondimeno delle caratteristiche estetiche, non facilmente coglibili: tra questi, dietro la scrivania della dottoressa che ha in cura Daniele, e che sta spiegando al ragazzo il significato della ricaptazione della serotonina, un manifesto che rappresenta Jacques Lacan.
Nella settimana di TSO che racconto, dentro quella stanza di reparto psichiatrico assieme ad altri cinque uomini, ho avuto modo di rendermi conto di quanto il bisogno di Dio sia ancora centrale, determinante, in grado di innalzare l’uomo e avvicinarlo alla gioia, oppure di gettarlo nello sconforto più assoluto, sino alla follia.
Sentire Dio accanto e dentro di sé, sentire cioè qualche cosa in più della semplice somma che rappresenta il contesto, qualche cosa in più della mera percezione nella singolarità; tale necessità trova anche come suo slancio l’aridità delle categorizzazioni psichiatriche, e l’asetticità del reparto sia in termini estetici che in termini di potenziale espressivo. In assenza di un contesto (di un ecosistema) in grado di garantire a ogni paziente, a ogni persona, un certo quantitativo di possibili, di esperienze esegetiche ed evocative, poche sono le ‘strade’, e tra queste agli estremi troviamo il suicidio e la ricerca di senso spirituale. Ma questo più spirituale, come detto qui sopra, non coincide sempre con Dio e con la religione. Daniele incontra, tra i compagni di reparto, chi trova la dimensione ulteriore in un amico uccellino che si affaccia ogni mattina alla finestra, chi recita litanie addolorate che prendono il là dall’immagine della Madonna, chi come Daniele cerca una ragione di vita nella scrittura (all’inizio nella poesia), e chi nell’amicizia, nella possibilità di instaurare con gli altri presenti non solo un rapporto ospedaliero, ma magari anche duraturo nel tempo e capace di esistere anche oltre le mura del reparto.
Daniele, provocatoriamente e nondimeno rimanendo ancorato al principio di realtà, pensa che sia il mondo lì fuori che ha bisogno di una cura: perché è li fuori la vera incomprensione e la vera pazzia. Certo, si possono leggere le parole di Daniele come parole che sgorgano da un ragazzo ferito, esistenzialmente ed emotivamente; ma non è solo questo. Nel fondo di queste asserzioni c’è un nucleo traumatico e vero. Infatti Daniele, in un episodio della serie tv, non si limita a individuare l’incomprensione e la pazzia come fenomeni circolanti nella società, ma aggiunge: se alcuni tra di noi sono qui dentro (dentro il reparto di psichiatria) è perché si sono ammalati a causa della società malata. L’autore-personaggio si avvicina così a una certa psichiatria fenomenologica del secolo scorso, e che ha avuto proprio in Italia tra i suoi massimi esponenti Basaglia, Borgna, Jervis, Callieri, Cargnello, Barison e le migliaia di operatori sanitari che hanno contribuito alla formazione di una certa consapevolezza relativa la malattia mentale: non più contrapposta al vago concetto di normalità, ma proprio come la normalità altrettanto influenzata dall’ambiente, dalla politica, dalla storia, dalla cultura.
Un malato mentale, una persona che soffre psicologicamente, non sono soggetti che vivono la malattia e la sofferenza in ogni campo della loro vita, in ogni momento della loro esistenza. Anche il malato più grave non lo è sempre con la stessa intensità, con le stesse inclinazioni e desideri. Questi sono temi che sia nel testo che nei sette episodi emergono con una certa forza: l’autore e il regista hanno colto la necessità di riportare alla luce, seppur indirettamente, questa complessa questione, che in Europa ha avuto le sue massime teorizzazioni e applicazioni, almeno fino agli anni Ottanta.
La storia narrata incomincia nell’estate del 1994, e soprattutto attraverso la serie tv, lo spettatore può farsi un’idea di quelle che erano le curve di visibilità e le curve di enunciazione imposte da una certa psicologia e da una certa psichiatria. Ma l’estetica del reparto, il linguaggio dei medici psichiatri, la gestione dell’asimmetria medico-paziente, le reazioni dei parenti durante le telefonate e le brevi visite, e molto altro, rappresenta uno scenario ospedaliero italiano molto simile anche a quello odierno.
Tra gli aspetti che emergono con maggiore forza, c’è sicuramente l’impossibilità di coltivare le passioni. Non c’è interesse nel conoscere il modo in cui ogni persona ricoverata gestiva il proprio tempo prima del TSO. Invece questo è fondamentale ed era già presente come indicazione di cura ancora prima dell’entrata in vigore della legge Basaglia (180, 1978). La cura non può mai essere solo cura del cervello, fisico-chimica, attenta alle trasmissioni elettriche su ‘maglie’ nervose. In questo senso la cura diventa sistemazione di un aggregato. La cura invece è sempre totale e deve costruire ponti, continui, con quello che è stato e non c’è più, e quello che sarà e non è ancora; per fare ciò è necessario chiamare in causa sia i desideri che le passioni che animavano e animano la persona sofferente. È solo attraverso un certo modo di fare la propria espressività che la persona può da un lato continuare nella formazione della propria identità e nel suo vivere singolare, e dall’altro affrontare il tortuoso percorso nelle fenditure traumatiche, sconvolte dalla patologia.
La formalità del reparto psichiatrico descritto dall’autore, e rappresentato negli episodi dal regista Bruni, è una formalità che sembra non lasciare spazio alcuno alla singolarità (all’intimità) dei pazienti; di questo ne risentono anche gli infermieri e i medici che, quando ne hanno il tempo, si concedono di raccontarsi ai pazienti, in tutte le loro fragilità, sospendendo momentaneamente il ruolo ‘granitico’ del professionista sanitario. È qui che si percepisce l’esperienza comune della cura: nella necessità di tutti a inserirsi negli spazi vuoti, per cercare di esprimere l’inesprimibile, ricercare parole per confessare l’inconfessabile. Certo, la rigida organizzazione del tempo e dello spazio dell’ambiente ospedaliero non garantisce, a chi ci lavora e a chi si sta curando, la giusta quantità di momenti espressivi; proprio per questo, non deve colpire la mancanza quasi totale di altre forme di terapia. Mi riferisco alla terapia psicologica, alla socioterapia, all’arteterapia.
«A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato, a quello mi sto abituando, ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio». Così Daniele, nel suo testo, con parole che riflettono sul senso umbratile dell’esistenza; parole che coinvolgono l’essere umano sia biologicamente che socialmente. Talvolta, l’esperienza del dolore mentale (esistenziale) dischiude punti interrogativi inenarrabili. L’esperienza della sofferenza in e attraverso sé, è un’esperienza senza conclusione; può essere curata, la persona può tornare a vivere con una certa propulsione in tutti i campi che costituiscono la sua vita, tuttavia rimanendo annidata ad alcune domande dal nucleo costitutivamente opaco, che non si lascia illuminare a giorno. Ma non è esattamente questo annidamento che contribuisce a rendere la vita una vita ricca, dove tale ricchezza assume la sua colorazione non dalla condizione di equilibrio ma dalla sua mancanza? Non è forse il movimento omeoretico (e non unicamente omeostatico) a determinare ciò che siamo, in termini di specie e in termini di singolarità/collettività?
Per tornare alla riflessione di Daniele, è decisamente più vertiginosa e terrorizzante l’idea di un essere umano frutto di un aggregarsi stocastico (casuale), piuttosto che un essere umano malato, specie se tale malattia, tale sofferenza, non si limita a venire riconosciuta come una deviazione dalla norma dei comportamenti – definizione utilizzata nell’ambiente della farmacopsichiatria e della statistica applicata alla psicologia –; ma viene anche riconosciuta come una forma di vita tra le tante che costituiscono e attraversano la persona. Ancora: una forma di vita, in quella persona, in quel momento storico, in quell’ecosistema.