Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
H.-M. Enzensberger, Artisti della sopravvivenza. Sessanta vignette letterarie del Novecento, Einaudi, Torino 2022, pp. 184, € 19,00.

C’è un fascino irresistibile nelle vite degli scrittori. Chi ha scritto capolavori, chi ci ha regalato romanzi che ci segnano e ci trasformano, devono necessariamente – viene da pensare – avere avuto una esistenza eccezionale, il che – ovviamente – non sempre corrisponde al vero. In questo suo ultimo lavoro, Hans Magnus Enzensberger ha messo insieme una sessantina di «vignette», ovvero i ritratti di scrittori che sono sopravvissuti al Novecento delle ideologie, delle guerre, delle correnti letterarie e dei premi Nobel.

Da dove prende Enzensberger il termine “vignetta”?

La parola francese vignette (da cui l’italiano “vignetta”) è il diminutivo di vigne e inizialmente designava solo la varietà di vite, in seguito anche l’etichetta sulla bottiglia di vino. Col passare del tempo la parola è passata a indicare gli ornamenti lungo i margini in tipografia. Con questo termine si indica anche un tipo di ritratto particolarmente in voga nell’Ottocento, quando andava di moda raffigurare il volto di persone care su dipinti in miniatura di forma ovale, che spesso venivano portati al collo e fungevano da souvenir o da amuleto. In tali vignette l’immagine sfuma verso i margini svanendo gradualmente nello sfondo (p. XI).

Possiamo dire che in questo libro non siano raccolti veri profili biografici, né i giudizi di un critico, ma come una serie di lampi, che illuminano un carattere, lo stile, un elemento essenziale di ogni autore. D’altra parte si tratta anche di una raccolta di memorie, degli incontri con tanti scrittori che Enzensberger ha fatto nel corso della sua lunga esistenza, riportandone ancora le impressioni ricevute, la simpatia o l’antipatia suscitata.

Dunque si tratta di artisti (i nomi fra i più significativi della letteratura mondiale, da Singer a Pound, da Canetti a Musil, da Malaparte a Pasternak) che, in un modo o in un altro, sono riusciti a sopravvivere. Come? Eclissandosi o buttandosi nella storia, vincendo o perdendo la battaglia con il successo. Per tutti, comunque, il proprio talento, il proprio bisogno di essere scrittori, di vedere il proprio nome stampato su una copertina, e persino l’ossessione stessa della scrittura, sono stati temibili avversari da affrontare. Tanti si sono dovuti barcamenare fra censure, epurazioni e occupazioni straniere, hanno dovuto lottare contro la miseria o l’oblio del pubblico, ma in tutti ha pesato indubbiamente soprattutto il demone della letteratura. Per difenderlo, per imporlo, alcuni hanno scelto la via dell’esilio, hanno provato semplicemente a trovare un guscio confortevole dove lasciar scorrere fuori i guai della storia; altri – pensiamo a Sartre – hanno usato le proprie doti per esaltare la propria presenza nel mondo:

l’esagerazione era una strategia di Sartre. Ci sono buoni motivi per credere che, così facendo, l’ambizioso, superdotato e zelante scrittore volesse compensare due cose: la cataratta, di cui soffrì sin da ragazzo e che lo rendeva sempre più strabico, e il suo nomignolo a scuola, dove lo chiamavano «le petit homme» perché era alto solo 1,56 m (p. 104).

Proprio l’esempio di Sartre viene a proposito per rappresentare uno dei due atteggiamenti fondamentali che gli scrittori di cui parla Enzensberger hanno avuto verso tutto ciò che era politico. Da un lato l’artista engagé, fino a raggiungere le vette aberranti dei poeti che scrivevano in lode di Stalin (Brecht, Neruda); dall’altro lato, tanti esempi di “irresponsabili politici”, di uomini a cui delle sorti del mondo in fin dei conti non interessava nulla (citiamo solo Cocteau) e che, invece, usavano le ideologie senza pensare alle conseguenze – basti pensare a Gottfried Benn.

Un altro aspetto affascinante di queste vignette è la questione del rapporto fra il successo e la morte. In alcuni casi, la fine è arrivata troppo presto: ecco che Vasilij Grossman morì «nella convinzione che il suo libro [Vita e destino] sarebbe rimasto disperso per sempre» (p. 103); in altri casi, invece, la morte ha aspettato in modo da permettere agli autori di veder riconosciuto il proprio valore, di avere un anticipo di eternità già qui sulla terra (senza, peraltro, riuscire a risolvere davvero alcun problema, a essere davvero soddisfatti).

Cosa resta della immortalità (annunciata in alcuni casi senza troppo fondamento) di tanti “artisti della sopravvivenza”? Non restano che libri, ovviamente. Biografie da migliaia di pagine, pesanti raccolte della loro corrispondenza… Enzensberger, però, pare essere stato attento soprattutto ad un preciso genere di cenotafio, ovvero ai volumi della prestigiosissima Bibliothèque de la Pléiade: forse ancora più del premio Nobel, essa rappresenta la consacrazione che può mettere la parola fine a tante fatiche, a tante ansie, a tante amarezze:

Le sue spoglie mortali – qui parla di Céline – riposano nel cimitero di Haut-Meudon; una tomba degna di un classico gli è stata tuttavia approntata con tutti i crismi nella Pléiade: cinque volumi stampati su carta India e rilegati in pelle e quattromila lettere. Il caso Céline non sarà il primo né l’ultimo a dimostrare che, almeno in letteratura, è possibile sopravvivere alla propria morte ancora per un bel pezzo (pp. 72-73).

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