Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a
M. Kundera, Un Occidente prigioniero
Adelphi, Milano 2022, pp. 85, €12,00.
Queste nuove, poche pagine di Milan Kundera – un discorso del 1967 e un articolo del 1983 –, appena portate in Italia da Adelphi, sono come dei lampi che illuminano tanto il presente quanto il nostro passato recente. Vi troviamo sia un appello alla libertà, come unico mezzo perché una nazione possa permettersi una vera cultura creatrice, sia la constatazione della crisi irreversibile della cultura così come l’Occidente l’ha conosciuta negli ultimi secoli. Vi troviamo, soprattutto, ribadita una evidenza che troppo spesso si dimentica: una nazione, pur accecata dal proprio provincialismo, non può dirsi senz’altro sicura della propria esistenza, che è, invece, sempre in pericolo. Ed oggi – come per le “piccole nazioni” dell’Europa centrale negli ultimi decenni e, ancora di più, nei secoli passati – il pericolo di essere inglobati da forme di annessione violenta o di integrazione addolcita è sempre incombente.
Kundera oggi non fa che ricordarci quanto il modello europeo – appunto irreversibilmente in crisi di identità post-culturale – sia antitetico al modello russo. L’Europa degli ultimi secoli si è imposta come luogo dove far convivere sempre meglio l’universale e il particolare («il massimo di diversità nel minimo spazio», p. 50); la Russia è sempre stata irrimediabilmente uno spazio altro e, in questo senso, il furore sovietico non è stato che una declinazione momentanea di una forza più antica: «All’Europa centrale e alla sua passione per la diversità, infatti, nulla poteva risultare più estraneo della Russia, uniforme, uniformante, centralizzatrice, tesa a trasformare con temibile determinazione tutte le nazioni del suo impero […] in un unico popolo russo» (pp. 50-51).
Ecco che occorre per prima cosa riconoscere la grave colpa dell’Occidente verso i paesi dell’Europa centrale, abbandonati al nemico russo (più ancora che ideologico, nemico culturale) per decenni. Popoli come quello polacco, quello ceco o quello ungherese, si sono ritrovare sotto un dominio assolutamente estraneo allo spirito europeo. Lo stesso confronto fra fascismo e stalinismo, a cui talvolta si ricorre per banalizzare lo scempio di cultura e di umanità praticato meccanicamente dai regimi filo-sovietici in questi luoghi, viene ribaltato da Kundera in modo interessante:
Non approvo che il fascismo e lo stalinismo – affermava Kundera nel 1967 – vengano messi sullo stesso piano. Il fascismo fondato su un antiumanismo disinibito ha creato una situazione relativamente semplice sotto il profilo morale: dopo essersi proposto come l’antitesi dei principi e delle virtù umanistiche, li ha lasciati intatti. Di contro, lo stalinismo è stato l’erede di un grande movimento umanista che, nonostante la furia stalinista, ha saputo conservare non poche posizioni, idee, slogan, parole e sogni originari. Vedere questo movimento umanista rovesciarsi nel suo opposto, trascinando con sé la virtù umana e trasformando l’amore per l’umanità in crudeltà nei confronti degli uomini, l’amore per la verità in delazione, ecc., non può che generare un’imprevista concezione del fondamento stesso dei valori e delle virtù umani (pp. 32-33).
Questa aberrazione, questo male radicale accusato da Kundera prima del suo esilio in Francia, rimane ancora adesso come un pericolo troppo facilmente rimosso.
Ma un’altra rimozione oggi domina nelle menti degli europei: come negli anni Ottanta, tanto più oggi bisogna rendersi conto che – come dicevamo all’inizio – la vita dello spirito, la cultura non conta più nulla, non muove più niente e nessuno. E ciò perché ad essere sparito è un elemento essenziale della vita culturale: il conflitto. Lo scriveva anni fa benissimo il compianto Daniele Del Giudice, in un intervento (Occidente Europa, dei primi anni Novanta), in cui discuteva anch’egli della crisi dello vita spirituale europea:
Essenza dello spirito europeo è sempre stata dunque l’idea di conflitto e di contraddizione (da cui, anche, uno struggente rimpianto e desiderio d’armonia»). Ed è proprio questa la prima cosa che a me pare oggi rimossa dallo spirito europeo: il conflitto. A dire il vero non è proprio rimossa, ma trasformata, e il conflitto, nel nuovo modo di produrre e di consumare in cui tutti siamo immersi, è diventato semplice competizione. Competizione, inoltre, in un solo gioco (D. Del Giudice, In questa luce, Einaudi, Torino 2013, pp. 61-62).
E proprio riferendosi a Kundera, Del Giudice aggiungeva che l’Europa ormai unificata e integrata, sempre più vittoriosa ma anche sempre più marginale, avrebbe trovato sempre più insipida quella particolare infelicità connessa alla leggerezza del benessere, vincolata in un sistema in cui la vita stessa e la morte perdono significato, in cui tutto è confinato nell’unico gioco della produzione e del commercio, anche delle idee e dell’arte. «Per morire ed essere immortali occorre confliggere contro qualcosa, sia pure un semplice sentimento di disagio, o un’ossessione, o i fantasmi che popolano la nostra mente» (ivi, p. 65).
Oggi non si può che vivere nel rimpianto di altre epoche, in cui la creatività umana e la gratuità dei valori culturali erano una vera questione di sopravvivenza, non soltanto per le élites, ma per i popoli. Le rivolte nei paesi dell’Europa centrale, a partire dagli anni Cinquanta del secolo passato, nacquero sulla spinta e con la forza degli scrittori, dei poeti, degli uomini del teatro e del cinema. Ciò oggi non sarebbe soltanto impossibile, ma sarebbe persino grottesco immaginarlo.