Annamaria Amato è Ricercatore a tempo indeterminato di Storia delle Istituzioni politiche (SPS/03) all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Architettura.
Recensione a
P. Polito, Un’altra Italia
Aras Edizione, Fano (PU) 2021, pp. 261, € 19,00.
Il libro di Pietro Polito, Un’altra Italia, si presenta sotto forma di raccolta di saggi corredata da una appendice antologica, il tutto sistematizzato e strutturato per un verso, intorno alla figura di Piero Gobetti e ai gobettiani (molti dei quali sono quelle personalità verso cui l’A. riconosce il proprio debito di uomo e di intellettuale) e per un altro intorno alla figura del maestro dello stesso Polito, e cioè Norberto Bobbio.
L’A. si sofferma su una ventina di figure e immediatamente il riferimento che viene da fare è al classico di Galante Garrone, I miei maggiori, pubblicato nell’84 – che peraltro dà il titolo al primo capitolo del libro stesso – e non solo per impostazione metodologica, ma anche per affinità culturale profonda. Tuttavia, scorrendo l’indice, è anche un altro il titolo che a me è venuto alla memoria, quello cioè di un testo che Giovanni Spadolini aveva pubblicato l’anno precedente, L’Italia di minoranza che, mi sembra, ben rappresenti, da un punto di vista strettamente storico, sia il percorso che l’eredità politica di quell’Italia altra, di cui Polito ci parla in questo suo ultimo libro. Quella tradizione politico-culturale, cioè che ha lasciato un’eredità enorme, ma al tempo stesso è rimasta minoritaria, per non dire elitaria.
Una tradizione che nasce grazie al contributo intellettuale di alcune personalità tutte sostanzialmente “vinte”, perché protagoniste di un’opposizione irriducibile al fascismo e quindi costrette chi all’esilio, chi al carcere, chi alla clandestinità o al ritiro dalla vita pubblica, quando non sono morte combattendo per i propri ideali. Basti pensare ad alcuni dei protagonisti di cui Polito scrive: Gobetti, Gramsci, Einaudi, Aldo Capitini, Franco Antonicelli, Ernesto Rossi, Silvio Trentin, Leone Ginzburg, Guido Dorso e, punto di riferimento di tutti in un rapporto di concordia discors, Benedetto Croce. Proprio per il rapporto complesso che gli intellettuali da lui trattati hanno con il filosofo, molti dei quali erano più salveminiani ed einaudiani che crociani, Polito, sceglie di puntualizzare di Croce l’aspetto legato ad un momento molto specifico del suo antifascismo, coincidente con il discorso pronunciato in Senato il 24 maggio 1929, contro l’approvazione dei Patti Lateranensi, che rappresenta una lezione sul rapporto tra politica e morale, prendendo spunto dalla difesa dello Stato laico, che porta Croce a sostenere che Parigi “non val bene una messa”, nella misura in cui le questioni di coscienza sono talvolta prioritarie rispetto al machiavellismo politico. Ed in quel momento storico era un monito di non poco conto.
Sono tutti nomi, quelli richiamati poco più sopra che, insieme ad altri che incrociamo nella lettura o direttamente o sotto forma di riferimenti bibliografici, come i fratelli Rosselli, Amendola, Matteotti, Spinelli, rappresentano appunto anche il pantheon ideale di coloro i quali, nell’Italia repubblicana, si sono poi schierati con i partiti laici minori di ispirazione azionista, liberal-radicale, repubblicana e social-democratica e che almeno sino alla fine degli anni Ottanta e agli inizi anni Novanta, avevano svolto un ruolo importante negli equilibri politici del nostro paese “garantiti” dal sistema proporzionale, ma che rappresentavano appunto, quell’Italia di minoranza di cui parlava Spadolini, un’Italia alla quale lo stesso storico e politico, apparteneva.
L’humus comune a tutti è l’antifascismo, per un verso quello militante e per un altro quello più strettamente culturale, cui sono legate le altre e gli altri maggiori di Polito. Un’ampia fetta dell’antifascismo culturale viene rappresentato dall’A., attraverso una nutrita schiera di donne che a quell’ideale si sono ispirate, alcune anche per legami personali soprattutto con Piero Gobetti. Primeggiano, infatti le due “primedonne” di casa Gobetti: la pedagogista Ada Prospero Gobetti – la quale si ispirava alla massima secondo la quale, «il conformismo è il peggior nemico del progresso”; e tale principio costituiva la sua premessa metodologica volta ad una costante politica educativa delle nuove generazioni che era stata un’idea condivisa con il marito Piero – e Carla Nosenzo Gobetti, nuora di Piero e moglie di Paolo, ma soprattutto anima attivissima del Centro Studi Gobetti fondato nel ’61 a Torino, insieme alla suocera e al marito, intorno al quale fu capace di reincarnare lo spirito del suocero nel suo ruolo, per riprendere la nota definizione di Gramsci, di “formidabile organizzatore di cultura».
Tra le altre notevoli figure di donne che hanno arricchito il suo personale percorso intellettuale, Polito traccia un profilo di una militante comunista, Camilla Ravera, vista soprattutto attraverso la lunga, sebbene intermittente, frequentazione tra lei e Ada Gobetti; di Bianca Guidetti Serra e del suo culto per la democrazia e di Liliana Segre, quest’ultima invocata nel suo ruolo di testimone dell’Olocausto e in qualità di paladina della irrinunciabile memoria che, ad avviso della senatrice, bisogna esercitare costantemente nel non perdonare, non odiare e non dimenticare grazie ad un impegno che lei stessa aveva iniziato a condividere già con Primo Levi.
C’è poi un profilo, eccentrico quanto per certi versi inatteso, di Pier Paolo Pasolini, che viene collocato anche lui tra gli incrollabili antifascisti. Una personalità, quella di Pasolini, che Polito così giustamente riassume:
Critico inesorabile del tecno-fascismo, antropologicamente comunista eppure reazionario perché nostalgico del mondo contadino, trasparente nella sua sfida omosessuale quando il prezzo da pagare era molto alto, irregolare, Pasolini è l’espressione di una resistenza intellettuale che è l’esatta antitesi del fascismo: una posizione incollocabile, irriducibile a ogni appartenenza finanche a quella dell’anticonformismo militante e paradossalmente liberale (gobettianamente parlando) nell’estrema difesa dell’individualità, della singolarità, dell’alterità, dell’autonomia (p.46).
Come dicevamo, l’antifascismo si rinnova a partire dai “martiri”, primo di tutti e forse, su tutti, Piero Gobetti, “l’Arcangelo della rivoluzione liberale” – come lo definisce proprio Spadolini – con il quale l’autore intrattiene un colloquio intimo, direi esistenziale, da decenni, finendo, come spesso accade agli esegeti più sensibili, con l’identificarsi con l’oggetto del proprio studio. Gobetti, infatti, oltre ad occupare un intero capitolo del libro ne costituisce il fil rouge, lo si respira in tutte le pagine, nel suo duplice ruolo di organizzatore di cultura e di teorico della “rivoluzione liberale”. E se non c’è Gobetti c’è la sua città, Torino, sede a tutt’oggi del Centro Studi a lui dedicato.
La Torino gobettiana è la Torino degli anni Venti, quella Torino, cioè, dove nascevano quasi contemporaneamente due riviste come l’“Ordine nuovo” di Gramsci e “La Rivoluzione liberale” di Gobetti, il quale si era avvicinato alle ragioni della classe operaia da critico del marxismo ma da rispettoso osservatore di Gramsci. Era quindi in quella città che si erano create le premesse della sua rivoluzione liberale, il cui motore doveva essere proprio la classe operaia, guidata però da un’intelligencija radicale ispirata non già al socialismo (inteso da Gobetti come sinonimo di statalismo, burocratismo e paternalismo), ma al liberalismo. Quindi, per semplificare potremmo dire che Gobetti accoglie il Marx della lotta di classe in chiave liberista-elitista, ma allontana completamente il Marx economista. La Rivoluzione liberale, doveva svilupparsi, secondo il suo teorico, in un’ottica pedagogico-illuminista dal sapore salveminiano, ed infatti nel famoso Manifesto che apre le pubblicazioni de “La Rivoluzione Liberale”, leggiamo: «Un compito tecnico preciso, ci attende: la preparazione degli spiriti liberi capaci di aderire, fuor dei pregiudizi, nel momento risolutivo all’iniziativa popolare».
Per meglio connotare il programma gobettiano, possiamo definirlo, come fa lo stesso Gobetti in Elogio della ghigliottina – articolo riportato nella sezione antologica – come ispirato ad un “illuminismo libertario” che avrebbe dovuto sovvertire i presupposti socio-politici del fascismo che aveva avuto “nel calderone piccolo borghese” il suo rinnovato consenso. Quello stesso consenso che si era spostato, adattandosi, dal Risorgimento (“Rivoluzione fallita”), al giolittismo (“fenomeno di degenerazione d’onestà”), fino al fascismo da Gobetti definito, come è noto, “autobiografia della nazione”.
Altra rivoluzione parallela a quella liberale che percorreva l’altra Italia, e con essa assonante, era quella meridionale proposta da Guido Dorso e il cui manifesto fu pubblicato proprio con Gobetti nel 1925. Entrambe le rivoluzioni rappresentano un “ideale inseguito”, per dirla con Sabino Cassese, ma mai realizzato, fortemente caratterizzate entrambe dall’idea del conflitto, della lotta che, anche nella rivoluzione dorsiana doveva essere guidata da una élite di intellettuali liberali radicali ma i cui veri protagonisti dovevano essere i contadini del mezzogiorno.
Dunque il meridionalismo come secondo filone importante della cultura dell’Italia di minoranza, insieme all’antifascismo che si rinnova attraverso personalità irregolari e poliedriche come appunto Pier Paolo Pasolini o intellettuali a tutto tondo come il solo citato Umberto Eco del “fascismo eterno” e, soprattutto, grazie al vero maestro di Polito, Norberto Bobbio, che nel libro, oltre a ricorrere spessissimo nelle note bibliografiche, occupa, come Gobetti, un intero capitolo e un’ampia fetta della sezione antologica. Di Bobbio, l’A. percorre solo alcune tracce specifiche del suo pensiero, partendo dal federalismo europeo. Bobbio, in attesa della realizzazione del federalismo nel quale lui si riconosceva e cioè quello che aveva nel Manifesto di Ventotene, e nella lotta antifascista il suo punto di riferimento ideale, per finalità intrinseche e per scelte istituzionali (nel senso che la federazione doveva essere la forma e l’Europa il contenuto) proponeva, insieme ad Umberto Campagnolo, militante come lui nel Movimento Federalista Europeo, un discorso più ampio, che sembra poter essere di grande attualità, sulla idea che la storia d’Europa è essenzialmente la storia di una cultura e di una civiltà.
C’è poi nelle pagine di Polito dedicate a Bobbio l’apologia dello spirito critico che anima la ricerca scientifica nel suo significato morale e sociale, che il filosofo torinese aveva assorbito dal movimento neoilluministico degli anni ’50 e ’60 di Dewey – visto assai male dalla cultura marxista italiana – che lo accomunava intellettualmente a Renato Treves e che portò entrambi a sostenere che il dovere dell’uomo di cultura è di contrastare il dogmatismo promuovendo lo spirito critico e la conseguente arte del dubbio. E l’arte del dubbio, costantemente praticata da Bobbio, lo indusse ad imboccare la strada del moderatismo e del relativismo, i cui effetti di lungo periodo sono stati spesso oggetto di critiche feroci, basti pensare a quelle di Augusto Del Noce, il quale vedeva nel gobettismo e nell’azionismo di Bobbio il “male assoluto”. Ma Polito, forse più bobbiano di Bobbio, a quanti sostengono che il filosofo del dubbio nella cultura politica italiana «ha portato alle estreme conseguenze la filosofia del liberalismo illuminista», risponde sostenendo che «la crisi dei valori attuali non deriva da un eccesso bensì da un difetto di liberalismo e di illuminismo» (p. 171).
Direi forse che è proprio questo il cuore del problema nell’attuale momento storico, caratterizzato da un indiscutibile “scontro di civiltà” che impone a tutti noi, forse soprattutto a quanti sono legati al background culturale che Polito ricostruisce, di riflettere, di ragionare sul passaggio dalla auspicata secolarizzazione della società e della politica ad un relativismo assoluto vicino al nichilismo tanto temuto da Del Noce, dove a causa dell’abuso del politicamente corretto spesso si sono perse le coordinate sui valori fondamentali, sul limite dei diritti, capovolgendo le premesse logiche che definiscono i confini del pregiudizio, così ben descritto dallo stesso Bobbio in un testo del lontano 1979 proposto in appendice (pp. 231-249).